Una strage antropologica [di Pier Giorgio Testa]
Quando il 25 Febbrajo 1787 Goethe arrivò a Napoli non rimase indifferente alle caratteristiche umane di quella popolazione, lui che veniva in Italia essenzialmente per conoscere vestigia del mondo classico e scrisse così nel suo Italienische Reise, vero diario di viaggio: “Il primo aspetto di Napoli è lieto, animato, vivace; la folla inonda le strade, si agita in quelle; il re si trova a caccia, la regina è di buon’umore; le cose non potrebbero andar meglio.”. Scrive in seguito “Non si potrebbe fare colpa ai Napoletani, se nessuno di essi vuole allontanarsi dalla sua città, né ai suoi poeti se parlano in modo iperbolico della felicità, che qui si gode, quand’anche sorgessero in vicinanza non uno, ma due Vesuvi.”. Il 16 marzo scrive «Napoli è un paradiso […] tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso. Non mi riconosco quasi più, mi sembra di essere un altro uomo. Ieri mi dicevo: o sei stato folle fin qui, o lo sei adesso». A descrivere la Sardegna con questi inni alla sua bellezza non è stato nessuno, fatta eccezione per il Conte Alberto Ferrero di Lamarmora, che però non loda l’aspetto estetico dell’Isola né quello umano, ma nella modalità che adotta per descrivere in termini scientifici tutto ciò che vede in tutti gli ambiti, da quello geografico a quello archeologico, dall’etnografico al linguistico e dall’artistico allo storico, ognuno può leggere quanto, agli occhi di Lamarmora, la Sardegna fosse incantevole e meravigliosa. Lamarmora arrivò la prima volta a Cagliari nel 1819 dopo una traversata da Genova di “appena” 12 giorni e iniziò subito studi di ornitologia e di botanica; vi ritornò nel 1824, questa volta, in esilio perché avrebbe avuto un ruolo nei moti rivoluzionari del 1821 e riprese i suoi studi fino a diventare l’ultimo dei viceré di casa Savoia. Certo se Lamarmora dovesse ritornare oggi a distanza di 150 anni in Sardegna avrebbe difficoltà a riconoscerla e non solo per le brutture che in ogni dove e negli ultimi 50 anni vi sono state edificate soprattutto nelle coste, ma anche per la radicale trasformazione che paesi e paesaggi hanno subito, purtroppo neanche paragonabili alle trasformazioni che si sono viste nella Penisola, laddove ai centri storici o almeno tradizionali, che sono rimasti del tutto riconoscibili, si sono affiancate le moderne installazioni di edilizia popolare che, costruite come sono “a risparmio”, finiscono per costituire le brutte periferie in tutta l’Italia. Da noi invece tutti i paesi sono stati radicalmente trasformati, anche nei centri storici e, le case con preziose facciate in pietra sono state sostituite dal cemento armato e da vernici, omologati in tutta la Nazione, per cui i nobili paesi in Barbagia, oggi presentano soluzioni architettoniche e colori della riviera ligure o di quella romagnola. Sembrano mostrare, i Sardi, un “cupio dissolvi” nella propria cultura e quindi nella propria identità, che non si osserva in altre parti. Siamo arrivati nel breve volgere di qualche decennio alla scomparsa della Lingua sarda, che ormai i giovani non conoscono più e talora nemmeno capiscono, mostrando l’esigenza di cancellare anche qualsiasi inflessione dialettale, che li renderebbero facilmente riconoscibili appunto come Sardi. Neanche il più colto docente universitario di Napoli si preoccuperebbe di nascondere le proprie origini celando il proprio accento. Infine anche il vestiario tradizionale nella seconda parte del 20° secolo è scomparso, ultime vestigia di una cultura millenaria che viene asfaltata dai consumi odierni; oggi viene malinconicamente presentato solo a turisti, colpiti in modo superficiale, solo da colori e da ori, per niente colpiti da una Cultura complessa di cui abbiamo contribuito a fare strame. |
Finis Sardiniae, naraiat cudhu preighendhe dae cudh’ala de su Tirrenu apustis chi aiat triballadu tota vida pro s’iscopu, e timindhe de l’iscontzare su zogu carchi idea animosa.
Podimus nàrrere chi i sardi semus finalmente civilizzati, iscallaus in totu is termovalorizadoris chi abbruxant s’àliga, iscàvuant cinixu a sa parti de s’àliga e s’enérgia a s’àtera: est de crei isceti chi s’incuinamentu de CO2 bandit a dónnia parti e aici s’aguantaus cussu impai cun su cinixu, dópiu ‘guadàngiu’ a nosu.
Semus logu de lampiones mannos (de tzitade o bidhas morindhe): b’at iscuru chi no lassat bídere e ‘lughe’ chi intzegat. Bravi! Tzegos est menzus, gai finalmente ci aiutano.