L’improbabile avventura di Steve Bannon in Europa [di Alessio Marchionna, Francesca Spinelli]

Bannon

https://www.internazionale.it/notizie/alessio-marchionna 17 aprile 2019. Questo articolo nasce dal lavoro comune di un gruppo di giornali europei, Europe’s far right research network, in vista delle elezioni europee 2019. Ne fanno parte, oltre a Internazionale, Falter (Austria), Gazeta Wyborcza (Polonia), Hvg (Ungheria), Libeŕation (Francia) e Die Tageszeitung (Germania). Questo progetto ha vinto il premio Concordia-Preise per la libertà di stampa 2019.

Steve Bannon è in piedi sulla cattedra al centro della biblioteca Angelica di Roma, sotto i soffitti a volta e circondato dagli scaffali in legno che conservano alcuni dei volumi più rari e preziosi del mondo. Tira fuori un giornale, una copia del quotidiano britannico conservatore Daily Telegraph, lo apre in modo che tutti possano vederlo, poi legge il titolo principale scandendo bene ogni parola: “Theresa-May-in-bended-knee-to-Eu” (Theresa May in ginocchio davanti all’Unione europea).

È il 21 marzo 2019: i ventisette paesi dell’Unione europea hanno appena concesso al Regno Unito una proroga per trovare un accordo sulla Brexit dopo l’ennesimo fallimento delle trattative parlamentari; nelle stesse ore il presidente cinese Xi Jinping è arrivato a Roma per sancire l’accordo con il governo italiano sulla Nuova via della seta. Per Bannon, ex consigliere politico del presidente statunitense Donald Trump impegnato a costruirsi una rete di alleati in Europa e in Vaticano, questi eventi in rapida successione riassumono i due pericoli di fronte ai quali si trovano oggi i paesi europei: restare schiavi dell’Unione europea, espressione del “partito di Davos”, o essere colonizzati dell’imperialismo “rapace” del governo cinese.

Il suo repertorio sembra un po’ consumato – sono passati quasi tre anni da quando ha portato le idee dell’estrema destra al centro del dibattito politico mondiale – e le sue considerazioni politiche sull’Europa sono spesso confuse – nello stesso ragionamento può attaccare la Cina definendola una minaccia mortale e poi esaltare il governo italiano che ha appena firmato un importante accordo commerciale con quel paese – ma il pubblico, che applaude alla fine di ogni intervento, sembra apprezzare.

Come un ministro. Se l’importanza di un evento pubblico si misura in base alla quantità di giornalisti e poliziotti presenti, l’accoglienza per Bannon sembra quella che di solito si riserva a un ministro. Fuori dalla biblioteca, a pochi passi dal Vaticano, ci sono due camionette della polizia e una ventina di agenti. Dentro, la sala è affollata da giornalisti delle maggiori testate italiane e di alcune internazionali, e per mettersi a sedere bisogna aggirare un fitto sbarramento di telecamere; ci sono anche alcuni attivisti di destra che prima dell’inizio della conferenza si salutano calorosamente stringendosi l’avambraccio, alla maniera dei camerati.

La serata è stata organizzata dall’Associazione Lettera 22, che si definisce in prima linea “contro il politicamente corretto” e per “un’informazione non omologata” (difficile avere qualche informazione in più: il link alla pagina online del gruppo che si trova sull’account Twitter reindirizza a una schermata con immagini pornografiche, e non va confuso con quello dell’agenzia giornalistica indipendente Lettera22). Dovrebbe essere un dibattito, in realtà somiglia più a una conferenza stampa.

Dopo quaranta minuti di monologo in cui Bannon ripete tutte le parole d’ordine dell’internazionale nazionalista – la difesa dei confini, la riscossa dell’uomo comune, la sinistra al servizio della finanza – è il momento delle domande: giornalisti della carta stampata e della tv (tra cui il consigliere Rai “sovranista” Giampaolo Rossi) si danno il cambio in un’avvincente gara di adulazione dell’ospite. Il più agguerrito è senza dubbio Gennaro Sangiuliano, il direttore del Tg2, che vuole dimostrare di poter essere più “bannoniano” di Bannon.

