Decreto Semplificazioni: non ci resta che piangere [di Francesco Orofino]
ilgiornaledellarchitettura.com 28 luglio 2020. Secondo il segretario generale IN/Arch, nel documento legislativo approvato dal Governo prevale la vecchia cultura del com’era, dov’era. La foto di copertina ritrae un edificio di Roma. Uno qualsiasi, uno dei tanti. Il primo che mi è venuto in mente tra migliaia di esempi di quella “banalità del costruito” diffusamente presente nelle nostre città. Ma questo edificio (e tanti altri analoghi) ha una particolarità: si trova in un’area che il PRG di Roma classifica come “zona omogenea A”. Immaginate che qualcuno decida di demolirlo e ricostruirlo. Secondo qualche genio della politica italiana, nemico dell’architettura e della rigenerazione urbana, dovrebbe farlo rispettando rigorosamente «sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche», superfetazioni condonate incluse, evitando, naturalmente, qualsiasi incremento volumetrico. Insomma, il progettista che si trovasse ad affrontare questa sfida sarebbe costretto a trasmettere ai posteri alcuni valori irrinunciabili della “forma” di questo capolavoro. Può sembrare uno scherzo ma in realtà sarebbe questa la conseguenza dell’applicazione di un comma dell’articolo 10 del tanto atteso Decreto Semplificazioni approvato dal Governo. Per chi stentasse a credere ad una tale “follia”, riporto il testo integrale della norma nella versione pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale”: «Rimane fermo che, con rifermento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, nonché a quelli ubicati in zona omogenea A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria». Vediamo come si traduce in pratica questa norma: in molte città italiane le zone A sono estese su porzioni di territorio ben più ampie dei centri storici. A Roma, ad esempio, rientrano in zona omogenea A anche, a titolo esemplificativo e non esaustivo, il quartiere Trullo, l’Eur, una parte consistente di Ostia e della circonvallazione Gianicolense, i Parioli, Monteverde, Montesacro e così via. Per molti PRG – sicuramente per quello di Roma – in zona omogenea A, come in buona parte delle aree con vincolo paesistico, sono proibiti interventi che rientrano nella categoria “nuova costruzione”. Quindi, se si vuole demolire un edificio e ricostruirlo, occorre rientrare nella categoria d’intervento “ristrutturazione edilizia”. Per farlo, secondo la nuova legge, devo ricostruire un edificio identico a quello demolito: stessa sagoma, stesso prospetto, stessa area di sedime, stesse caratteristiche planivolumetriche di “pezzi di architettura” come quello dell’immagine citata. Analogo ragionamento vale anche per i centri storici in senso stretto, dove esistono anche edifici privi di qualsiasi qualità architettonica, tipologica, urbana ecc. che potrebbero essere demoliti e ricostruiti diversamente. Il Decreto Semplificazioni ripropone un concetto obsoleto: il com’era e dov’era sempre e comunque. La contemporaneità, nelle zone omogenee A delle nostre città, non ha più alcun diritto di esprimersi attraverso l’architettura. Un balzo indietro culturale di decine e forse centinaia di anni. Quale sarebbe il fine di questa norma? Che cosa s’illude di preservare? Che cosa vuole garantire di tramandare ai posteri? «E qual è il fine di questo conservare», ha scritto Massimo Cacciari: «…vuole ricordare tutto? Ma ricordare tutto significa dimenticare… La memoria è intenzione. … Ma questa è un’antinomia: e infatti la nostra epoca che vuole ricordare tutto sta distruggendo tutto”. Questa mostruosità normativa distrugge l’architettura e va assolutamente fermata, come stiamo cercando di fare insieme a tanti altri colleghi architetti in questi giorni. Abbiamo la possibilità di farlo in sede di conversione in legge del Decreto da parte del Parlamento. Ma dobbiamo far arrivare in modo deciso la nostra voce e la nostra indignazione per una legge che azzera anche ogni seria prospettiva di rigenerazione urbana. Non è così che si preserva il nostro patrimonio edilizio di valore. Scriveva Bruno Zevi che «Nel porci il problema dell’incontro tra antico e nuovo non basta preoccuparsi di salvare l’antico; occorre anche difendere il nuovo. Le due operazioni sono culturalmente connesse; riconoscendo che i valori espressivi del nuovo non si conciliano con l’antico, quando decideremo di proteggere l’antico lo faremo con assoluta coerenza; quando ammetteremo l’incontro, saremo coscienti di creare nuovi valori in dialogo, per contrasto, col tessuto antico. In ogni caso, eviteremo l’imbroglio, il “classico modernizzato” o il “moderno ambientato”, insomma tutti quei compromessi attraverso i quali offendiamo il passato ed il presente». E ancora, in un articolo del 1965 su “Architettura. Cronache e storia”, intitolato Contro ogni teoria dell’ambientamento, notava come «In Italia tutto è vincolato, e perciò tutto si sfascia». Gentile Parlamento italiano: evita di vincolare ciò che andrebbe sostituito, di offendere il passato delle nostre città e di sfasciare il loro presente. *Segretario generale IN/Arch, socio fondatore dello studio di progettazione GAP Architetti Associati con il quale svolge la propria attività professionale, in Italia e all’estero, dal 1992. È stato consigliere dell’Ordine degli Architetti di Roma, esperto del Comitato economico e sociale dell’Unione europea, professore a contratto presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, consulente dell’ONG “Progetto Sud” per la cooperazione con i paesi in via di sviluppo, nel settore della realizzazione di opere civili e della redazione di programmi di cooperazione. Nel 2012 è stato coordinatore generale della mostra “Le quattro stagioni. Le architetture del made in Italy da Adriano Olivetti alla green economy” curata da Luca Zevi e allestita per il Padiglione Italia alla 13. Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia.
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