Calentura maligna, anno 1655 [di Nicolò Migheli]
In questi mesi di segregazione obbligata è stato naturale leggersi testi e atti che raccontavano le epidemie del passato, come la peste che dal 1652 al 1656 imperversò per la Sardegna provocando la morte di migliaia dei suoi abitanti. La pandemia attuale, benché meno mortifera, ha degli elementi simili. Poco si conosce del morbo, si è ricorso all’isolamento e al distanziamento interpersonale. Misure non molto differenti da quelle di allora. I comportamenti delle persone sono stati per certi versi simili. Un racconto storico per cercare di capire l’oggi. L’Unione Sarda 29 aprile 2020. Don Salvador Uray chino sulle sue carte si trovò davanti il segretario del viceré che lo invitava a seguirlo perché Sua Eccellenza voleva incontrarlo. Non era una novità, da quando nell’aprile del 1652 la peste era partita da Alghero quasi tutti i giorni incontrava il conte di Lemos. Il viceré lo accolse con aria sconsolata e quasi alle lacrime gli rivelò che il morbo aveva colpito dove non doveva. L’arcivescovo di Cagliari Bernardo della Cabra era morto dentro le segrete stanze dell’arcivescovado. Questa notizia non doveva essere rivelata, i medici avrebbero detto che il sant’uomo era deceduto per una calentura maligna, una febbre perniciosa come la mala aria che in estate ne portava via tanti. Però si era nel novembre del 1655 e nessuno moriva in quella stagione di quelle febbri. I medici e i chirurghi cittadini avrebbero convinto il popolo e il vescovo sarebbe stato sepolto secondo i riti di Santa Romana Chiesa. Non doveva essere rivelato, come era già avvenuto per la morte di una famiglia di contadini nell’appendice di Villanova. La loro casa era stata murata e i superstiti rinchiusi nel castello di San Michele. Se la causa di morte del vescovo si fosse saputa il panico si sarebbe diffuso in tutta la città impedendo ai nobili, ai ricchi commercianti, la prima pratica delle profilassi personale: luego, lejos y largo tiempo, presto, lontano e per molto tempo. Fuggire, chi poteva l’avrebbe fatto, scappando nella residenza di campagna, in luoghi dove il contagio si era già spento. Don Salvador però non si sarebbe potuto allontanare da Cagliari, il viceré gli ordinò di restare, lui doveva seguire la Junta de morbo, stabilire dove raccoglie i malati, scegliere i luoghi di sepoltura, disinfettare con fumigazioni le abitazioni dei defunti che potevano pagarsele, coordinare i medici. Mentre gli abiti, le masserizie dei morti poveri venivano date alle fiamme. Fu in quel preciso istante che decise con se stesso e con l’aiuto di Dio che sarebbe sopravissuto. Il giorno seguente spedì sua moglie e i suoi tre figli nella villa di campagna con un nutrito gruppo di servi che ne avrebbero garantito sicurezza e isolamento. Nelle prime settimane don Salvador cercò di mantenere una vita normale, la mattina si recava nel suo ufficio per sbrigare le pratiche e ricevere la Junta che lo aggiornava sullo stato dell’epidemia, ma ogni giorno che passava riceveva notizie terribili. Aveva predisposto che le strade venissero pulite perché le immondezze e gli escrementi provocano i miasmi e che venissero accesi fuochi dappertutto per purificare l’aria. La famiglia lontana gli permetteva di frequentare con maggior tranquillità la sua amante, una cortigiana nota che dispensava le sue grazie senza troppi pensieri. Però Uray viveva questo suo comportamento con un senso di colpa, viveva nel peccato e aveva paura che il castigo di Dio lo punisse. Decise che avrebbe espiato. Si rinchiuse in casa, ma non avrebbe derogato al suo impegno. Passata la peste il viceré lo avrebbe premiato con un incarico più importante. Per fortuna sua aveva una casa grande. Fece trasportare il suo letto nella biblioteca, una stanza ampia foderata di libri