“Gli otto uomini più ricchi del mondo sono quasi tutti liberal e di sinistra, questo significa qualcosa?”, chiede Sangiuliano. L’ospite, che probabilmente non si aspettava di essere superato a destra dal suo intervistatore, esita un attimo, poi è costretto a spiegare che al mondo esistono anche tanti ricchi di destra. Sangiuliano chiude citando Giuseppe Prezzolini: “Diceva che il progressista è la persona di domani, il conservatore è la persona di dopodomani”. Bannon sorride, è una frase bellissima, dice, e il direttore del Tg2 può tornare al suo posto tra gli applausi, come un alunno premiato con una pacca sulla spalla dal maestro dopo l’interrogazione.

L’incontro si conclude dopo due ore e mezza, ma per Bannon la serata non è finita. Tutti vogliono parlare con lui in privato per avere una dichiarazione da mandare al tg, una frase altisonante per un titolo online o semplicemente per stringere la mano a uno degli uomini più in vista della politica mondiale. Nel giro di poche ore decine di giornali e tv rilanceranno le sue dichiarazioni, e qualche giorno dopo Bannon sarà anche invitato a una discussione con Carlo Calenda del Partito democratico.

Alla fine non si può fare a meno di chiedersi come abbia fatto un personaggio ormai quasi irrilevante nella politica statunitense a guadagnare tanta visibilità in Europa in così poco tempo. E soprattutto quale sia il suo peso reale sulle dinamiche politiche di casa nostra. Per provare a capirlo bisogna abbassare il volume del circo mediatico che circonda Bannon e seguire le tracce dei suoi alleati e luogotenenti in Europa. Personaggi che a tratti ricordano i protagonisti del film American hustle: non è chiaro se siano persone estremamente abili, sempre una mossa in anticipo sui loro avversari, oppure incredibilmente ingenue, figure di secondo ordine che si sono avventurate in un progetto più grande di loro.

L’ufficio di Bruxelles. I due protagonisti dell’exploit comunicativo di Bannon in Europa sono il politico belga Mischaël Modrikamen, che da Bruxelles coordina le attività di The Movement, e il britannico Benjamin Harnwell, direttore dell’ong cattolica Dignitatis humanae institute (Dhi). Grazie al loro legame con l’ex consigliere di Trump hanno di colpo suscitato l’interesse della stampa internazionale, sedotta anche dalla cornice in cui ricevono giornalisti, fotografi e cameraman: l’imponente villa di Modrikamen a Watermael-Boitsfort, il più ricco dei diciannove municipi che formano Bruxelles, e la splendida Certosa di Trisulti, un monastero tra le montagne della Ciociaria, in provincia di Frosinone.

“Se dovessimo accettare anche le richieste di intervista degli studenti di comunicazione politica, non ne usciremmo più”, riconosce l’ufficio stampa di The Movement, la fondazione che Modrikamen ha creato nel gennaio 2017 sull’onda del suo entusiasmo per l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Modrikamen è un avvocato di successo che da anni tenta di raggiungere la stessa fama in politica. Finora la sua formazione, il Parti populaire, nato nel 2009, non gli ha dato grandi soddisfazioni, ma Modrikamen spera in una svolta alle prossime elezioni politiche belghe, che si terranno il 26 maggio, insieme a quelle europee.

Grande ammiratore di Trump, Modrikamen gli ha dedicato un video di sostegno nel febbraio 2016, poi, dopo la vittoria del candidato repubblicano, ha indirizzato una nota al suo transition team, “una paginetta in cui spiegavo che, dopo la Brexit e l’elezione di Trump, The Movement has to become global”, il movimento deve diventare globale. Nasceva così il progetto di una fondazione che facesse da “ponte tra il movimento lanciato da Trump negli Stati Uniti e i cittadini e i movimenti politici attivi in altri paesi”, promuovendo “il rispetto dello stato di diritto, la libera impresa, la sovranità delle nazioni, l’efficacia delle frontiere nazionali, la consultazione popolare, la lotta contro l’islam radicale, un approccio scientifico e non dogmatico ai fenomeni climatici e la difesa di Israele in quanto stato sovrano sulla sua terra storica”.

