Università: se l’abuso di ufficio rischia di non essere più perseguibile penalmente [di Giambattista Scirè]

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http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/ 9 novembre 2020. Da tempo un vero e proprio spettro, un pauroso fantasma, è sembrato aggirarsi per gli enti pubblici e per gli organi della Repubblica, in particolare per gli atenei italiani: l’abuso di ufficio. Qualcuno però ha pensato bene di depotenziarlo, anzi quasi di depenalizzarlo. Non se ne è parlato sui giornali eppure, a settembre, è accaduto qualcosa di molto preoccupante, i cui effetti si vedono solo oggi. Ecco la ragione per cui ve ne parlo. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, dice il detto popolare.

Partiamo dall’inizio. Qualche tempo fa, durante il primo lockdown da Covid, il governo ha messo a punto a una modifica di legge sull’abuso di ufficio, contenuta nel “decreto semplificazioni”, poi approvato a settembre nel silenzio generale. La finalità era quella di “circoscrivere” meglio il reato di abuso di ufficio, con l’obiettivo di superare le titubanze che spesso colpiscono i funzionari pubblici, in particolare in materia di appalti, al momento di firmare atti e procedimenti amministrativi per paura di eventuali singole responsabilità penali e successive incriminazioni. E fin qui tutto bene, diciamo.

Intendiamoci. Fermo restando che le norme del codice penale che sanzionano la vera corruzione sono quelle che vanno dall’art. 318 all’art. 322, e quelle non cambiano di una virgola. Premesso che, a mio avviso, non è con queste o altre formulette di modifica nell’art. 323 del codice penale (nella fattispecie, la modifica ha riguardato in particolare la seguente frase, cioè da “di norme di legge o di regolamento” a “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”) che si fa veramente la lotta alla corruzione. Prova ne è la corruzione dilagante nella pubblica amministrazione in Italia già prima di questa modifica della legge.

Stiamo parlando di un contesto italiano che ha un ben elevato indice di percezione della corruzione (Trasparency International 2019: 51 ° su 198 paesi; Controllo della corruzione di World Bank 2018: tasso di 62/90) e un alto livello di favoritismo nei concorsi per settore pubblico, che comprende in particolare la sfera universitaria. Secondo il Global Competitiveness Report, infatti, l’Italia si colloca al 126 ° posto su 148 paesi per favoritismo nelle decisioni dei funzionari governativi (si veda: World Economic Forum, The Global Competitiveness Report 2013-2014, WEF Ginevra 2013, p. 227). Si consideri poi che, anche prima della modifica, la percentuale dei reati di abuso di ufficio giunti a condanna (sulla quale incidono, peraltro, i tempi lunghi della giustizia italiana e la prescrizione) era già bassissima.

Ciò detto è preoccupante rilevare quale è stato il primo impatto sulle più recenti decisioni dei tribunali relativamente alla questione dell’abuso di ufficio in ambito universitario.

Un recente articolo del 30 ottobre, pubblicato su un quotidiano locale di Foggia, “L’Attacco”, dal titolo “Denunce per abuso di ufficio, archiviato il procedimento”, parla chiaro. “Assolti…per aver commesso il fatto”, sottotitola efficacemente il giornale. Le indagini della polizia giudiziaria avevano trovato prova delle violazioni denunciate da un docente e da una ricercatrice di Foggia, a proposito dell’omissione di atti di ufficio e presunto falso ideologico collegati sia allo svolgimento del procedimento disciplinare contro il docente, sia per un concorso per professore associato cui aveva partecipato la ricercatrice, la quale aveva presentato denuncia dopo essere stata ingiustamente sacrificata sull’altare dei favoritismi.

Ma il pubblico ministero aveva formulato richiesta di archiviazione sulla base di due elementi: 1) si trattava di violazione di norme interne, non ricomprese nell’ambito dell’art. 323; 2) non si ravvisava l’intenzione di agevolare qualcuno al posto di qualcun altro. Naturalmente l’interessata aveva proposto opposizione sulla base delle considerazioni – amaramente ovvie per chi ha la sventura di vivere, conoscere da vicino e seguire queste vicende di concorsi universitari – che vedevano comunque ricompresa nell’abuso d’ufficio (nella formulazione vigente fino a poco tempo fa) la violazione dei regolamenti, con l’intenzione di avvantaggiare altro candidato contenuta in “re ipsa”.

Ebbene, il GIP del Tribunale di Foggia ha disposto l’archiviazione del procedimento penale non perché le condotte denunciate non avessero fondamento ma perché il legislatore, proprio nel suddetto decreto n. 76 del settembre 2020, ha deciso di restringere la portata applicativa dell’abuso di ufficio: in poche parole, è abuso di ufficio solo se si viola “una norma di rango legislativo”, mentre si potranno violare impunemente i regolamenti.

Ed eccoci, dunque, al punto sollevato all’inizio.