e con una finestra che dava su di un cortile interno da cui sporgendosi era possibile vedere il cielo e uno spicchio di mare. Finestra che sarebbe stata aperta pochissime volte, giusto per cambiare l’aria. Sulla parete fece costruire una ruota in legno, da dove i famigli gli avrebbero passato il cibo e il vaso da notte. Dal suo ritiro avrebbe potuto continuare il lavoro e anche le riunioni quotidiane non si sarebbero interrotte. Tramite la ruota poteva parlare con i componenti della Junta. Non li avrebbe visti in viso, poco importava, avrebbe sentito le loro parole, avrebbe ricevuto le carte fumigate precedentemente. Una vita reclusa che avrebbe trascorso nelle letture, la preghiera e il lavoro. Solo la parola peste non poteva essere pronunciata, ancora nel marzo dei 1656 la Junta, i medici e chirurghi di Cagliari, avevano la consegna di parlare solamente di calenturas malignas. La capitale del Regno doveva essere indenne. Don Salvador e i suoi conoscevano la verità. Il nobiluomo si preoccupava ogni giorno che passava ma il suo ruolo gli imponeva di essere ottimista, di non cedere neanche davanti alle evidenze. Neppure quando gli venne portata la notizia che sua moglie e i figli erano stati uccisi dal morbo. Don Salvador pregò per loro, considerò quei decessi come un sacrificio primordiale ai cieli corrotti che avevano rovesciato il male sulla Terra. Pianse e si disperò, solo un giorno però. Lui si considerava un fortunato, la sua casa aveva un pozzo privato così i famigli non uscivano se non per l’indispensabile. Il pozzo era stato sanificato con il bolo armeno, un’argilla con l’ossido di ferro, di straordinaria purezza. Tutti i giorni fumigava l’ambiente in cui viveva con l’aloe e la mirra secondo la teoria miasmatica. In altri luoghi come i lazzaretti si facevano entrare greggi di capre in modo che il loro afrore contrastasse la malattia. Leggeva i libri sulla peste, oltre ai classici come Avicenna, il suo interesse era per i moderni come il siciliano Angelario. Il suo preferito era Información y curación de la peste de Zaragoza di Joan Tomás Porcell, medico cagliaritano. Don Uray seguiva le indicazioni di quei libri per il cibo e le abluzioni. Niente alimenti umidi che favorivano il contagio, niente latte e latticini che potevano corrompersi, solo carni cotte e affogate nell’aceto. Il pane di buone farine. Per bere e lavarsi si faceva portare dell’acqua bollente in modo che fosse sicuro che fosse purificata, poi però la beveva fredda, così come si lavava battendo i denti in quell’ambiente gelido. Agelario l’aveva spiegato bene, bisognava far uscire i fluidi dal corpo, ecco perché i bubboni dovevano essere incisi e se il malato lo sopportava anche il salasso poteva essere un bene, le donne erano favorite in questo dalle mestruazioni. Allo stesso tempo bisognava rifuggire dall’acqua calda che aprendo i pori poteva favorire il contagio. Per intercessione di Sant’Efis anche la peste ebbe termine. Finalmente Don Salvador poteva uscire, era felice, era riuscito a vincere il morbo, aveva tenuto fede alla promessa che si era fatto. Dio era con lui. Per aprire la porta si dovette chiamare un artigiano, tanto era saldata agli stipiti. Don Uray trasse il suo abito migliore da una cassa e uscì. La luce lo abbagliò, camminava rasente i muri come i topi, temeva gli spazi aperti, rientrò subito a casa dove si sentiva sicuro. Non avrebbe mai immaginato che tutti quei mesi rinchiuso gli avrebbero creato diffidenza verso i luoghi aperti. Sentì il pizzico di una pulce, ma non ci fece caso. La sera aveva già la febbre alta e si ricoprì di bubboni. Don Salvador fu l’ultimo morto di peste, ma non lo si poteva dire se no la grazia di Sant’Efis dove sarebbe andata a finire? I medici scrissero calentura maligna. Venne sepolto sotto la calce. |