Un trampolino in Europa. Per un anno e mezzo l’iniziativa è rimasta ferma al punto di partenza – uno statuto registrato nella gazzetta ufficiale belga – finché, attraverso l’amico comune Nigel Farage, Steve Bannon è venuto a sapere della fondazione di Modrikamen e ha deciso di farne il suo trampolino in Europa.

Modrikamen non nasconde un certo orgoglio quando parla di quel primo incontro tra due anime affini: “Come me, Steve proviene da un ambiente modesto, ha fatto carriera con Goldman Sachs, è diventato ricco. Io sono diventato avvocato d’affari, mi sono guadagnato da vivere, meno di lui ma abbastanza da diventare indipendente. Steve è entrato in politica come me nel 2009, lui nel Tea party, io ho fondato il mio partito. Poi lui ha cominciato a lavorare per Breitbart News perché capiva l’importanza di un mezzo d’informazione disruptive, di rottura, e io ho creato il quotidiano Le Peuple, che è molto simile a Breitbart”.

I due uomini condividono anche una dedizione stacanovista al lavoro, ma sono per il resto molto diversi: vulcanico e imprevedibile Bannon, posato e costante Modrikamen. Diversa anche la visione che ognuno aveva del potenziale di The Movement, ma entrambi hanno capito che poco importava essere coerenti o realisti: quello che contava era occupare lo spazio mediatico sfruttando la vaghezza del progetto e la fama di Bannon. Nessun bisogno di inviare comunicati stampa, di organizzare eventi, di essere attivi sui social network, anche perché tutto questo avrebbe richiesto maggiore chiarezza sulla natura e gli obiettivi dell’iniziativa. I giornalisti facevano comunque a gara per intervistare Bannon e Modrikamen.

Quest’ultimo ha una relazione complessa con i mezzi d’informazione. “Per una ventina d’anni sono stato uno degli avvocati più presenti sui mezzi d’informazione francofoni belgi”, racconta. “Con loro avevo dei rapporti eccellenti, sono finito più volte in prima pagina. Poi sono entrato in politica, e da allora sono completamente boicottato, mi escludono dai dibattiti. Posso contare solo solo sui miei sostenitori e sui social network”.

La vicenda The Movement gli ha permesso di riconciliarsi con la categoria dei giornalisti, almeno con quelli stranieri: “Non chiedo ai giornalisti di condividere le mie opinioni, gli chiedo di fare i giornalisti. Di riportare fedelmente quello che ho detto, i nostri progetti. Anche The Guardian, che certo non è favorevole alle nostre tesi, ha fatto del vero giornalismo, si è fatto le domande giuste andando a vedere se, legalmente, potevamo aiutare i partiti nei vari paesi europei” con sondaggi, ricerche e analisi di dati, come Bannon aveva inizialmente detto di voler fare.

Con la sua inchiesta sui limiti imposti dalle leggi elettorali in diversi stati membri, il quotidiano britannico intendeva smontare le ambizioni di Bannon, ma in un certo senso gli ha reso un servizio: dopo aver scoperto che quella strada non era percorribile, l’ex stratega di Trump ha fatto dietrofront ed è ripartito più agguerrito che mai in un’altra direzione, incurante dello scetticismo dei giornalisti, che hanno comunque continuato a inseguirlo.

“La crescita dell’estrema destra negli Stati Uniti e in Europa”, scrive su The Intercept Natasha Lennard, “è senz’altro un oggetto essenziale d’inchiesta giornalistica. Bannon ne fa parte, ma questo non lo rende un soggetto che merita lunghe interviste. La confusione tra soggetto e oggetto è fin troppo presente nel modo in cui i mezzi d’informazione progressisti coprono l’estrema destra, mettendo sullo stesso piano la denuncia dei populismi razzisti – il modo in cui si diffondono, i sistemi che li alimentano – e il fatto di dare spazio ai loro rappresentanti”.

