La conquista dell’America [di Nikole Hannah-Jones]
https://www.internazionale.it/2020/05/08/ – The New York Times Magazine, Stati Uniti. Questo articolo è uscito l’11 ottobre 2019 nel numero 1328 di Internazionale. Il 5 aprile 2020 ha vinto il premio Pulitzer nella categoria Commentary. Mio padre faceva sempre sventolare una bandiera degli Stati Uniti nel nostro giardino. La vernice azzurra della casa a due piani era perennemente scrostata; la staccionata, la ringhiera delle scale e la porta d’ingresso erano vecchie e rovinate, ma quella bandiera era sempre perfetta. Vivevamo in una casa isolata lungo il fiume, che nella nostra cittadina dell’Iowa divideva la zona dove vivevano i neri da quella dei bianchi. Sul bordo del prato, in cima a un’asta di alluminio, sventolava la bandiera, che mio padre sostituiva appena mostrava anche il minimo strappo. Era nato da una famiglia di mezzadri in una piantagione bianca di Greenwood, nel Mississippi, dove i neri stavano piegati sulle piante di cotone dalle ore ancora buie del mattino alle ore già buie della sera, esattamente come avevano fatto i loro antenati schiavi fino a non molto tempo prima. Il Mississippi della giovinezza di mio padre era uno stato dove c’era la segregazione razziale e dove i neri, che erano quasi la maggioranza della popolazione, venivano sottomessi con incredibili atti di violenza. I bianchi del Mississippi linciavano più neri di quelli di qualsiasi altro stato del paese, e i bianchi della contea di mio padre ne linciavano più di quelli di qualsiasi altra contea del Mississippi, spesso per “reati” come entrare in una stanza dove c’erano donne bianche, scontrarsi involontariamente con una ragazza bianca o cercare di fondare un sindacato. La madre di mio padre, come tutte le persone nere di Greenwood, non poteva votare né entrare nella biblioteca pubblica. E non poteva fare un lavoro che non fosse nei campi di cotone o nelle case dei bianchi. Perciò negli anni quaranta prese i suoi pochi averi e i tre figli piccoli e si unì alla marea di neri del sud che fuggivano a nord. Scese dal treno delle ferrovie dell’Illinois a Waterloo, nell’Iowa, solo per rendersi conto che le speranze su una mitica terra promessa erano un’illusione e per accorgersi che la segregazione non finiva quando si usciva dal sud. Trovò una casa in un quartiere della zona est della città abitato solo da neri. Trovò anche un lavoro, l’unico considerato adatto a una nera, come donna delle pulizie a casa di una famiglia di bianchi. Anche mio padre cercò invano la terra promessa. Nel 1962, a 17 anni, si arruolò nell’esercito. Lo fece per sfuggire alla povertà ma anche per un altro motivo, comune a molti neri: sperava che, se lo avesse servito, forse un giorno il suo paese lo avrebbe finalmente trattato come un americano. Non andò così. Nell’esercito gli fu negata qualsiasi opportunità e le sue ambizioni furono soffocate. Fu congedato per motivi poco chiari e lavorò a servizio per il resto dei suoi giorni. Come tutti gli uomini e le donne della mia famiglia, credeva nel duro lavoro, ma come tutti gli uomini e le donne della mia famiglia non riuscì mai a fare carriera. Perciò da giovane pensavo che quella bandiera davanti a casa nostra non avesse senso. Come poteva quell’uomo, che aveva vissuto sulla sua pelle il razzismo contro i neri, essere fiero della bandiera statunitense? Non capivo il suo patriottismo. Anzi, mi metteva profondamente in imbarazzo. A scuola avevo imparato che la bandiera non era veramente nostra, che la storia del nostro popolo era cominciata con la schiavitù e che noi afroamericani avevamo contribuito poco al successo di questa grande nazione. Sembrava che la cosa più vicina all’orgoglio culturale dei neri americani andasse cercata in un vago legame con l’Africa, un posto dove non eravamo mai stati. Che mio padre si sentisse onorato di essere americano mi sembrava un segno della sua umiliazione, della sua accettazione del fatto che eravamo subordinati. Come molti giovani, pensavo di capire tutto, mentre in realtà capivo molto poco. Quando alzava la bandiera mio padre sapeva esattamente quello che faceva. Sapeva che il contributo del nostro popolo alla costruzione del paese più ricco e più potente del mondo era indelebile, che gli Stati Uniti senza di noi semplicemente non sarebbero esistiti. Le fortune dei bianchi. Nell’agosto del 1619, appena dodici anni dopo che gli inglesi si erano insediati a Jamestown, in Virginia, un anno prima che i pellegrini puritani sbarcassero a Plymouth Rock e circa 157 anni prima che i coloni inglesi decidessero di fondare un loro paese rompendo i legami con la corona britannica, gli abitanti di Jamestown comprarono una trentina di schiavi africani dai pirati inglesi. I pirati li avevano rubati da una nave portoghese che li aveva trascinati via con la forza da quello che oggi è l’Angola. Gli uomini e le donne che scesero a terra in quel mese di agosto segnarono l’inizio della schiavitù americana. Erano i primi dei 12,5 milioni di africani che furono rapiti e trasportati in catene dall’altra parte dell’oceano Atlantico nella più grande migrazione forzata di massa della storia prima della seconda guerra mondiale. Quasi due milioni di persone morirono durante quel viaggio estenuante. Gli africani venduti agli Stati Uniti prima dell’abolizione della tratta internazionale degli schiavi furono 400mila. Quelle persone e i loro