Il virus e la decostruzione della specie: dell’invisibile che rende visibile [di Ferdinando G. Menga]

filosofia-e-coronavirus

http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/05/26. Il libro, appena uscito, di Massimo Filippi (Il virus e la specie. Diffrazioni della vita informe, Mimesis) apre nuove prospettive filosofiche, ma la sua strategia rischia di cadere nella stessa trappola del soggettivismo che sottopone a grande critica.

Durante il periodo di lockdown appena trascorso, una è stata, in particolare, la sequenza di immagini – tra le tante circolate attraverso i molti canali istituzionalizzati e informali – che mi ha colpito e che, probabilmente, conserverò impressa nella memoria: si tratta del video girato da un passante con il suo smartphone all’inseguimento affannato e sbigottito della carovana composta da un’anatra e i suoi piccoli che, silente e indisturbata, sfilava lungo il ciglio di una strada deserta del centro di una cittadina del Nordest.

Immagini simili – richiamate e commentate, peraltro, anche da diversi e influenti intellettuali su alcuni quotidiani nazionali – hanno evocato pressoché sempre il medesimo messaggio (e a ragione!): interrotta, o comunque sospesa, la presenza invasiva ed invadente dell’uomo, gli animali si riappropriano degli spazi di mondo dai quali sono stati costantemente scacciati; riappaiono nei luoghi stessi da cui venivamo prima esclusi.

Un commento del genere potrebbe essere sottoscritto senz’altro, nella sua generale portata, anche da Massimo Filippi, appassionato studioso di antispecismo – intellettuale che, negli ultimi anni, si è guadagnato uno spazio di sempre maggiore rilievo all’interno del dibattito su quella che potremmo definire, in senso lato, “questione animale”.[1]

Nel suo ultimo pamphlet – appena dato alle stampe – dal titolo Il virus e la specie,[2] Filippi ci invita, tuttavia, a soffermarci su alcuni caveat e precisazioni rilevanti, sì da indurci a resistere a una troppo frettolosa adesione al messaggio sopra riportato.

Ciò che, in effetti, ha spinto dichiaratamente Filippi a prendere la parola in questo periodo di pandemia è stata proprio la necessità di cogliere un tale momento di crisi dal carattere epocale quale occasione propizia per ribadire quella che resta la sua critica di fondo alle categorie fondamentali e inevitabilmente gerarchizzanti ed escludenti con cui configuriamo – e, altresì, interpretiamo – il nostro soggiornare nel “mondo” contemporaneo. Si tratta di un mondo che, come Filippi ci ricorda a più riprese, trova la sua cifra massima d’espressione nello sprigionarsi e imporsi del dispositivo capitalista-neoliberista.

Con licenza di qualche semplificazione, è come se, insomma, Filippi ci lanciasse il seguente messaggio: la questione SARS-CoV-2, se ha dignità di essere interrogata, è anzitutto perché, in fondo, ci svela qualcosa di essenziale rispetto alle dinamiche messe in campo dal capitale e aderenze ad esso riconducibili.

In tale linea, il virus diventa, dunque, una sorta di cartina di tornasole ermeneutica, talché esso, nella misura stessa in cui rappresenta, in questo momento, l’interruzione più imponente al dispiegamento della dinamica capitalistica e alla sua “feroce presa”[3] globalizzante, è tale anche da metterne a nudo la logica più nascosta e poderosa. E cosa, in particolare, mette a nudo? Il nesso immunitario e autoimmunitario[4] che unisce intimamente capitale, costruzione del mondo e strategie dell’esclusione – questa è una delle tesi principali che circolano nel libro di Filippi.

Il capitale non agisce semplicemente in un mondo già dato, ma costruisce esso stesso un (determinato) “mondo”: mondo quale luogo di accumulo, appropriazione, sfruttamento. A questo mondo corrisponde, poi, necessariamente una determinata conformazione del vivente (o vivente come formato/formante): cioè il dominio del soggetto umano. Un tale dominio, infine, ingenera, altrettanto necessariamente, un concomitante meccanismo di esclusioni ed esclusi: ovvero, l’esclusione dell’animale perpetrata attraverso l’invenzione della specie[5] e legittimata, altresì, mediante alleanze epistemologiche.