È il traguardo principale raggiunto finora da Bannon in Europa, con il sostegno di Modrikamen e Harnwell. “Il loro è un esercizio di priming”, commenta Alvaro Oleart, ricercatore in comunicazione politica all’Institute d’études européennes dell’Université libre de Bruxelles. “Hanno voluto influenzare l’agenda dei temi su cui si giocheranno le elezioni europee, alimentando un contesto favorevole alla destra e all’estrema destra, rafforzando la cornice antisistema e l’accento sull’immigrazione”. E non ci sarebbero riusciti senza la complicità dei mezzi d’informazione, che si sono trasformati loro malgrado in megafoni di un messaggio inconsistente, ma non per questo inefficace.

Nelle interviste più recenti Modrikamen sottolinea di aver sempre concepito The Movement come “un club informale in cui i sovranisti potessero incontrarsi, discutere delle sfide comuni”, a differenza di Bannon, “che voleva andare molto più lontano”. Oggi assicura che, “sul piano strategico”, The Movement rende già molti servizi a partiti e politici, ma riconosce che l’evento inaugurale a Bruxelles, più volte annunciato e rimandato e, stando alle ultime dichiarazioni, previsto per l’inizio di maggio, “sarà un banco di prova. Ho detto a Steve: ‘Se non siamo capaci di riunire almeno una parte delle persone che abbiamo in mente in una data precisa, dobbiamo prenderne atto’. È evidente che se non ci riusciamo, la cosa finisce qui, almeno per me”.

Anche i legami tra The Movement e i partiti italiani al governo sembrano avvolti dal mistero. Nel settembre 2018 il ministro dell’interno Matteo Salvini ha incontrato Bannon e Modrikamen a Milano e ha aderito al loro gruppo. “È con noi”, ha scritto il politico belga twittando la foto della stretta di mano con il leader della Lega. Ma da quel momento in poi Salvini non ha fatto niente per promuovere l’alleanza e a inizio aprile ha organizzato un vertice con alcuni partiti sovranisti europei senza invitare Bannon e Modrikamen. L’anno scorso l’ex consigliere di Trump avrebbe incontrato anche Davide Casaleggio del Movimento 5 stelle e l’ufficio stampa di The Movement sostiene che i cinquestelle saranno invitati all’evento che (forse) si terrà a maggio, ma al momento niente fa pensare che i due gruppi stiano collaborando (né la Lega né il Movimento 5 stelle hanno risposto alle richieste di commento per questo articolo).

La scuola dei sovranisti. Definire Benjamin Harnwell l’uomo più fidato di Steve Bannon in Italia è riduttivo. Per lui, un inglese elegante e cordiale che in passato ha lavorato per un deputato conservatore al parlamento europeo, Bannon è una sorta di messia, l’uomo della provvidenza arrivato per redimere l’Europa. Qualche tempo fa la sua determinazione nel realizzare la visione bannonista l’ha portato a trasferirsi nel monastero di Trisulti, sperduto tra le montagne della Ciociaria, e l’ha messo al centro di un’aspra battaglia politica e ideologica che ha coinvolto le comunità locali, il governo regionale, i maggiori partiti politici italiani e le alte sfere del Vaticano.

La vicenda comincia nel 2017, quando il ministero dei beni culturali, allora guidato del democratico Dario Franceschini, decide di pubblicare un bando per dare in gestione il monastero, dove è rimasto ormai solo un monaco di 83 anni. La concessione se l’aggiudica il Dignitatis humanae institute (Dhi), l’ong cattolica fondata nel 2008 da Harnwell per “difendere le radici giudaico-cristiane dell’occidente”.

Il contratto prevede che il Dhi paghi un canone di centomila euro all’anno per 19 anni, si prenda cura del luogo e consenta a turisti e visitatori di fruirne. Nel febbraio 2018 Harnwell si insedia nel monastero, ma è solo qualche mese dopo, quando viene alla luce il suo progetto di creare nella Certosa una scuola di formazione politica di destra con l’aiuto di Bannon, che la vicenda supera i confini della cronaca regionale. “La chiamiamo la scuola dei gladiatori, la chiave è formare agenti di cambiamento tradizionalisti”, dice Bannon nel dicembre 2018 in un’intervista al Corriere della Sera.