discendenti trasformarono le terre su cui erano stati trascinati con la forza nelle colonie più ricche dell’impero britannico. Si spezzarono la schiena per disboscare tutta la regione del sudest. Insegnarono ai coloni a piantare il riso. Coltivarono e raccolsero il cotone che al culmine dello schiavismo era la merce più preziosa del paese, visto che in quel periodo gli Stati Uniti producevano il 66 per cento del cotone mondiale. Crearono le piantagioni dei padri fondatori degli Stati Uniti, tra cui George Washington, Thomas Jefferson e James Madison: enormi tenute che oggi attirano migliaia di visitatori affascinati dalla storia della più grande democrazia del mondo. Gettarono le fondamenta della Casa Bianca e del palazzo del congresso. Posarono le pesanti rotaie delle ferrovie che attraversavano il sud e trasportavano il cotone fino alle fabbriche tessili del nord, alimentando la rivoluzione industriale. Costruirono vaste fortune per i bianchi del nord e del sud, tanto che a un certo punto il secondo uomo più ricco del paese era un mercante di schiavi del Rhode Island. I profitti del lavoro rubato ai neri aiutarono il paese appena nato a pagare i suoi debiti di guerra e finanziarono alcune delle sue università più prestigiose. Lo schiavismo fece prosperare il settore bancario, assicurativo e commerciale di Wall street e trasformò New York nella capitale della finanza mondiale. Gli Stati Uniti sono un paese fondato su un ideale e al tempo stesso su una menzogna. Ma sarebbe sbagliato parlare solo del contributo materiale dei neri per creare ricchezza. Gli americani neri sono stati, e continuano a essere, fondamentali per l’idea di libertà del paese. Più di qualsiasi altro gruppo di persone, noi neri abbiamo svolto, generazione dopo generazione, un ruolo sottovalutato ma fondamentale: siamo stati noi a perfezionare la democrazia statunitense. Gli Stati Uniti sono un paese fondato su un ideale e al tempo stesso su una menzogna. La dichiarazione d’indipendenza dalla corona britannica, ratificata il 4 luglio del 1776, afferma che “tutti gli uomini sono creati uguali” e “dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili”. Ma gli uomini bianchi che hanno scritto queste parole non credevano che valessero anche per le centinaia di migliaia di neri che all’epoca costituivano un quinto della popolazione. Eppure, anche se gli venivano negate libertà e giustizia, i neri avevano una fede cieca nel credo americano. Resistendo e protestando abbiamo aiutato il paese a essere all’altezza degli ideali su cui era stato fondato. E non lo abbiamo fatto solo per noi: le lotte per i diritti dei neri hanno aperto la strada alle lotte per altri diritti, compresi quelli delle donne, degli omosessuali, degli immigrati e dei disabili. Senza l’impegno coraggioso, idealistico e patriottico degli americani neri, molto probabilmente oggi gli Stati Uniti sarebbero una democrazia diversa, forse non sarebbero neanche una democrazia. La prima persona a morire per questo paese durante la rivoluzione americana fu un nero che non era libero. Crispus Attucks era uno schiavo fuggiasco, ma diede la vita per una nazione che nel secolo seguente avrebbe negato la libertà al suo popolo. I neri sono stati in prima linea in tutte le guerre combattute dagli Stati Uniti, e oggi sono il gruppo più presente nell’esercito statunitense. Mio padre, uno dei tanti neri che risposero alla chiamata del loro paese, sapeva una cosa che io avrei impiegato anni a capire: che per la storia americana il 1619 è importante quanto il 1776; che i neri americani sono i “padri fondatori” quanto lo sono gli uomini ritratti nelle statue a Washington. E che nessuno ha più diritto di noi a rivendicare quella bandiera. Ereditabile e permanente. Nel giugno del 1776 Thomas Jefferson si sedette al suo scrittorio portatile in una stanza di Filadelfia e annotò queste parole: “Noi riteniamo che siano per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà, e il perseguimento della felicità”. Da 243 anni questa fiera affermazione del diritto naturale e fondamentale degli esseri umani alla libertà e all’autogoverno definisce la nostra fama nel mondo come terra della libertà. Ma mentre Jefferson scriveva quelle parole, un ragazzo che non avrebbe goduto di nessuno di quei diritti aspettava accanto a lui gli ordini del padrone. Si chiamava Robert Hemings, ed era il fratellastro di Martha Jefferson, la moglie del politico americano. Il padre di Martha Jefferson aveva avuto Hemings da una donna nera di sua proprietà. Succedeva spesso che i padroni bianchi tenessero come schiavi i loro figli mulatti. Jefferson aveva scelto Hemings, uno dei circa 130 schiavi impiegati nel campo di lavoro forzato che chiamava Monticello, perché lo accompagnasse a Filadelfia e gli garantisse tutte le comodità mentre stilava il testo che segnava la nascita di una nuova repubblica democratica. All’epoca un quinto della popolazione delle 13 colonie era vittima del più brutale sistema di schiavismo che fosse mai esistito. La schiavitù era legata esclusivamente all’appartenenza razziale. Non era temporanea ma ereditabile e permanente, nel senso che generazioni di neri nascevano schiavi e trasmettevano questa condizione ai loro discendenti. Gli schiavi non erano considerati esseri umani ma proprietà che potevano essere ipotecate, scambiate, comprate e vendute, usate come garanzia, regalate ed eliminate