Si tratta, nello specifico, di alleanze che, in ultima analisi – come ben sappiamo da Foucault –, svolgono, da un lato, il compito performativo di produzione della normalizzazione e, dall’altro, attestativo di restituzione giustificata della medesima normalizzazione attraverso “discorsi scientifici”.

Infine, Filippi non manca di insistere sul fatto che tale dinamica di accumulo e appropriazione, obbedendo a un’espansione dal carattere marcatamente globale, non può che produrre meccanismi d’esclusione e invisibilizzazione degli scarti sempre più esasperati. Sono meccanismi, questi, il cui prodotto è costantemente quello dell’animalizzazione (anche dell’umano), e la cui dinamica d’occultamento obbedisce chiaramente alla funzione di legittimazione della violenza stessa di cui sono intrisi.

Quanto consegue da tale ragionamento, dunque, è che soltanto ad un primo e più superficiale livello d’analisi si rivela sottoscrivibile l’osservazione riportata in apertura, secondo cui il virus, interrompendo la dinamica colonizzatrice ed escludente del capitale, finirebbe per restituire spazi di visibilità e di mondo agli animali nell’atto stesso di sottrarlo agli umani.

A un livello più profondo, infatti, la riflessione di Filippi svela un’altra e più inquietante verità: ovvero che gli animali, a ben guardare, non possono riappropriarsi di alcun mondo; non possono essere titolari di nessuna restituzione; non possono ricomparire in alcuno spazio a loro sottratto.

E questo per il semplice – epperò fatale – fatto che i concetti stessi di mondo, titolarità, appropriazione, apparizione null’altro sono che il prodotto e riverbero di quella bio-tanatopolitica che trova nell’epoca capitalistica la sua massima espressione e che forma il soggetto umano solo al prezzo di un’esclusione animalizzante del resto/dello scarto; esclusione dello scarto che, a sua volta – si badi bene – può davvero funzionare solo nella misura in cui essa stessa viene cancellata da una rimozione altrettanto originaria.

Il punto importante da rilevare è, però, questo: tale rimozione, proprio in quanto originaria, non riesce davvero a scomparire. Al contrario, come ben abbiamo appreso da Freud, non può che tornare esattamente nei momenti di maggiore vacillamento delle strategie di difesa, producendo così un effetto spettrale, “hauntologico”, per dirla con Derrida.[6]

Ecco ricomporsi qui, dunque, il punto sul quale Filippi fa partire la sua indagine. La sua analisi prende le mosse esattamente dal vacillamento che si presenta nelle fogge dell’attuale pandemia e lo fa, non tanto per interrogarne l’emergenzialità sanitaria, ma (passando per i dispositivi capitalistico-neoliberali ad essa connessi) per farne ri-affiorare la dinamica di rimozione profonda già sempre co-implicata: quella che interessa la liminarità umano-animale.

Se volessimo, perciò, immaginariamente seguire Filippi nella riscrittura contemporanea di una “critica della ragione pratica” d’ispirazione antispecista, non potremmo fare a meno di soffermarci sull’inevitabile modifica del finale. Non potrebbe bastarci più, infatti, la precisa ubicazione dei due grandi e noti motivi d’ammirazione. Piuttosto, un’aggiunta di carattere eminentemente a-topico si renderebbe necessaria.

Insomma, passino pure il cielo stellato “sopra” di me e la legge morale “dentro” di me, non senza però, d’ora in poi, sottacere la tematizzazione dell’istanza sottotraccia che rende già sempre possibile una tale partizione topografica fra mondo trascendente e mondo interiore del soggetto: il mattatoio “lontano da” me. O anche: il mattatoio in mia assenza e senza un vero dove; e che deve restare senza un dove, se il soggetto vuole perpetuare lo status quo della sua esistenza senza scuotere dalle fondamenta tutto l’impianto che sorregge il suo stesso soggiornare nel mondo.

È esattamente da questo a-topos fra i mondi, fra le morti e fra i corpi che Filippi ci parla nella sua indagine. La sua analisi non solo segue traiettorie molteplici e interrogativi incalzanti, ma si articola altresì attraverso un linguaggio che, a tratti, acquista toni evocativi e lirici, come ben si addice ad una scrittura mossa anche da pathos.

Tuttavia, non è su questo punto che voglio qui soffermarmi, avviandomi alla chiusura di queste mie suggestioni. Vorrei spendere, piuttosto, qualche parola sulla configurazione di una possibile via d’uscita dal dominio/discorso specista.