A rendere la storia ancora più delicata ci sono i legami di Harnwell e Bannon con la frangia più tradizionalista della chiesa cattolica. Quella che comprende il cardinale statunitense ultraconservatore Raymond Burke. In un’intervista del 2018 alla Reuters, Burke dice di voler lavorare con Bannon “per promuovere progetti in difesa di quella che un tempo era chiamata cristianità” (l’alleanza fra i tre è stata ufficialmente sancita quest’anno, quando sia Burke sia Bannon sono entrati nel consiglio del Dhi).

A quel punto l’opposizione si mobilita, sia al livello locale sia in parlamento. Il 29 dicembre circa trecento persone marciano dal comune di Collepardo alla Certosa per protestare contro i piani di Harnwell e Bannon, e all’inizio del 2019 Nicola Fratoianni, deputato di Liberi e uguali, presenta un’interrogazione parlamentare in cui mette in dubbio la legittimità dell’assegnazione della Certosa al Dhi.

Il Movimento 5 stelle scarica la colpa sul governo precedente ma dice anche che la scuola politica non è compatibile con il progetto di valorizzazione della Certosa presentato dal Dhi, mentre la Lega si schiera con Harnwell. Così la vicenda della Certosa diventa l’ennesima estenuante partita di ping pong tra le due forze di governo. Come succede quasi sempre in questi casi, alla fine il governo decide di non decidere.

La situazione quindi non è cambiata di molto rispetto a un anno fa. Le opposizioni continuano a chiedere la revoca della concessione: il 16 marzo c’è stata un’altra marcia da Collepardo a Trisulti, all’inizio di aprile il governatore del Lazio Nicola Zingaretti ha chiesto al governo di vigilare sul Dhi, dicendosi pronto a partecipare a un progetto di valorizzazione alternativo del monastero, e le comunità locali, guidate dall’ex consigliera regionale Daniela Bianchi, hanno presentato un ricorso in autotutela al ministero. Nel frattempo il Dhi continua a lavorare alla creazione della scuola sovranista.

Il ruolo dell’informazione. Il monastero è nascosto tra i boschi di querce dei monti Ernici, a un centinaio di chilometri a sudest di Roma. Per arrivarci, da Collepardo, si percorre una strada che vista dall’alto somiglia al mantice di una fisarmonica, e che in una giornata gelida di fine febbraio è disseminata di rami e tronchi spezzati dal vento forte degli ultimi giorni. Poco prima del parcheggio c’è un palo della luce divelto, e la pavimentazione davanti al portone dell’ingresso principale del monastero è completamente ghiacciata.

A causa del maltempo la Certosa è chiusa ai visitatori e questo spiega perché il luogo è ancora più silenzioso e deserto di quanto ci si aspetterebbe da un monastero. L’unica compagnia di Harnwell durante il giorno sono il cuoco, il custode e il priore, ma per lui la solitudine non è un problema. Riceve visite di giornalisti italiani e internazionali quasi tutti i giorni, dice facendo strada nella sagrestia della cappella. E poi, spiega, buona parte del suo tempo è occupata dalle comunicazioni con Steve Bannon.

“Ci sentiamo tutti i giorni per telefono o per email. La scuola di formazione è stata una sua idea. Lo informo di tutte le decisioni più importanti che dobbiamo prendere, e lui mi spiega cosa sta cercando”. Bannon è anche uno dei finanziatori del Dhi. Harnwell non vuole far sapere chi altro ci sia dietro la sua organizzazione, ma secondo un’inchiesta di Open Democracy il Dhi collabora anche con l’Acton institute, un think tank statunitense che fonde il cristianesimo ultraconservatore con idee economiche neoliberiste.

L’idea iniziale era di far partire la “scuola dei gladiatori” nel 2019, ma i problemi logistici hanno costretto Harnwell a ritardare il progetto. “Quest’anno lanceremo la scuola dell’occidente giudaico-cristiano a Roma, e nel frattempo cominceremo i lavori di restauro per far partire i corsi qui alla Certosa nel 2020”. C’è molto da fare. “Dobbiamo realizzare i bagni e ampliare i dormitori. Abbiamo una settantina di camere dove vivranno gli studenti”, che dovrebbero essere più di duecento. L’inizio dei lavori sembra ancora lontano. “La ditta che se ne occuperà sta preparando il progetto tecnico, che non è facile da realizzare e sarà un po’ costoso, e poi dobbiamo avere l’approvazione del polo museale del Lazio”. Non è facile avere a che fare con la burocrazia italiana, fa capire Harnwell: “In Italia i tempi sono sempre molto lunghi”.