in modo violento. Gli schiavi non potevano sposarsi legalmente. Non potevano imparare a leggere né riunirsi in privato. Non avevano nessun diritto sui loro figli, che potevano essere comprati e venduti alle aste insieme ai mobili e al bestiame o nei negozi con la scritta “negri in vendita”. Gli schiavisti e i tribunali non riconoscevano i legami di parentela di madri, fratelli, cugini. Nella maggior parte dei tribunali gli schiavi non godevano di nessun diritto. I padroni potevano violentare o assassinare le loro proprietà senza subire conseguenze. Gli schiavi non potevano possedere né ereditare niente. La tortura era legalizzata, anche nella tenuta di Jefferson. Spesso gli schiavi morivano per il troppo lavoro, per garantire il massimo profitto ai padroni. Costituzione ipocrita. Dalla mitologia fondante degli Stati Uniti è stato opportunemente cancellato il fatto che i coloni decisero di dichiarare l’indipendenza dalla Gran Bretagna anche e soprattutto perché volevano proteggere l’istituto della schiavitù. Nel 1776 la Gran Bretagna aveva ormai un rapporto profondamente conflittuale con il ruolo che aveva svolto nella nascita di quella pratica barbarica. A Londra in molti ne chiedevano l’abolizione. Se quelle proposte fossero state accolte l’economia delle colonie americane, sia al nord sia al sud, ne avrebbe risentito enormemente. La ricchezza che permise a Jefferson – che all’epoca della dichiarazione d’indipendenza aveva solo 33 anni – e agli altri padri fondatori di credere di poter uscire da uno dei più potenti imperi del mondo derivava proprio dai profitti generati dallo schiavismo. In altre parole, forse i coloni non si sarebbero mai ribellati alla madrepatria se non avessero capito che era proprio la schiavitù a consentirglielo; e non lo avrebbero fatto se non fossero stati convinti che l’indipendenza era necessaria per garantire che la schiavitù continuasse. Non è un caso se dieci dei primi dodici presidenti degli Stati Uniti erano proprietari di schiavi. Nella versione finale della dichiarazione d’indipendenza non si fanno cenni alla schiavitù. E undici anni dopo, quando arrivò il momento di scrivere la costituzione, i suoi autori elaborarono con cura un documento che preservava e difendeva la schiavitù senza neanche nominarla. La costituzione degli Stati Uniti si occupa direttamente della schiavitù in sei punti, come ha spiegato lo storico David Waldstreicher, mentre in altri cinque ne parla indirettamente. Il testo proteggeva le “proprietà” degli schiavisti, vietava al governo federale d’intervenire per mettere fine all’importazione di schiavi africani per un periodo di vent’anni, consentiva al congresso di mobilitare le milizie per sedare le rivolte degli schiavi e costringeva gli stati dove la schiavitù era illegale a consegnare le persone fuggite dagli stati schiavisti. Lo scrittore e abolizionista Samuel Bryan denunciò l’inganno contenuto nella costituzione dicendo: “Le sue parole sono oscure e ambigue, tanto che nessun uomo semplice e di buon senso le avrebbe mai usate, e sono chiaramente state scelte per nascondere all’Europa che in questo paese illuminato la pratica dello schiavismo ha i suoi sostenitori anche tra gli uomini che ricoprono le più alte cariche di potere”. Secondo molti studiosi, il paradosso di continuare il traffico di schiavi in un paese fondato sulla libertà individuale portò a un irrigidimento del sistema delle caste basato sull’appartenenza razziale. Questa ideologia, rafforzata non solo dalle leggi ma dalla scienza e dalla letteratura razziste, sosteneva che i neri erano subumani, permettendo agli americani bianchi di continuare a vivere nella menzogna. Secondo gli storici Leland Ware, Robert Cottrol e Raymond Diamond, gli americani bianchi, che fossero o meno coinvolti nello schiavismo, “investivano psicologicamente ed economicamente sulla dottrina dell’inferiorità dei neri”. Mentre la libertà era un diritto inalienabile delle persone considerate bianche, la schiavitù e l’assoggettamento erano la condizione naturale delle persone che avevano anche una sola goccia di sangue “nero”. La legalità di questo concetto fu sancita dalla corte suprema nel 1857: i giudici del massimo organo della giustizia statunitense decretarono che i neri, sia gli schiavi sia le persone libere, discendevano da una razza “schiava”. Questo li rendeva inferiori ai bianchi e, di conseguenza, incompatibili con la democrazia statunitense. Questa teoria legittimò il razzismo endemico che gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a estirpare. Se i neri non potevano mai diventare dei cittadini, se erano una casta separata da tutti gli altri esseri umani, non avevano bisogno dei diritti sanciti dalla costituzione, e così quel “noi” contenuto nella frase “noi il popolo” non era una bugia. La soluzione di Lincoln. Il 14 agosto del 1862, solo cinque anni dopo la sentenza della corte suprema, il presidente Abraham Lincoln organizzò alla Casa Bianca un incontro con cinque stimati uomini liberi neri. Non succedeva spesso che dei neri entrassero nella residenza del presidente. La guerra civile tra il nord e il sud infuriava da più di un anno e gli abolizionisti neri, che facevano sempre più pressione su Lincoln perché abolisse la schiavitù, dovevano essere emozionati e orgogliosi per quell’invito. La guerra non stava andando bene per Lincoln. La Gran Bretagna stava valutando la possibilità