Filippi indica una strategia di estrema radicalità. Prendendo spunto da – e anche riappropriando criticamente – diverse ispirazioni di marca post-metafisica, post-strutturalista, post-human e neo-materialista, che si richiamano – solo per citare alcune/i autrici ed autori rappresentative/i – a nomi quali Deleuze, Guattari, Haraway, Morton, il suo messaggio è chiaro: bisogna sbarazzarsi delle categorie e delle nozioni del discorso tradizionale, tutte inevitabilmente intrise di antropomorfismo, specismo e gerarchizzazioni escludenti. Bisogna intraprendere, dunque, un cammino di esodo da esse: dal soggetto, dal sé, dall’umano, dal mondo, dalla forma, dal volto dell’altro.

Trasgredendo il lessico inevitabilmente violento connesso a tali categorie, si tratterebbe di passare, di conseguenza, a una “ricategorizzazione” fluida, non-escludente e trasversale, che si serve di nozioni quali vita-senza-forma, mostro, iper-oggetto, intreccio, ibridazione, reti, orifizi e così via.[7]

Ma è a questa altezza che vorrei esprimere una qualche perplessità. Mi chiedo, infatti, se una tale strategia di strappo o congedo totale dalle categorie tradizionali della modernità, obbediente a quello che oserei chiamare un neo-materialismo raffinato, in primo luogo, non finisca per trasmettere, a suo modo, un sapore e impeto simili a progetti di superamento e rifondazioni già battuti più e più volte dalla tradizione con tutte le discutibili implicazioni che ne sono derivate.

In secondo luogo, mi domando se l’opzione di Filippi non rischi di scivolare in un radicalismo talmente accentuato da rioccupare anch’essa, ma solo in modo diverso, il medesimo topos discorsivo presuntamente “neutrale” che vorrebbe invece lasciarsi alle spalle. In terzo luogo, mi chiedo se non impedisca, in fin dei conti, di accogliere in sé istanze e percorsi intermedi tali da agevolare, più che ostacolare, la costruzione di interregni semantici che facilitano il perseguimento dell’obiettivo di un’uscita da un dominio indiscusso dell’umano.

Su questo versante della questione proporrei un’impostazione decostruzionista che resta tale fino in fondo, laddove, invece, quella di Filippi, mi sembra, lo sia solo nella sua pars destruens. Questa mia posizione non è mossa, però, da una mera scelta di campo filosofico o da una dichiarata fedeltà a stilemi a cui è difficile rinunciare.

Rispetto al salto proposto da Filippi, la prospettiva decostruttiva, a cui guardo, si rivela poggiare, invece, almeno sui seguenti due elementi, a mio avviso, concreti e fecondi: in primo luogo, nella misura stessa in cui implica l’esibizione dei sintomi e dei cortocircuiti del discorso a cui resiste, la decostruzione non perde mai la possibilità di appiglio e dialogo.

Ritengo un tale tratto di enorme rilevanza, allorquando si tenti di costruire percorsi emancipativi che, se vogliono sortire un qualche effetto, non possono cedere a strappi improvvisi e assolutistici. Traendo un esempio proveniente dal mio campo di studi, quello del diritto, mi chiedo, infatti, come potrebbe mai configurarsi un discorso direzionato nel senso dell’affrancamento suddetto se, di punto in bianco, si rifiutasse di utilizzare categorie strutturate quali soggetto, diritti, autorizzazione, tutele ecc.

La tradizione delle pratiche ci ha mostrato, in effetti, che sono stati molto più i percorsi di decostruzione storici, discreti e carsici ad aver prodotto all’interno stesso dell’ambito del diritto prospettive di interrogatività e azionabilità impensabili solo fino a qualche decennio prima.[8]

In secondo luogo, decostruire, lungi dall’imporre rotture insanabili e rivoluzionamenti semantici, consente invece di rintracciare e perseguire traiettorie interpretative alternative all’interno delle stesse categorie tradizionali. È sulla base di un tale stile di lettura che è possibile rilevare quanto essere un sé al mondo non necessariamente deve implicare quale unica prospettiva il titanismo tetico del soggetto agente che (im-)pone ed esclude soltanto (questa mi pare essere, per molti tratti, l’opzione ermeneutica predominante di Filippi).