A complicare il tutto c’è la questione della manutenzione della struttura. Il maltempo durante l’inverno ha creato grossi problemi in molti punti della Certosa. Ci sono polvere e foglie dappertutto e muri scrostati in molte aree del monastero. Nel cortile interno il vento ha fatto cadere un pezzo di grondaia. Ma il problema più urgente riguarda il tetto. In tanti punti la copertura è saltata, e camminando per il monastero ci si imbatte di continuo in tegole rotte (chi ha partecipato alla manifestazione del 16 marzo dice di aver visto dal piazzale un parte di tetto scoperchiato e coperto da un telone di plastica).

Oltre ai dubbi sulla capacità del Dhi di gestire un luogo così impegnativo e così prezioso, anche l’opacità del progetto della scuola porta a farsi delle domande sulla credibilità dell’operazione di Bannon e Harnewell. Entrambi ne parlano da mesi come di un progetto sul punto di partire, ma a oggi non è ancora chiaro quali dovrebbero essere i temi dei corsi e le materie di studio. “Ultimamente Bannon ha cambiato idea”, spiega Harnwell. “Ora dice che vuole cominciare con un corso sulla gestione dei mezzi d’informazione. Ha affinato un po’ le idee su cosa vuole fare, ma aspettiamo un annuncio su tutti i dettagli”. Eppure le richieste dei potenziali studenti sono già tante. “C’è molto interesse, abbiamo anche troppe richieste”. Sul corpo docenti Harnwell non vuole fornire dettagli. “Sicuramente Bannon sarà uno degli insegnanti”.

Per quanto riguarda le proteste dell’opposizione e delle comunità locali, Harnwell non teme di perdere la concessione, rassicurato dalle parole della sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni. Ma qualche dubbio, ascoltando la sua versione dei fatti, affiora. In primo luogo perché, come ammette il fondatore del Dhi, nella proposta presentata al ministero dei beni culturali nel 2017 non si parlava del progetto di una scuola politica ideata da Bannon. “All’epoca si chiamava accademia cardinal Martino per la dignità umana, ed era una scuola più centrista, pensata per trasmettere gli insegnamenti sociali della chiesa”. Ma Harnwell è convinto che i termini del bando gli diano abbastanza flessibilità per aprire la scuola.

Il secondo dubbio riguarda i requisiti del Dhi. Il bando pubblicato dal governo chiedeva, tra le altre cose, un’esperienza quinquennale nella gestione del patrimonio pubblico italiano. “Noi siamo nati nel 2008 per promuovere il vangelo e la dignità umana, che si basa sul riconoscimento che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di dio, e questo fa parte della costituzione italiana”, sostiene Harnwell. “Quest’esperienza non vale per gestire un museo o il Colosseo, ma vale per un monastero”. Nessuna esperienza concreta nella gestione di un bene, dunque, ma solo una generica affinità su questioni religiose.

Oltre le apparenze. Prima di salutarci, Harnwell ci accompagna a dare un’occhiata alle bellezze della Certosa. Ci tiene a spiegare perché considera Steve Bannon un genio: “Per secoli abbiamo visto la politica come una contrapposizione tra sinistra e destra. Ma Steve ha intuito che questo paradigma non vale più. E ha ideato un nuovo modo di interpretare le cose, cioè la distinzione tra l’uomo della strada e la classe globalista. Io lo chiamo paradigma bannonista”. Come il suo amico e mentore, Harnwell è molto critico nei confronti di papa Francesco, soprattutto per la sua apertura verso i migranti.