di intervenire al fianco della confederazione sudista, e Lincoln, che non riusciva a trovare abbastanza volontari bianchi da mandare a combattere, fu costretto a prendere in considerazione l’idea di arruolare americani neri tra le file dell’esercito nordista. Al momento della riunione con i leader neri Lincoln stava pensando a un proclama che emancipasse tutti gli schiavi negli stati che si erano staccati dall’unione se non si fossero arresi. Il proclama avrebbe anche permesso agli ex schiavi di arruolarsi nell’esercito dell’unione e di combattere contro i loro ex “padroni”. Ma Lincoln era preoccupato per le conseguenze di una decisione così radicale. Come molti americani bianchi era contrario alla schiavitù, che considerava un sistema crudele in contrasto con gli ideali americani, ma era anche contrario a riconoscere l’uguaglianza dei neri. Pensava che i neri liberi fossero una “presenza problematica” incompatibile con una democrazia destinata solo ai bianchi. Quattro anni prima aveva detto: “Liberarli e renderli politicamente e socialmente nostri pari? Questo i miei sentimenti non lo accettano, e anche se lo facessero, sappiamo bene che la grande maggioranza dei bianchi non lo accetterebbe”. In quel giorno di agosto, quando arrivarono alla Casa Bianca, i cinque neri furono accolti dalla figura imponente di Lincoln e da James Mitchell, che otto giorni prima era stato nominato dal presidente commissario per l’emigrazione, una posizione appena creata nell’amministrazione. Dopo un breve scambio di convenevoli, Lincoln andò subito al punto e informò i suoi ospiti di aver convinto il congresso a stanziare i fondi per mandare via i neri dagli Stati Uniti una volta liberati. “Perché i neri dovrebbero lasciare questo paese? Questa è forse la prima questione su cui ragionare”, disse Lincoln. “Perché voi e noi apparteniamo a razze diverse. La vostra razza ha molto sofferto vivendo tra noi, mentre la nostra soffre per la vostra presenza. In poche parole, tutti soffriamo”. Potete immaginare il silenzio che cadde in quella stanza, mentre il peso di quello che il presidente aveva detto toglieva momentaneamente il respiro a quei cinque uomini neri. Erano passati esattamente 243 anni da quando i loro primi antenati erano sbarcati su quelle spiagge, prima della famiglia di Lincoln e molto prima della maggior parte dei bianchi che insistevano nel sostenere che i neri non potevano vivere in quel paese. L’unione non era scesa in guerra per mettere fine alla schiavitù ma per impedire che il sud si separasse, eppure molti neri si erano arruolati. Gli schiavi fuggivano dai loro campi di lavoro forzato – che ancora oggi chiamiamo piantagioni – e cercavano di unirsi ai combattimenti, servivano come spie, sabotavano i confederati, imbracciavano le armi per difendere la loro causa e quella dell’unità della nazione. E ora Lincoln li accusava di essere responsabili della guerra. “Anche se a molti uomini impegnati da entrambe le parti non importa nulla di voi, senza l’istituto della schiavitù e la razza nera, la guerra non sarebbe scoppiata”, disse il presidente. “È meglio per tutti, quindi, se ci separiamo”. Quando Lincoln ebbe finito di parlare, Edward Thomas, che guidava la delegazione, lo informò, forse in modo un po’ brusco, che intendevano consultarsi sulla sua proposta. “Prendetevi tutto il tempo che volete”, disse Lincoln. “Non c’è nessuna fretta”. Gli anni della speranza. Circa tre anni dopo quell’incontro, il generale Robert E. Lee, comandante delle truppe confederate, si arrese all’esercito nordista. All’improvviso quattro milioni di neri americani stavano per diventare liberi. E, contrariamente a quello che pensava Lincoln, la maggior parte di loro non aveva nessuna intenzione di andarsene, in linea con una risoluzione presentata a un convegno di leader neri a New York decine di anni prima: “Questa è la nostra patria e il nostro paese. Sotto la sua terra giacciono le ossa dei nostri padri. Qui siamo nati e qui moriremo”. Il fatto che gli ex schiavi si rifiutassero di lasciare il paese è una sorprendente dimostrazione della loro fedeltà agli ideali fondanti degli Stati Uniti. Come scrisse lo storico nero W.E.B. Du Bois: “Pochi uomini hanno venerato la libertà come hanno fatto i neri americani per due secoli”. I neri invocavano da tempo l’uguaglianza ed erano convinti, come scrisse l’abolizionista Martin Delany, che “Dio ha dato lo stesso sangue a tutti i popoli che vivono sulla faccia della terra”. Così, finita la guerra, non volevano vendicarsi dei loro oppressori, come temevano Lincoln e tanti altri americani bianchi. Al contrario, tra il 1865 e il 1877 (il periodo successivo alla guerra conosciuto come “ricostruzione”) gli ex schiavi s’impegnarono per migliorare il processo democratico. La maggiore conquista dei neri fu la creazione di un sistema d’istruzione pubblico. Mentre le truppe federali cercavano di arginare la violenza dei bianchi, i neri del sud aprirono sedi della Equal rights league – una delle prime organizzazioni del paese per la difesa dei diritti umani – per combattere le discriminazioni e mobilitare gli elettori. Andarono in massa alle urne, riuscendo a eleggere degli ex schiavi nei seggi che erano stati dei loro padroni. