Machiavelli e il modello repubblicano: una risposta ad Andrea Guidi [di Giorgio Cadoni]
MicroMega on line 19 giugno 2020. In un intervento con cui intende trarre dai Discorsi di Niccolò Machiavelli alcune lezioni per i «presenti tempi», Andrea Guidi non si è accorto che quello della distribuzione della ricchezza è l’unico problema che la Repubblica romana non seppe risolvere. Sarà innanzi tutto opportuno chiarire che le seguenti osservazioni non intendono aprire un dibattito ‒ che pure sarebbe necessario ‒ sull’analisi della situazione mondiale effettuata da Andrea Guidi nel saggio recentemente pubblicato su queste colonne sotto l’impegnativo titolo di Una bussola per una vera politica dei popoli: leggere Machiavelli nel terzo millennio (con una Exhortatio per l’Europa); e tanto meno discutere le sue proposte. Tuttavia, poiché tanto la prima quanto le seconde si pretendono ispirate dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, sembra indispensabile dire qualcosa degli equivoci in cui, nel corso della sua corsiva lettura della maggiore opera di Niccolò Machiavelli, è caduto l’autore del saggio. E ciò, soprattutto, a causa degl’insegnamenti che anche oggi si possono e debbono trarre da un testo che appare a volte di una sorprendente modernità ed è stato così spesso mal compreso. Se è lecito semplificare all’estremo la tesi del Guidi, diremo che, a suo parere, il grande Fiorentino presenta due «modelli» di società e di stato: quello, aristocratico, di Venezia, e quello, «inclusivista», di Roma. Attualmente quasi tutti i paesi si avvierebbero verso la catastrofe per aver adottato il primo; e l’unica possibilità di salvezza consisterebbe nel rovesciare prontamente questa scelta. Del modello romano, al quale le nazioni occidentali sono invitate ad adeguarsi, il Guidi scrive: «Il risultato è il giusto bilanciamento offerto da un autentico “vivere civile e libero” tra ricchezza individuale e pubblica secondo i tratti delineati dallo stesso quondam Segretario fiorentino in Discorsi III 1». Sorprende il riferimento al celebre capitolo dei Discorsi dedicato alla spinosa questione della «riduzione al principio», dove, per quanto lo si legga e rilegga, non si riesce a trovare neppure un cenno che concerna il bilanciamento «fra ricchezza individuale e pubblica». Ben si comprende che in tempi tanto infelici e preoccupanti quanto quelli presenti si commetta qualche errore di distrazione e si indichi un capitolo diverso da quello che si aveva in mente. Ma purtroppo non è tutto. Perché quello che di cui tratta il passo che è stato riportato è un motivo centrale e ricorrente del saggio, nel quale la struttura economica su cui poggia la società è elemento essenziale del nuovo assetto mondiale prefigurato dall’autore. E non è necessario leggere i Discorsi con particolare attenzione per accorgersi che quello della distribuzione della ricchezza è l’unico problema che la Repubblica romana non seppe risolvere; sicché, attraverso le lotte agrarie e le guerre civili, la portò infine alla morte, come narra I 37: «Tanto che per tali cagioni questa legge [agraria] stette come addormentata infino ai Gracchi, da’ quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana; perché la trovò raddoppiata la potenza de’ suoi avversari, e si accese per questo tanto odio intra la Plebe e il Senato che si venne nelle armi e al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile. […] Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio, perché fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani rimase superiore Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma, talché mai fu poi libera quella città». Come non vedere che la questione che il Guidi ha collocato al centro delle sue considerazioni fa di Roma un esempio negativo? Che non d’imitarla si tratta, ma di evitare di commettere l’errore che portò alla rovina la Repubblica? Lo sapeva bene Machiavelli, che, nel medesimo capitolo, non esitò a muovere una severa critica ai «suoi» Romani: «E perché le republiche bene ordinate hanno a tenere ricco il publico e gli loro cittadini poveri, convenne che fusse nella città di Roma difetto di questa legge». A quest’estremistico principio si ispirarono, pur con notevole moderazione, i fratelli Semproni, che tuttavia, per aver agito quando le circostanze non consentivano più di porre rimedio all’errore commesso in passato, sono disapprovati dal geniale Segretario, che li accusa di aver dato inizio allo scontro terminato con la dittatura perpetua di Cesare: «Del quale disordine furono motori i Gracchi, de’ quali si debbe laudare più la intenzione che la prudenzia. Perché a volere levar via uno disordine cresciuto in una republica, e per questo fare una legge che riguardi assai indietro, è partito male considerato; e, come di sopra largamente si discorse, non si