“Sarà un suicidio per l’Italia e per l’Europa. Ci sono 400 milioni di africani che vogliono venire in Europa. Il papa, l’Onu e l’Unione europea hanno detto che dobbiamo accogliere tutti. I poteri globalisti hanno intuito che viviamo una crisi demografica e quindi la soluzione è ovvia: facciamo un trasferimento del surplus”. Una sostituzione etnica? “Sì, è così che pensano le élite globaliste”.

Fa un certo effetto sentir parlare di sostituzione etnica sotto i bellissimi affreschi della chiesa di San Bartolomeo, nel cortile interno della Certosa. Viene da pensare che la saldatura tra estrema destra e cattolicesimo voluta da Bannon, che negli Stati Uniti ha contribuito alla radicalizzazione sociale e alla vittoria di Donald Trump, sia sul punto di verificarsi anche in Italia. Ma forse, a pensarci bene, non è così, per lo meno non ancora. Come per gli altri progetti di Bannon in Europa, bisogna sforzarsi di andare oltre le frasi a effetto rilanciate dai mezzi d’informazione e interrogarsi sulla solidità delle sue iniziative.

Secondo Massimo Faggioli, docente di teologia e studi religiosi all’università di Villanova, negli Stati Uniti, “Bannon sta cercando di stringere delle alleanze in Vaticano, ma non ha una base. Ha qualche contatto, ma poco rilevante”. Il riferimento è al cardinale Raymond Burke, il principale alleato di Bannon nella chiesa cattolica, nonché presidente del consiglio del Dhi.

“Prima che Francesco diventasse papa Burke era molto potente, ma negli ultimi anni è stato allontanato dagli incarichi che contano e oggi è sostanzialmente un emarginato. Non è preso seriamente da nessuno, è una macchietta, l’emblema della parodia antibergogliana. E il fatto che Bannon debba affidarsi a lui in Italia ci dice qualcosa sulla debolezza strategica della sua operazione romana”.

Questo non vuol dire che il terzetto nazionalista formato da Bannon, Burke e Harnwell non crei disagio a papa Francesco, spiega Faggioli, ma la loro è una piccola vicenda in una storia molto più grande e complessa. Il vero conflitto tra bergogliani e ultraconservatori si gioca negli Stati Uniti, dove lo scontro sugli abusi sessuali e le accuse contro il papa formulate dall’ex nunzio apostolico Carlo Viganò hanno portato a uno scisma non dichiarato. “In Italia le attività di Bannon, compreso il progetto della scuola di Trisulti, sono più che altro simboliche. Non credo che abbia in mente un programma a lungo termine. Non c’è un rischio di bannonizzazione del cattolicesimo italiano”.

L’isolamento dell’ala bannonista nella chiesa cattolica italiana è sembrato evidente all’inizio dell’anno, quando il cardinale Raffaele Martino ha lasciato l’incarico di presidente onorario del Dhi con una lettera in cui chiedeva ad Harnwell di restare nel solco della chiesa di Bergoglio e di tornare all’idea originaria del progetto della Certosa. Secondo Faggioli, le difficoltà di Bannon e dei suoi alleati sono dovute alla scarsa comprensione delle dinamiche del Vaticano, soprattutto dopo che Francesco ha allontanato i cardinali statunitensi dalle leve del potere. “Non parlano l’italiano e non si rendono conto di quanto tutto sia complicato. Vale anche per i teologi e gli storici”.

Un’ingenuità che finora ha vanificato anche gli sforzi di Bannon di creare un’alleanza con i partiti europei. Secondo Elia Rosati, docente a contratto all’università degli studi di Milano ed esperto di partiti e movimenti di destra, Bannon osserva l’Europa con le lenti della politica statunitense, ignorando una serie di sfumature fondamentali per capire le dinamiche del continente.

“Lui ha in mente i grandi partiti politici che fanno da cappello, come i democratici e i repubblicani statunitensi, sotto cui si muovono forze e movimenti diversi. È in quel contesto che Donald Trump, un outsider senza tradizione politica, è riuscito a scalare il Partito repubblicano”. In Europa questo approccio non funziona: “Negli Stati Uniti alle primarie te la giochi in sei mesi, in Europa le dinamiche di potere durano decenni. Matteo Salvini e Marine Le Pen sono entrati nei loro partiti da adolescenti, nessuno gli deve spiegare come prendersi il partito. Non hanno bisogno di uno stratega”.