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il sud cominciò a somigliare a una democrazia, con i neri che ricoprivano cariche politiche a livello locale, statale e federale. Al congresso ne arrivarono sedici, tra cui Hiram Revels del Mississippi. Più di seicento neri entrarono nei parlamenti degli stati del sud e centinaia ricoprirono incarichi a livello locale. Questi deputati neri si unirono ai repubblicani bianchi, alcuni dei quali venivano dal nord, per scrivere le costituzioni statali più ugualitarie che il sud avesse mai avuto. Contribuirono all’approvazione di norme fiscali più eque e di leggi che proibivano qualsiasi discriminazione sui trasporti pubblici e nel mercato immobiliare. La loro maggiore conquista fu la creazione della più democratica delle istituzioni statunitensi: la scuola pubblica. Invenzione geniale. Prima della ricostruzione, nel sud del paese non esisteva una vera scuola pubblica. I bianchi ricchi mandavano i figli nelle scuole private, mentre i bambini bianchi di famiglia povera non potevano studiare. Ma i neri appena liberati, che fino a quel momento non avevano potuto imparare a leggere e a scrivere, avevano un disperato desiderio di istruzione. Perciò i politici neri riuscirono a far approvare leggi che crearono un sistema scolastico finanziato dallo stato e destinato a tutti, non solo ai loro figli. I deputati neri contribuirono anche all’approvazione delle prime leggi sull’istruzione obbligatoria nella regione. I bambini del sud, bianchi o neri che fossero, furono obbligati ad andare a scuola come i loro fratelli del nord. Appena cinque anni dopo l’inizio della ricostruzione, tutti gli stati del sud avevano inserito nelle loro costituzioni il diritto all’istruzione pubblica per tutti i bambini. In alcuni stati, come la Louisiana e la South Carolina, per un breve periodo un piccolo numero di bambini bianchi e neri andò a scuola insieme. Negli anni immediatamente successivi all’abolizione della schiavitù, negli Stati Uniti ci fu la più grande espansione dei diritti umani e civili che il paese abbia mai vissuto. Nel 1865 il congresso approvò il tredicesimo emendamento, che faceva degli Stati Uniti uno degli ultimi paesi del continente a dichiarare fuorilegge la schiavitù. L’anno successivo, esercitando il loro nuovo potere, i neri spinsero i politici bianchi ad approvare il Civil rights act, la più importante legge sui diritti civili che il congresso abbia mai introdotto. Stabiliva per la prima volta il diritto di cittadinanza per i neri americani, vietava le discriminazioni nell’affitto delle case e dava a tutti gli americani il diritto di acquistare ed ereditare beni, stipulare contratti e ricorrere ai tribunali se non erano rispettati. Nel 1868 il congresso ratificò il quattordicesimo emendamento, che garantiva la cittadinanza a chiunque fosse nato negli Stati Uniti. Oggi, grazie a quel provvedimento, la costituzione garantisce automaticamente la cittadinanza e gli stessi diritti giuridici a tutti i bambini nati negli Stati Uniti da immigrati europei, asiatici, latinoamericani o mediorientali. Da allora quasi tutti gli altri gruppi emarginati hanno invocato quell’emendamento nelle loro lotte per la parità (per esempio nel dibattito alla corte suprema sui matrimoni tra persone dello stesso sesso). Infine, nel 1870 il congresso approvò il quindicesimo emendamento, che concedeva il diritto di voto a tutti gli uomini a prescindere da “razza, colore o precedente condizione di servitù”. Il razzismo nei confronti dei neri scorre nel dna di questo paese, come la convinzione, ben espressa da Lincoln nell’ottocento, che i neri costituiscano un ostacolo all’unità nazionale. I bianchi del sud reagirono alle molte conquiste di quel periodo con una resistenza feroce: violenze inimmaginabili nei confronti degli ex schiavi, repressioni su vasta scala degli elettori, brogli elettorali e perfino, in alcuni casi estremi, il rovesciamento di governi democraticamente eletti. Di fronte a queste azioni, il governo federale decise che la causa del problema erano i neri, e che la soluzione migliore per preservare l’unità nazionale fosse lasciare che i bianchi del sud facessero quello che volevano. Nel 1877, per raggiungere un compromesso con i democratici del sud che gli avrebbe garantito la vittoria in un’elezione contestata, il presidente Rutherford B. Hayes accettò di ritirare le truppe federali dal sud. Una volta andati via i soldati, i bianchi cominciarono subito a cancellare le conquiste della ricostruzione. La sistematica repressione dei neri fu così pesante che quel periodo, tra gli anni ottanta dell’ottocento e gli anni venti e trenta del novecento, fu chiamato il Grande nadir, o la seconda schiavitù. Al sud la democrazia non sarebbe tornata per quasi un secolo. Mentre riportavano i neri in condizioni di quasi schiavitù, i bianchi del sud di tutte le classi sociali videro migliorare notevolmente le loro condizioni di vita, anche grazie alle leggi e alle politiche progressiste volute dai neri. Come ha detto una volta Waters McIntosh, ex schiavo e leader del movimento per i diritti civili: “Furono i bianchi poveri a essere liberati dalla guerra civile, non i neri”. Ritorno doloroso. I pini della Georgia scorrevano veloci fuori dai finestrini dell’autobus Greyhound che riportava Isaac Woodard a Winnsboro, in South Carolina. Dopo aver servito per quattro anni nell’esercito durante la seconda guerra mondiale, dove si era guadagnato una medaglia, era stato congedato con onore e stava tornando a casa per rivedere la moglie. Quando l’autobus si