I sentieri intrecciati della pastorale italiana [di Veronica Rosati]

papa

Nella chiesa della Parrocchia di S. Maria di Nuovaluce,a Catania, è conservato un magnifico crocefisso di legno scolpito in Val Gardena. È un piccolo gioiello. Spettatore silenzioso e custode fedele delle preghiere e degli stati d’animo di tanta gente. Sguardi tristi o sorridenti hanno affidato a quella croce preghiere, ringraziamenti e speranze di tutti i fedeli del quartiere popolare di Monte Po. Le lacrime di persone sofferenti si sono alternate ai sogni per il futuro di tanti novelli sposi laggiù in quel luogo lontano dell’isola.

Sono passati parecchi secoli dalla partecipazione di Nicola Maria Caracciolo, carismatico vescovo di Catania, al Concilio di Trento. Portava con sé un pesante bagaglio di problematiche ecclesiastiche e pastorali. L’urgenza di una riforma strutturale della sua diocesi se l’era presa davvero a cuore. Nel 1540 si trova a dover riempire un vuoto pastorale ormai secolare. La cura delle anime risultava dispersiva ed inefficace a causa soprattutto dell’assenza di parrocchie definite.

Probabilmente al suo arrivo a Trento si rese conto che una profonda fragilità organizzativa e pastorale stava dilagando  ovunque. Anche nella lontana regione alpina. La diocesi di Trento aveva speso tutte le sue energie nell’organizzazione del Concilio, trascurando le sue faccende interne. Il suo era un territorio strutturalmente molto frammentato, poiché le caratteristiche montane avevano favorito una solida tradizione di parrocchie, pievi e decanati autonomi. Urgeva una riforma pastorale volta ad una centralizzazione ecclesiastica.

Forse il vescovo siciliano qui in visita per il Concilio aveva provato sentimenti ambivalenti di fronte a questa realtà. Sognava per la sua città un organizzato apparato di parrocchie radicate ai differenti contesti territoriali, ma, sicuramente, non al prezzo di indebolire il potere del vescovo. Che questo complesso rompicapo politico – pastorale sarebbe durato ovunque per secoli, Caracciolo di certo non poteva immaginarlo.

A Trento, in queste settimane del primo inverno del pontificato di Francesco, ha fatto notizia il ciclo di messe animate da musica raggae, nella vivace parrocchia di S. Carlo Borromeo, nel popoloso quartiere La Clarina. Questa novità nell’animazione della celebrazione eucaristica vuole affinare e modernizzare nella forma il messaggio cristiano. Una messa animata dai giovani per renderla attraente, anche alla portata di chi non è un proprio un assiduo frequentatore della chiesa. Il vento di rinnovamento portato da Papa Bergoglio nella modalità di comunicazione del Vangelo si traduce qui nella voglia di seguire i gusti musicali dei giovani che la popolano. Con un enorme successo.

Fa riflettere il clamore suscitato da iniziative come questa che vanno a costituire quella facciata più evidente di una pastorale silenziosa strettamente legata al territorio. Efficace e portatrice di buoni frutti quando sa interpretare al meglio il contesto. Sui quotidiani locali l’arcivescovo trentino mons. Bressan è felice di sottolineare il carattere unico ed originale di ogni singola parrocchia. Nessuna copia o somiglia all’altra. Nemmeno in una città piccola come Trento. Ogni realtà porta avanti iniziative originali dove i protagonisti sono soprattutto i giovani.

È il parroco il primo interprete del luogo in cui vive. In quei cosiddetti territori di confine è ancora più evidente. È la prima cosa che salta agli occhi parlando con don Antonino Vitanza, da otto anni parroco del quartiere di Monte Po, nella difficile periferia catanese. Ha i problemi di molte grandi città, soprattutto del sud. In luoghi come quelli, elevate disoccupazione e povertà, unite ad una bassa scolarizzazione danno vita ad una complessa spirale di problematiche sociali che si intrecciano con l’ombra della delinquenza. Molto spesso giovanile. A Monte Po la parrocchia è un punto di riferimento. Il lento e costante lavoro del parroco l’hanno resa un porto sicuro per anziani, famiglie e giovani.

Qui l’azione pastorale procede rispettando i criteri della maturazione umana, a tutte le età. Il compito fondamentale della pastorale è l’educazione alla fede. La fede in Dio è, anzitutto, fiducia nell’uomo. È necessaria un’azione profonda che educhi ai valori umani del rispetto reciproco, dell’amicizia disinteressata, della semplice solidarietà, del piacere della condivisione. Fanno riflettere le parole di don Vitanza che esemplifica il suo lavoro quotidiano dicendo: “Come fa un ragazzo che non ha imparato ad amare i suoi coetanei ad amare il Signore?”Per quelle strade, dominate dal cemento e da facciate di alti palazzi troppo simili gli uni agli altri, la proposta cristiana si traduce nel mostrare con piccoli gesti la bellezza di Dio, partendo dal valore dell’uomo e dei rapporti fra fratelli. Sono luoghi dove spesso domina la legge non scritta che fa comandare il più scaltro e dove l’istinto alla sopravvivenza pare poter prescindere da ogni altro valore.

Immaginiamo laggiù un’azione pastorale che parte dal cuore e fa scommettere gli uni sugli altri, poiché solo partendo da una rete di solidi rapporti di comunità è possibile iniziare un cammino comune nella luce del Vangelo. Quando l’altro non sarà più visto come un nemico sarà chiaro il valore della scommessa umana vinta dall’esempio di Cristo. Ci sono ostacoli molto evidenti, ma ne varrà la pena quando l’azione pastorale sarà riuscita a trasmettere fiducia nella comunità cristiana.

È un lavoro silenzioso, che abbraccia le persone. Cerca differenti linguaggi per chi non conosce Gesù, perché non ha familiarità con i valori umani più autentici. O per chi ha chiuso le porte alla Chiesa per ragioni culturali o relazionali. In Sicilia come in Trentino.

 Le sfumature più belle della pastorale creano infinite cartoline provenienti dai lati opposti della penisola. Si fanno colori, musica, gesti, emozioni, volti. Si rincorrono nei secoli, sorretti da vite consacrate agli altri, dentro e fuori la storia. Sono piccoli gioielli silenziosi. Come quel crocifisso della Val Gardena che ora vede il mare siciliano.

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