Senza contare che Bannon è sbarcato in Europa in un momento in cui i partiti di destra avevano già il vento in poppa. “In Francia il Front national è il primo partito dal 2012, in Germania Alternative für Deutschland (Afd) va alla grande, come il partito di Geert Wilders nei Paesi Bassi. Oggettivamente non c’è mercato per Bannon”, continua Rosati.

Non è un caso se finora il partito europeo che ha cercato in modo più evidente di cavalcare la popolarità di Bannon sia stato Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, una delle poche formazioni di destra che non è riuscita a guadagnare consensi nonostante un terreno internazionale fertile per le idee nazionaliste. Nel settembre 2018 Bannon ha partecipato insieme a Modrikamen ad Atreju, l’evento degli attivisti di destra organizzato da Fratelli d’Italia. La platea gli ha riservato un’accoglienza calorosa, con applausi scroscianti ogni volta che l’ex stratega di Donald Trump pronunciava la parola “patriots”. Ma il suo intervento si è fatto notare soprattutto per gli elogi alla coalizione di governo tra Lega e cinquestelle, a cui il partito di Meloni si oppone.

Bannon mostra una certa confusione anche riguardo alle alleanze europee. Nei suoi discorsi associa spesso Salvini al presidente ungherese Viktor Orbán, ignorando che i due leader, al di là della retorica contro gli immigrati, sembrano avere strategie e progetti diversi in Europa. Orbán, che proviene dalla destra cristianodemocratica, si è tenuto alla larga dalla conferenza dei sovranisti organizzata da Salvini a Milano all’inizio di aprile, e continua a tenere la sua formazione politica, Fidesz, nel Partito popolare europeo (nei voti al parlamento europeo i deputati di Fidesz si schierano quasi sempre con i popolari). In un’intervista alla Reuters, un politico dell’Afd tedesco ha detto a proposito di Bannon: “Non siamo in America. In Europa i partiti antisistema hanno interessi molto diversi tra loro”.

Secondo un articolo di Politico uscito nell’ottobre 2018, Bannon avrebbe confessato di aver saputo dell’esistenza del parlamento europeo solo di recente, dopo aver visto dei “fantastici” discorsi di Nigel Farage su YouTube. Rosati paragona l’ascesa italiana di Bannon a quella di Aleksandr Dugin, il politologo russo che molti considerano l’ideologo di Vladimir Putin. Sono entrambi figure poco rilevanti nei loro paesi ed entrambi si sono fatti un nome in Italia come strateghi brillanti e commentatori non allineati.

Per un periodo sono stati popolari soprattutto in ambienti radicali e marginali, e in un secondo momento sono finiti al centro del dibattito pubblico grazie alla generosità dei mezzi d’informazione generalisti. Sia Bannon sia Dugin hanno trovato spazio nella nuova Rai sovranista del presidente Marcello Foa, soprattutto nel Tg2 di Gennaro Sangiuliano. Secondo l’Espresso Foa era presente all’incontro tra Bannon e Salvini avvenuto l’8 marzo 2018.

Steve Bannon ha definito le imminenti elezioni europee le più importanti della storia dell’Unione europea. Potrebbe avere ragione. È probabile che il 26 maggio i partiti nazionalisti riescano a capitalizzare la loro popolarità e a trasformare il volto politico del continente. In quel caso Bannon e i suoi seguaci europei canteranno vittoria e continueranno a far parlare di sé. Ma l’idea che uno stratega statunitense in disgrazia possa condizionare l’Europa e il Vaticano con un messaggio mal calibrato e con l’aiuto di qualche personaggio di secondo piano è quanto meno discutibile.

La notorietà di Bannon non ha a che fare con le dinamiche politiche in corso: riguarda piuttosto la sua capacità di promuovere se stesso scommettendo sul caos, e di sfruttare i vizi e le debolezze dei mezzi d’informazione generalisti, soprattutto quelli italiani, oggi più che mai pigri, schiacciati sulla narrazione dominante e terrorizzati dall’idea di non riuscire a salire sul carro del vincitore.

Lascia un commento