fermò davanti a un negozio a un’ora da Atlanta, Woodard ebbe una breve discussione con l’autista bianco a cui aveva chiesto se poteva andare in bagno. Circa mezz’ora dopo, l’autista si fermò di nuovo e gli disse di scendere dall’autobus. Quando scese, Woodard, che era ancora in uniforme, trovò la polizia ad aspettarlo. Prima che potesse parlare, uno degli agenti lo colpì alla testa con uno sfollagente, così forte da fargli perdere coscienza. I colpi erano stati talmente violenti che il giorno dopo, quando si svegliò in prigione, non vedeva più. Il pestaggio era avvenuto solo quattro ore e mezzo dopo il suo congedo. Woodard aveva 26 anni, e non avrebbe mai recuperato la vista. La sua non era una storia insolita. Faceva parte dell’ondata di violenza contro i neri cominciata dopo la ricostruzione sia al nord sia al sud. Mentre lo spirito ugualitario del dopoguerra veniva cancellato dal desiderio di riunificazione nazionale, con la loro semplice esistenza i neri americani ricordavano al paese i suoi fallimenti. I bianchi reagirono a questo disagio creando un sistema di apartheid razziale imposto con la violenza che escludeva quasi completamente i neri dalla vita del paese, un sistema così grottesco che in seguito la Germania nazista ne avrebbe tratto ispirazione per le sue politiche razziste. Nel 1896 la corte suprema affermò che la segregazione razziale dei neri non era incostituzionale, nonostante il quattordicesimo emendamento. Con la benedizione del più alto tribunale del paese e nessuna volontà da parte del governo federale di rivendicare i diritti dei neri, a partire dalla fine dell’ottocento gli stati del sud approvarono una serie di leggi e di decreti che rendevano permanente il sistema delle caste del periodo schiavista, negando ai neri i diritti politici, l’uguaglianza sociale e la più elementare dignità. Introdussero test di alfabetismo per impedire ai neri di votare e istituirono primarie per le elezioni a cui potevano partecipare solo i bianchi. I neri non potevano far parte delle giurie e testimoniare in tribunale contro i bianchi. In South Carolina le fabbriche tessili avevano porte separate per bianchi e neri. L’Oklahoma costrinse le società telefoniche a creare cabine separate. A Baltimora fu approvata un’ordinanza che vietava ai neri di trasferirsi in un isolato abitato per più della metà da bianchi e ai bianchi di trasferirsi in un isolato abitato per più della metà da neri. In Georgia diventò illegale seppellire i bianchi e i neri gli uni accanto agli altri. L’Alabama vietò ai neri di usare le biblioteche pubbliche finanziate con le loro tasse. Nel nord i politici bianchi approvarono leggi che segregavano i neri in quartieri degradati e in scuole solo per loro; c’erano piscine pubbliche solo per i bianchi, nelle fiere di paese c’erano le giornate per “la gente di colore”, e c’erano negozi che si rifiutavano regolarmente di servire i neri. La California si unì agli stati del sud vietando i matrimoni misti, mentre l’Illinois e il New Jersey imposero scuole separate. Il secondo sforzo. Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale il razzismo aumentò perché i bianchi capirono che se i neri fossero andati all’estero e avessero visto come si viveva fuori dalla soffocante atmosfera di repressione razziale degli Stati Uniti, difficilmente avrebbero accettato di farsi sottomettere una volta tornati a casa. Durante la prima guerra mondiale James K. Vardaman, senatore del Mississippi, disse che i soldati neri che tornavano al sud avrebbero “inevitabilmente provocato una catastrofe”. Molti americani bianchi vedevano i neri in uniforme non come patrioti ma come persone che esibivano un pericoloso orgoglio. Centinaia di reduci neri furono picchiati, mutilati, aggrediti con le armi e linciati. All’apice di quel periodo di terrorismo razziale, i neri americani non venivano solo uccisi ma castrati, bruciati vivi, smembrati, con parti del loro corpo messe in mostra davanti ai negozi. Questa violenza aveva lo scopo di terrorizzarli e controllarli, ma forse, cosa altrettanto importante, era un balsamo per la supremazia bianca. Nessuno avrebbe mai trattato così un essere umano. L’eccesso di violenza era un sintomo del meccanismo psicologico necessario per assolvere gli americani bianchi dal peccato originale del loro paese. Per rispondere a chi chiedeva come potevano apprezzare tanto la libertà all’estero e contemporaneamente negare la libertà a un’intera comunità a casa loro, gli americani bianchi risuscitarono l’ideologia razzista che Jefferson e gli autori della costituzione avevano usato per fondare il paese. L’ideologia secondo cui i neri appartenevano a una razza inferiore non era scomparsa una volta abolita la schiavitù. Se gli ex schiavi e i loro discendenti avessero studiato, se avessero dimostrato di saper fare anche i lavori dei bianchi o di eccellere nelle scienze e nelle arti, l’esistenza della schiavitù non sarebbe più stata giustificata. I neri liberi erano una minaccia per l’idea che il paese aveva di se stesso, sollevavano uno specchio in cui gli altri americani non volevano guardarsi. Così la disumanità nei confronti dei neri praticata da tutte le generazioni di bianchi giustificava la disumanità del passato. Proprio come temevano gli americani bianchi, la seconda guerra mondiale fu la miccia che diede vita al secondo sforzo dei neri per creare una vera democrazia. Il pestaggio