Questo di Foggia è stato uno dei primi banchi di prova e come potete capire tutto ciò è molto preoccupante per chi, come noi, vigila sui costanti abusi di ufficio commessi nelle università italiane.

Vi chiederete: magari si tratta solo di un caso specifico e, in realtà, gli effetti della modifica di legge non andranno ad influenzare e ad incidere in maniera così estesa sui reati di abuso di ufficio commessi negli atenei? In realtà sembra che non sia affatto così. La risposta ce la fornisce un insigne esperto di diritto penale, professore ordinario alla Scuola Sant’Anna di Pisa, nonché studioso dell’Accademia dei Lincei, Tullio Padovani.

In un interessante saggio dal titolo “Vita, morte e miracoli dell’abuso di ufficio”, pubblicato sulla rivista “Giurisprudenza penale” (n. 7-8, 2020), l’autore riferendosi al recente decreto parla, in modo esplicito, di esempio di “assurdità legislativa” e di “eterogenesi dei fini degna dell’ingenuità che l’ha prodotta”. In poche parole, scrive Padovani, il legislatore, dichiarando a parole l’intento di precisare e definire meglio il contenuto della fattispecie di reato dell’abuso di ufficio, in realtà la snatura e la trasforma in un “ircocervo dalle fattezze mostruose” perché si è inteso proclamare che l’abuso si deve risolvere nell’inosservanza di un dovere vincolato nell’attività, senza “margini di discrezionalità” in nessuno dei momenti qualificanti il comportamento definito dalla legge, risolvendo la questione, nella sostanza, in “un reato legislativamente impossibile”.

Ovvero, prima della modifica si poteva sanzionare penalmente l’inosservanza di un dovere vincolato che costituiva reato: l’omissione di atti d’ufficio in caso di condotta omissiva, il falso conseguente al compimento di un atto in difetto dei presupposti necessari, o l’abuso di autorità. Dopo la modifica c’è il rischio che non lo sia possa sanzionare più. Possibile? vi chiederete voi. Incredibile ma vero.

Si pensi solo che – come rimarca giustamente il prof. Padovani – l’art. 328 del codice penale (che punisce il pubblico ufficiale che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto o non risponde per esporre le ragioni del ritardo) non è infatti più legittimato ad “accogliere” violazioni omissive che siano rilevanti a norma dell’art. 323, in quanto la pena comminata risulta inferiore a quella dell’abuso stesso.

In pratica il legislatore ha riservato ad una “minutaglia” le conseguenze della sanzione penale (per giunta piuttosto consistente), mentre ha deciso di salvare dal reato penale tutti i pubblici ufficiali che, detenendo il potere di scegliere discrezionalmente se, come, quando e cosa decidere, finiscono per essere “ontologicamente” – scrive il docente – nella condizione per abusarne e recarne i vantaggi e i danni ingiusti dell’atto lesivo.

Ed è ancora più grave che – come ricorda Padovani – il legislatore in questo caso abbia voluto equiparare il pubblico agente ad un soggetto privato, come se esso possa diventare una sorta di proprietario del bando pubblico o del regolamento pubblico. Si viene così a prospettare una curiosa “configurazione normativa” che l’insigne giurista appunto definisce “ircocervo”: se si tratta da parte dell’agente pubblico di compiere una attività interamente vincolata, che si prospetti o meno l’interesse proprio, avrà semplicemente adempiuto al proprio dovere a norma dell’art. 51 comma 1 del codice penale.

Chiude il docente di diritto con una staffilata nei confronti dell’attuale governo: “L’assimilazione trova significative ascendenze nel diritto feudale: evidentemente inteso come l’unico in grado di esprimere la dimensione istituzionale della nostra società”.

Un’altra scudisciata al governo la porta il professor Saverio Regasto, esperto di diritto comparato all’Università di Brescia, che ha commentato: “Avevo seguito, distrattamente, la novella legislativa volta a “liberare” i funzionari e dirigenti pubblici dall’orpello (ovviamente dal loro punto di vista) dell’abuso d’ufficio, anche ai fini di far ripartire le procedure dei lavori pubblici al tempo della pandemia, ma non avevo riflettuto a sufficienza (mea culpa) sulla portata delle nuove disposizioni nell’ambito dei concorsi universitari.

Si tratta di un disastro perché, come è noto, in tema di sistema universitario le leggi (a partire dalla 240/2010) dispongono la trattazione di molte materie a specifici regolamenti adottati dagli atenei. In buona sostanza, non potrà esservi, se non in rari casi, la violazione di legge (perché quest’ultima si limita a rinviare a un regolamento della singola università) e non sarà punibile la violazione dei regolamenti, perché la novella legislativa non lo prevede più come reato! Bella situazione…e nessuno potrà spingersi, nelle fila del governo, a sostenere la scusa che non fosse a conoscenza della disciplina dell’ambito universitario.”

La vicenda merita alcune ulteriori riflessioni.