fa altro che accelerare quel male a che quel disordine ti conduce: ma, temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o per sé medesimo, col tempo, avanti che venga al fine suo, si spegne». Le ultime parole del passo mostrano il disperato tentativo compiuto da Machiavelli per non rinunciare alla speranza che fosse possibile sottrarre le libere repubbliche al destino a cui sono condannate; speranza, non occorre dirlo, del tutto aleatoria, dalla quale, a ben guardare, trae origine anche la regola che impone alle «republiche bene ordinate» di «tenere ricco il publico e gli loro cittadini poveri». Infatti la regola non appare in grado di fermare il corso immodificabile della storia delineato dal seguente passo di I 37: «Tale dunque principio e fine ebbe la legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove come le inimicizie di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in favore della libertà, e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria, dico come per questo io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta l’ambizione de’ grandi, che,se per varie vie ed in vari modi ella non è, n una città, sbattuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta per avventura molto più tosto in servitù, quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l’ambizione de’ nobili». A chi apre per la prima volta i Discorsi a quest’altezza può sembrare che Niccolò sia in preda a un irrazionale fatalismo; ma basta andare ai «luoghi» da lui richiamati per comprendere che si tratta della sconsolata conclusione della sua innovativa lettura della storia romana. L’argomento non si presta a frettolose esposizioni; ma non sarà forse inutile indicare il percorso logico che conduce a quella conclusione, seguendo il sentiero tracciato dai primi capitoli Discorsi ‒ dai quali si potrebbero per altro trarre insegnamenti altrettanto utili quanto quelli che il Guidi ritiene di dover trarre da altri luoghi di tale opera. Posto che ogni società è divisa in due diverse classi sociali, patrizi e plebei, «grandi» e popolo, e che i primi di ciascuna di queste due coppie sono sempre intenzionati a rafforzare i loro privilegi opprimendo i secondi, che non intendono sopportare l’oppressione, il conflitto appare inevitabile e, nello stesso tempo, positivo, essendo l’unico generatore della «comune libertà». Per ragioni che Machiavelli non rende esplicite, ma che è facile intuire, la libertà consente alle repubbliche di fare dei loro cittadini dei coraggiosi e disciplinati combattenti che divengono un valido strumento della politica espansionistica alla quale nessuno stato può impunemente rinunciare (Discorsi I 4-6). Ma la conquista significa, in termini machiavelliani, ricchezza; e la ricchezza muta il carattere del conflitto sociale, poiché «gli uomini stimano più la roba che gli onori»; talché la nobiltà senatoria, che «sempre negli onori cedé sanza scandoli straordinari alla plebe», (Discorsi I 37), si chiuse in un’assoluta intransigenza, da cui discesero le ben note conseguenze. Se è così, non vi è modo di trovare nel commento liviano alcun suggerimento sulla maniera di realizzare il giusto equilibrio tra ricchezza individuale e ricchezza pubblica auspicato dal Guidi. Bisogna aggiungere che, sebbene in I 37 si mostri consapevole della grande estensione raggiunta dai latifondi della nobiltà senatoria, l’antico Segretario non sembra preoccuparsi della sperequazione economica, e imputa l’aspra ostinazione con cui i plebei pretesero di avere parte delle terre strappate ai vinti all’inesauribile «ambizione» degli uomini della quale tratta all’inizio del capitolo. Quanto sia fuorviante forzare il dettato machiavelliano per estrarne delle considerazioni riguardanti un campo di attività di cui l’autore, nella lettera a Francesco Vettori del 9 aprile 1513, dichiara di non avere alcuna conoscenza, è dimostrato anche da ciò che il Guidi dice dei «gentiluomini», che, a suo parere, erano detestati da Machiavelli perché «impedivano il libero sviluppo dell’economia fondata sulla produzione e sullo scambio». Aggiunge il saggista: «Rappresentando un blocco di potere alternativo allo stato, un’aristocrazia che vive di rendite di posizione e – spiega Machiavelli – per difenderle riesce a influenzare il governo di una comunità politica, nel lungo periodo è causa di processi politici e istituzionali degenerativi causati dal perseguimento e dalla promozione di una legislazione che inevitabilmente tende a tutelare privilegi fiscali e autonomie d’azione a scapito della equità e potenza della cosa pubblica». La prima affermazione può trovare fondamento in Discorsi I 55, soprattutto se lo si legge parallelamente all’elogio della libertà celebrato in II 2; ma che sia questo il motivo dell’avversione di Machiavelli nei confronti dei «gentiluomini», dei