di Woodard è considerato una delle scintille della decennale ribellione che oggi chiamiamo movimento per i diritti civili. Ma è utile ricordare che quello fu il secondo movimento di massa per i diritti civili dei neri. Mentre si avvicinava il centenario dell’abolizione della schiavitù, i neri stavano ancora cercando di ottenere i diritti per i quali avevano combattuto e che avevano momentaneamente conquistato dopo la guerra civile: il diritto a essere trattati in modo giusto dalle istituzioni pubbliche, che era stato garantito nel 1866 dal Civil righs act; il diritto a essere considerati cittadini a pieno titolo davanti alla legge, che era stato sancito nel 1868 dal quattordicesimo emendamento; e il diritto di voto, introdotto nel 1870 con il quindicesimo emendamento. I bianchi risposero alle rivendicazioni dei neri impiccandoli agli alberi, massacrandoli e gettando i loro corpi nei fiumi, assassinandoli davanti alle loro case, facendoli saltare in aria con le bombe sugli autobus e nelle chiese, attaccandoli con i cani e bruciandoli con i lanciafiamme. Un unico popolo. Nella maggior parte dei casi i neri combattevano da soli. Ma non combattevano mai solo per se stessi. Le sanguinose lotte per la libertà del movimento per i diritti civili dei neri gettarono le basi di tutte le altre lotte per i diritti civili dell’era moderna. I fondatori bianchi degli Stati Uniti avevano stilato una costituzione non democratica che emarginava le donne, i nativi americani e i neri, e non avevano garantito il voto e l’uguaglianza a tutti gli americani. Le leggi nate dalla resistenza dei neri hanno invece liberato tutti e vietato qualsiasi discriminazione basata non solo sul colore della pelle ma anche sul sesso, sulla nazionalità, sulla religione e sulle abilità. È stato il movimento per i diritti civili, nel 1965, a portare all’approvazione dell’Immigration and nationality act, che modificò il sistema delle quote per gli immigrati, un sistema pensato per mantenere bianco il paese. Grazie agli americani neri, oggi gli immigrati di ogni colore provenienti da tutto il mondo possono entrare negli Stati Uniti e vivere in un paese dove le discriminazioni non sono consentite dalla legge. Nessuno apprezza la libertà più di chi non l’ha avuta. E ancora oggi gli americani neri abbracciano gli ideali democratici del bene comune più di qualsiasi altro segmento della popolazione. Secondo i sondaggi, i neri sono i più favorevoli all’assistenza sanitaria per tutti e all’aumento del salario minimo, e sono i più contrari alle misure che danneggiano i più deboli. Un esempio: i neri sono i più colpiti dai crimini violenti, ma sono contrari alla pena di morte; il tasso di disoccupazione tra i neri è quasi il doppio rispetto a quello dei bianchi, ma i neri sono i più favorevoli ad accogliere i rifugiati. La verità è che tutta la democrazia di cui il paese gode è il frutto della resistenza dei neri. Probabilmente i nostri padri fondatori non credevano veramente negli ideali che avevano sposato, ma i neri sì. Per dirla con il sociologo Joe R. Feagin: “Gli schiavi afroamericani sono stati i più grandi combattenti per la libertà che questo paese abbia mai prodotto”. Per generazioni, noi neri abbiamo dato a questo paese una fiducia che non meritava. Abbiamo visto il peggio dell’America, eppure ancora crediamo nella sua parte migliore. Nessuno sa per certo quando è successo. Forse è stato durante la seconda settimana, o la terza, ma sicuramente prima della quarta, quando quegli uomini e quelle donne non vedevano la loro terra né nessun’altra terra da così tanti giorni da aver perso il conto. È stato dopo che la paura si era trasformata in disperazione, la disperazione in rassegnazione e la rassegnazione in profonda comprensione. L’azzurra infinità dell’oceano Atlantico li aveva separati così completamente da quella che un tempo era stata la loro casa che era come se nulla fosse mai esistito prima, come se tutte le cose e le persone che amavano fossero semplicemente sparite dall’universo. Non erano più mbundu, akan o fulani. Quegli uomini e quelle donne di tanti paesi diversi, tutti incatenati insieme nella soffocante chiglia della nave, erano diventati un unico popolo. Solo qualche mese prima avevano famiglie, fattorie, vite e sogni. Erano liberi. Avevano anche un nome, naturalmente, ma i loro padroni non si erano presi la briga di registrarlo. Erano stati resi neri dalle persone che credevano di essere bianche. Nel posto dove erano diretti, nero equivaleva a “schiavo” e lo schiavismo richiedeva che degli esseri umani fossero trasformati in proprietà, privati di qualsiasi elemento di individualità. Questo processo si chiamava seasoning: le persone portate via dall’Africa occidentale e centrale erano costrette, spesso con la tortura, a smettere di parlare la loro lingua madre e di praticare la loro religione d’origine. Per quanto i bianchi fingessero di crederlo, i neri non erano oggetti. E perciò quel processo di adattamento forzato, invece di cancellare la loro identità, otteneva l’effetto contrario. Nel vuoto, abbiamo creato una nuova cultura tutta nostra. Oggi anche il nostro modo di parlare ricorda le lingue creole inventate dagli schiavi per poter comunicare sia con gli africani che parlavano vari dialetti sia con gli inglesi che li avevano schiavizzati. Il nostro modo di vestire, quel pizzico di stile in più, nasce dal desiderio