E’ allarmante che la depenalizzazione di alcuni comportamenti illeciti non solo sia collocata all’interno di un decreto legge, atto legislativo del governo che dovrebbe essere caratterizzato dal presupposto dell’urgenza, ma che, nel contesto dell’intero decreto, si faccia passare come una misura di “semplificazione”. E’ giusto continuare, sempre in nome della “santa semplificazione”, a delegificare come avviene ormai da 25 anni a questa parte?

Questo significa che interi settori della pubblica amministrazione sono stati quasi del tutto sottratti alla rilevanza penale con una “normetta” infilata in un decreto legge. E in questo caso stiamo parlando del sistema universitario, il cui eccessivo grado di autonomia comporta appunto che l’operato degli atenei sia quasi interamente disciplinato da norme di rango regolamentare. Ivi compresi i procedimenti concorsuali!

In secondo luogo, occorre rifarsi ad una interpretazione corretta e costituzionalmente orientata del reato di abuso di ufficio. Il ragionamento non può che prendere le mosse dal quadro costituzionale che riguarda il duplice aspetto combinato del principio del pubblico concorso con il buon andamento e, soprattutto, l’imparzialità della pubblica amministrazione. Facendo sintesi delle numerose pronunce della Corte costituzionale si può dire che, partendo dalla norma cardine dell’art. 97, comma 1, della Costituzione, esso individua nell’imparzialità dell’amministrazione, unita ai principi di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa, il valore essenziale cui deve uniformarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l’organizzazione dei pubblici uffici.

Tale principio è fondamentale perché mira a garantire l’amministrazione pubblica ed i suoi dipendenti da influenze politiche o, comunque, di parte. La violazione dei regolamenti e dei concorsi a norme di rango regolamentare comporta l’immediata violazione delle norme costituzionali di riferimento. In sintesi, la Costituzione garantisce che agli impieghi pubblici si acceda mediante concorsi pubblici imparziali ed essi sono tali se si rispettano le norme (tutte!) che li disciplinano.

Il principio non è nuovo. Lo afferma anche la Cassazione Penale (n. 25162 del 19 giugno 2008): “Qualora il pubblico funzionario compia dei favoritismi, in violazione dell’obbligo di trattare equamente tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili, in cui si traduce il principio di imparzialità sancito dall’art. 97 della Costituzione, è ravvisabile il delitto di abuso d’ufficio”.

La questione è molto dibattuta in ambito giuridico ma il recupero di questo fondamentale orientamento giurisprudenziale consentirebbe – già da solo – di sanzionare penalmente le violazioni dei regolamenti universitari sui concorsi. La stessa autonomia universitaria (degli atenei), udite udite, prevede la relazione tra autonomia e responsabilità e trova il suo fondamento proprio nell’art. 97 della Costituzione! Dunque, la violazione del regolamento di ateneo è essa stessa violazione della norma che lo contempla (la legge 240/2010) e quindi non si capisce come l’abuso d’ufficio, in questa prospettiva, non possa intendersi come diretta violazione della norma di legge (non ad uso interno ma ad uso generale).

Non si può non rilevare in questa sede di valutazione non tecnico-giuridica ma più culturale e sociale, che l’idea di proteggere la discrezionalità dell’atto amministrativo rappresenta, di per sé, una grave violazione del principio di uguaglianza tra i cittadini, attribuendo così all’agente pubblico un potere assoluto che in questo modo rischia di essere sottratto, addirittura, al vaglio giudiziario penale. L’amministrazione dello Stato, in particolare quella relativa ai settori dell’Alta Istruzione e dell’Università, non può dare ai cittadini l’esempio di disprezzare i principi dell’etica pubblica, della moralità e della giustizia, purché siano mantenuti pedissequamente e formalmente i limiti della legge.

Con questo decreto del governo sembra sostanziarsi proprio il dato della dimensione feudale, di cui “Trasparenza e Merito” ha parlato in più occasioni, nelle regole degli atenei. In poche parole (si spera non intenzionalmente!) è come se il governo avesse detto: abusate pure d’ufficio all’università purché la macchina amministrativa vada avanti, tanto non sarete perseguibili penalmente!

Se la nostra interpretazione e quella di autorevoli esperti in materia non fosse corretta, saremmo felici di essere smentiti. In caso contrario sarebbe stato scritto un brutto e preoccupante capitolo che infligge un duro colpo ai contenziosi pendenti e futuri sui brogli concorsuali, in direzione contraria alla tanta sbandierata trasparenza e legalità.

L’auspicio è che una giurisprudenza onesta e attenta possa ovviare a questo pasticcio ed evitare tutto ciò, agevolmente, nei modi sopra evidenziati. E se tutto questo complica la vita ai pubblici ufficiali, pazienza: la legalità viene prima! Con buona pace del governo e del cosiddetto “decreto semplificazioni”.

*Storico, Amministratore e responsabile scientifico di Trasparenza e Merito. L’Università che vogliamo

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