L’agnello [di Maria Giovanna Piano]
Bloccato in uscita dall’emergenza sanitaria è tornato al cinema “L’agnello” film d’esordio, ambientato in Sardegna, di Mario Piredda, già autore di un premiato cortometraggio (“A casa mia” David di Donatello 2017). Un “punk-dramma agropastorale, così lo definisce il regista che guida con mano sicura un convincente cast di attori bravi e già rodati (Luciano Curreli, Piero Marcialis), di nuove rivelazioni (Nora Stassi, Michele Atzori) e di ottimi interpreti dei personaggi minori. La definizione è pertinente, proprio questa è, infatti, la cornice, anche sonora, di un quadro che con duro realismo presenta, nel microcosmo di un nucleo familiare, i segni di una devastazione antropologico/culturale che pretende e divora la vita materiale e fisica di singole esistenze costrette ai bordi del filo spinato che delimita le servitù militari i cui velenosi effetti non risparmiano natura, animali e umani. Spazi estesi e silenzi di un mondo ammutolito in cui le scarne parole risuonano dell’ironia sardonica dei votati alla morte. Tre generazioni, il cui capostipite è Tonino, sopravvissuto centro di gravità morale di una autorità patriarcale ormai estinta, un pastore di greggi malate, sulle cui spalle pesano le macerie di un mondo scomparso, l’inimicizia dei due figli, Jacopo e Gaetano, il futuro incerto della nipote Anita. Quest’ultima è l’intensa protagonista tutta rabbia e ribellismo, i cui sentimenti di straordinaria generosità filiale inciampano sul pudore della parola e si affidano al morso selvaggio che, come in un gioco d’infanzia, stampa sul polso dell’amato e malato padre un orologio senza lancette. E sarà una corsa contro il tempo quella che conduce insieme la giovane e il vecchio alla ricerca del donatore compatibile, ultima spiaggia per una vita appesa a un filo. Tale circoscritto e desolato universo, è colto, con maestria e senza sconti, nel precipitato di una illusione emancipatoria che si materializza in discoteche di quart’ordine e nella parvenza di una modernità grottesca e derisoria il cui tratto omologante nega ciò che promette lasciando ciascuno al suo destino di deprivazione. In tale contesto l’agnello campeggia come protagonista assoluto che assurge a titolo stesso del film. Filo conduttore materiale e simbolico, emblema struggente di un mondo senza madri. E non è un caso che la folgorante scena d’apertura, il travaglio e la morte in parto di una pecora, consegni fin da subito la cifra del film a l’innocente neonato animale che la incarna nella sua costante e suggerente presenza. Le brevi ma rivelatrici battute dell’incipit di una sceneggiatura essenziale e di rara aderenza, che intercorrono tra nonno e nipote in riferimento all’agnello, aprono in forma dimessa a una verità portante: “ non sopravviverà perché gli è morta la madre” dice nonno Tonino, “ anche mia madre è morta, ma io sono viva” replica la giovane Anita. È una affermazione di baldanzosa indipendenza che corre subito ad autocorreggersi nel salvifico gesto materno dell’allattamento e della presa in cura dell’animale. La potenza di quel semplice gesto nutritivo sembra ripristinare quel continuum materno di cui necessita ogni scatto di umanità che voglia radicarsi nell’orizzonte di senso di una comune condizione creaturale. |