degli schiavi, privati di qualsiasi individualità, di affermare la propria identità. Oggi le nostre pettinature e la nostra moda all’avanguardia sono la conseguenza della volontà degli schiavi di sentirsi pienamente umani esprimendo se stessi. L’improvvisazione tipica dell’arte e della musica nere nasce da una cultura che, sentendosi esclusa, non poteva aggrapparsi alle convenzioni. Perfino i nostri nomi, spesso contestati, sono atti di resistenza. I nostri cognomi appartengono ai bianchi che un tempo ci possedevano. Questo è il motivo per cui tanti americani neri, soprattutto i più emarginati, continuano a dare ai loro figli nomi di fantasia che non vengono né dall’Europa né dall’Africa, dove non siamo mai stati. Anche questo è un atto di autodeterminazione. Quando il mondo ascolta la tipica musica americana, sente la nostra voce. I tristi canti che intonavamo nei campi per lenire il nostro dolore fisico e sperare in una libertà che non ci aspettavamo di conoscere prima della morte sono diventati il gospel americano. Tra la violenza devastante e la povertà del delta del Mississippi abbiamo dato vita al jazz e al blues. Ed è stato nei quartieri impoveriti dove erano costretti a vivere i discendenti degli schiavi che adolescenti troppo poveri per comprarsi uno strumento hanno cominciato a usare vecchi dischi per creare la nuova musica chiamata hip-hop. Il nostro modo di parlare e di vestire e il suono della nostra musica evocano l’Africa ma non sono africani. Nel nostro isolamento unico, sia dalle nostre culture d’origine sia dall’America bianca, abbiamo creato la cultura più originale e significativa di questo paese. Da parte sua, la società “dominante” ha invidiato il nostro stile, il nostro slang, la nostra musica, e ha cercato di appropriarsi dell’unica vera cultura americana. Come scriveva Langston Hughes nel 1926: “Vedranno quanto sono bello / e si vergogneranno / anch’io sono l’America”. Su queste terre. Per secoli gli americani bianchi hanno cercato di risolvere “il problema dei neri”, dedicando migliaia di pagine a questa impresa. Succede ancora oggi che si parli del tasso di povertà dei neri, delle gravidanze fuori dal matrimonio, della criminalità e del basso numero di neri iscritti all’università, come se in un paese costruito su un sistema di caste questi fenomeni non fossero prevedibili. Ma non si possono leggere queste statistiche senza tener conto di un altro dato: negli Stati Uniti i neri sono stati schiavi più a lungo di quanto non siano stati liberi. Ho 43 anni e faccio parte della prima generazione di neri americani nata quando gli afroamericani avevano già tutti i diritti di cittadinanza. Abbiamo sofferto per 250 anni, siamo giuridicamente “liberi” solo da cinquanta. Eppure, in questo breve periodo, nonostante le continue discriminazioni, e anche se non è mai stato fatto un vero tentativo di riparare ai torti subiti dagli schiavi e alle conseguenze della segregazione, i neri hanno fatto progressi sorprendenti, non solo per se stessi ma per tutti gli americani. Quando ero bambina, credo fossi in quinta elementare, un’insegnante ci assegnò un compito che serviva a esaltare la diversità del grande crogiolo americano. Ci chiese di scrivere un breve testo sulla terra dei nostri antenati e poi disegnarne la bandiera. Mentre si girava per scrivere le istruzioni alla lavagna, io e l’altra bambina nera della classe ci guardammo. La schiavitù aveva cancellato qualsiasi legame avessimo mai avuto con un paese africano, e anche se avessimo cercato di reclamare come nostro l’intero continente, non esisteva nessuna bandiera “africana”. Era già abbastanza difficile essere una delle due alunne nere della classe, e questo compito non avrebbe fatto altro che ricordarci la distanza tra noi e i bambini bianchi. Alla fine mi avvicinai al mappamondo che era accanto alla cattedra, scelsi un paese africano a caso e decisi che era il mio. Ora vorrei poter tornare da quella bambina che ero per dirle che i suoi antenati avevano vissuto in America, su queste terre, e invitarla a disegnare con coraggio e orgoglio la bandiera a stelle e strisce. Un tempo ci dicevano che, a causa della nostra schiavitù, non avremmo mai potuto essere americani: ma è proprio a causa di quella schiavitù che siamo diventati i più americani di tutti. ◆ Traduzione di Bruna Tortorella Da sapere. Quattrocento anni dopo. L’articolo di queste pagine fa parte di uno speciale del New York Times Magazine sull’eredità della schiavitù negli Stati Uniti intitolato 1619, l’anno in cui i primi schiavi africani furono comprati dai coloni britannici della Virginia, in Nordamerica. Gli altri articoli raccontano l’importanza della musica nera nella cultura degli Stati Uniti, di come il sistema delle piantagioni ha influenzato il sistema penale e carcerario, dei meccanismi che ancora oggi fanno sopravvivere la segregazione razziale e di come gli sviluppi della guerra civile hanno impedito agli Stati Uniti di avere un sistema sanitario pubblico e universale. Questo articolo è uscito l’11 ottobre 2019 nel numero 1328 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato sul New York Times Magazine con il titolo Our democracy’s founding ideals were false when they were written. Black americans have fought to make them true. Il 5 aprile 2020 ha vinto il premio Pulitzer nella categoria Commentary.
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