Piuttosto, ben si possono immaginare possibilità di senso alternative ed altrettanto genuine ma di carattere endogeno rispetto alla tradizione, come quelle – battute, per esempio, da Lévinas o Merleau-Ponty – di un essere soggetto nei termini dell’essere assoggettato, esposto al mondo e agli altri.

Non nego, di certo, in accordo qui con Filippi, che la prima versione di soggettività sia stata quella che ha preso il sopravvento nella modernità, mostrando di questa la cifra predominante. Tuttavia, non per questo, vi è da negare la presenza, per quanto silente e sottotraccia, dell’altra traiettoria.[9] Peraltro, mi domando e domando a Filippi: la propensione per una sola caratterizzazione del lessico moderno non implicherebbe una strategia, essa stessa, di catalogazione – seppur non nelle intenzioni – escludente?

Pertanto – lo ribadisco –, non metto qui in discussione che la forma del vivere intersoggettivo tradizionale si sia per lo più mostrata come piano di un agire calcolante e contrattualisticamente connotato dei soggetti –; configurazione alla cui realizzazione e stabilizzazione, peraltro, tanto la logica del capitale quanto quella della politica e del diritto moderni hanno fornito un indubbio contribuito.

Ciò che, invece, discuto è che ciò implichi di per sé l’assenza di alternative altrettanto genuine provenienti dalla medesima tradizione. Penso, ad esempio, alla traiettoria segnalataci dal fenomenologo tedesco Bernhard Waldenfels, allorquando ci parla di uno stare al mondo di carattere patico, cioè quale soggiornare nell’“interregno” di una “co-affezione” condivisa.[10] Interregno che, come tale, non è luogo proprio di (o appropriabile da) qualcuno/a in particolare, bensì frammezzo in cui il soggetto si relaziona con se stesso perché condotto a sé a partire dall’ingiunzione affettiva/affettante dell’altro, umano o non-umano che sia.

Probabilmente è proprio in tale interregno di paticità condivisa che un autore come Coetzee – assai sensibile alla questione animale – potrebbe voler collocare la presa di posizione di uno dei suoi personaggi, allorquando questa dice: “Ecco l’esempio che cerco di seguire. Condividere un po’ dei nostri privilegi umani con le bestie. Non vorrei reincarnarmi in un cane o in un maiale ed essere costretta a vivere come vivono i cani e i maiali sotto le nostre grinfie”.[11]

Ferdinando G. Menga (1974) è professore associato di Filosofia del Diritto presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e Adjunct Visiting and Research Scholar presso l’Università di Tübingen. Si occupa di temi a cavallo tra diritto, politica ed etica soprattutto in ambito contemporaneo. Tra le sue ultime monografie, ricordiamo: Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2016 (ristampa 2020); Ausdruck, Mitwelt, Ordnung. Zur Ursprünglichkeit einer Dimension des Politischen im Anschluss an die Philosophie des frühen Heidegger, Fink Verlag, Paderborn 2018.

NOTE

[1] Si vedano di Massimo Filippi soprattutto: L’invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri, ombre corte, Verona 2016 e (con A. Dal Lago e A. Volpe) Genocidi animali, Mimesis, Milano-Udine 2018.

[2] M. Filippi, Il virus e la specie. Diffrazioni della vita informe, Mimesis, Milano-Udine 2020.

[3] Ibid., p. 12

[4] Ibid. p. 13.

[5] Evoco qui esplicitamente il titolo di un testo di Filippi (cfr. nota 1).

[6] J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina, Milano 1996.

[7] M. Filippi, Il virus e la specie, passim.

[8] Proprio in questa traiettoria andrebbero collocati percorsi di conquista – certamente ancora in itinere – come quelli dei diritti degli animali o anche della tematizzazione di titolarità da attribuirsi a entità non umane in generale. Per una introduzione su questi temi si veda: A. Pisanò, Diritti deumanizzati. Animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano 2012. Sulla questione della giustizia intergenerazionale rinvio al mio testo: F.G. Menga, Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2016.

[9] In particolare su questo punto mi permetto di rinviare al mio volume: F.G. Menga, La mediazione e i suoi destini. Percorsi filosofici contemporanei fra politica e diritto, ombre corte, Verona 2012.

[10] B. Waldenfels, Sozialität und Alterität, Suhrkamp, Berlin 2015.

[11] J.M. Coetzee, Disgrace, Vintage, London 2000, p. 74.

Lascia un commento