quali offre per altro un accurato ritratto, è una congettura di cui nessun testo fornisce un serio indizio. Quanto alla spiegazione che sarebbe offerta da Machiavelli circa l’influenza esercitata sul governo dai «gentiluomini» al fine di difendere le loro «rendite di posizione», si desidererebbe sapere in quale capitolo dei Discorsi sia possibile trovarla. La ragione per cui il grande Fiorentino ritiene la presenza di «gentiluomini» tanto nefasta è infatti immediatamente politica; ed è costituita dalla loro insopprimibile tendenza a servirsi del potere di cui dispongono per infrangere impunemente le leggi; talché soltanto l’eccezionale energia di una «mano regia» è in grado di porvi freno. Al mondo occidentale, ma forse all’intero pianeta, il Guidi propone un modello di alleanze che vorrebbe fondato sul metodo di «farsi compagni», mediante il quale i Romani avrebbero creato «quel prototipo di federazione ineguale proposto da Machiavelli nel quarto capitolo del secondo libro di quell’opera [cfr. Discorsi II 4], ovvero quella più volte evocata politica di alleanze e di espansione fondata sulla primazia politico-militare di uno stato, eppure fondata su quel rispetto del diritto delle genti che Roma applicò al caso delle masse dei popoli italici». Di Discorsi II 4 il Guidi deve aver letto, o almeno considerato, solo l’inizio; altrimenti si sarebbe accorto dell’«inganno» che si celava sotto quell’abile decisione di «farsi compagni» e non sudditi, e dell’assoggettamento contro cui coloro che erano stati «compagni» dei Romani tentarono una disperata rivolta. La citazione riuscirà lunga, ma merita senz’altro il tempo necessario per leggerla e, se possibile, di meditarla: E perché [Roma] la è stata sola a vivere così, è stata ancora sola a diventare tanto potente; perché, avendosi lei fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in di molte cose con equali leggi vivevano seco; e dall’altro canto, come di sopra è detto, sendosi riserbata sempre la sedia dello imperio e il titolo del comandare, questi suoi compagni venivano, che non se ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a soggiogare sé stessi. Perché, come ei cominciarono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in province, e farsi suggetti coloro che, per essere consueti a vivere sotto i re, non si curavano di essere suggetti, e avendo governatori romani ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro che Roma, di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia si trovarono in un tratto cinti da’ sudditi romani e oppressi da una grossissima città come era Roma. E quando ei s’avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi, tanta autorità aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta forza si trovava in seno, avendo la sua città grossissima e armatissima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi delle ingiurie, le congiurassero contro, furono in poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro condizioni, perché, di compagni diventarono, ancora loro, sudditi. È chiaro che disgiunta dal contesto la teoria del «farsi compagni» muta radicalmente significato, e poco ha in comune con la teoria machiavelliana, perché quella teoria trae origine dall’intento d’iniziare, malgrado la relativa debolezza della città, una politica espansionistica che le permetterà di estendere il suo dominio su un’area sempre più vasta, nella quale verranno infine inclusi anche gli antichi alleati. Sulla finalità imperialistica di quella teoria non possono infatti esservi dubbi, come è dimostrato dalla precauzione di riservarsi «sempre la sedia dello imperio e il titolo del comandare», che è parte integrante di essa. Prima di terminare queste sommarie osservazioni, pur nella certezza che non sarà sfuggita all’attenzione del lettore, a un’ultima cosa è forse opportuno conferire il rilievo che non ha ottenuto nel saggio del Guidi, ossia al fatto che, secondo il repubblicano Machiavelli, l’inevitabile transizione dalla Repubblica all’Impero, significò, per i cittadini di Roma, irrimediabile caduta nella «servitù» e, per la città, l’inizio di un lungo declino. Giorgio Cadoni è stato Professore di Storia della filosofia politica all’Università La Sapienza di Roma. BIBLIOGRAFIA Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli, vol. I, Il Mulino, nuova ed., Bologna 1993, pp. 479 ss.; Id. Machiavelli e i detrattori, antichi e nuovi, di Roma, in Machiavelli e gli antichi, vol. I, Ricciardi Milano-Napoli, 1957, pp. 401 ss.; Giorgio Cadoni, Contributo all’esegesi dei primi nove capitoli dei «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio», in «Il Pensiero politico», 1/2013, pp. 9 ss.; Id., Machiavelli: corruzione, «inegualità», conflitti, in «La Cultura»,2/2017, pp. 207 ss.
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