Studio d’Artista: Leonardo Boscani [di Roberta Vanali]

boscani

Una costante della ricerca di Leonardo Boscani, sassarese, classe 1961, è il recupero di vecchie immagini che decontestualizzate diventano metafore del presente, strumento d’analisi con l’obiettivo di un effetto altamente straniante. Osservatore non convenzionale al limite della provocazione, l’artista è interessato alle varie forme ideologiche e al condizionamento della situazione socio-culturale fagocitata dal suo perverso meccanismo, che traduce attraverso la sperimentazione dei vari media espressivi: dal disegno alla pittura, dalla fotografia al collage, per arrivare a video, installazione e performance.

Qual è la tua formazione e quali gli artisti di riferimento? La mia formazione non è facile da definire. Iniziata negli anni 70 non è propriamente una formazione scolastica o accademica, anzi per certi versi all’inizio ho avuto un rifiuto per ogni forma di disciplina e una certa predisposizione al ribellismo che mi ha fatto passare l’adolescenza non troppo spesso tra i banchi ma intrufolato come ogni ragazzino ribelle in possibili o improbabili rivolte. In quel clima di imminente rivoluzione era facile assorbire ogni nuovo alito creativo che poteva provenire dalla musica, dal teatro sperimentale o da qualunque altra forma d’arte sempre in una dimensione collettiva.

Ho vissuto intensamente l’ultima vera contestazione generazionale in Europa. Solo dopo diversi anni sono riuscito a riprendere i miei studi artistici. Durante questa nuova fase ho incontrato sicuramente delle figure importanti che hanno lasciato un segno nel mio percorso, come ad esempio Pinuccio Sciola, Aldo Contini o come Ciriaco Campus e poi sicuramente Anne Alessandri la direttrice del FRAC Corse che ha sempre sostenuto il mio lavoro e con cui ho un rapporto professionale consolidato.

Ma sicuramente la persona che per prima ha creduto che potevo avere delle capacità in campo artistico è stato il critico Marco Magnani che con Giuliana Altea seguivano lo sviluppo dell’arte degli anni ’80 e ’90. In realtà sono come una spugna, tutto quello che trovo interessante lo assorbo e lo analizzo il resto lo analizzo ugualmente ma non lo assorbo.

Sei un infaticabile sperimentatore, ti sei avvalso di linguaggi come pittura, disegno, grafica, fotografia, video, installazione, performance e, non ultimo, street art. Qual è il più congeniale e perché? Veramente non so quale mi sia più congeniale ma credo che il vero mezzo da cui parte tutto è l’immaginazione. A volte i progetti nascono dalle esperienze quotidiane che stimolano nuove ricerche e dunque anche nuovi mezzi e poi la “velocizzazione” di questa epoca ci condiziona naturalmente nelle scelte dei linguaggi.

La continua montagna di informazioni che assimiliamo o ci fa diventare dipendenti anche dalla cattiva informazione o ci porta a trovare un equilibrio augurabile alla nostra specie. Oggi si ha l’idea che l’intelligenza e lo sviluppo evolutivo siano alimentati dalla quantità di dati che trasmettiamo e che soprattutto assorbiamo. Invece ho paura che sia proprio il contrario.

Per quanto riguarda la street art non mi posso definire in quell’ambito che ha una storia molto diversa dalla mia. Ad esempio il mio ultimo intervento per strada è sul muro del mio studio, all’esterno ma sono 13 disegni che rappresentano altrettanti progetti di tappeti da realizzare secondo le tradizioni della cultura sarda. Un portfolio all’aperto e forse anche la street art è diventata il portfolio murale degli artisti che oggi operano sulle strade. Insomma se le strade possono dare bellezza e fare vivere l’artista e l’arte ben vengano ma appunto io non faccio parte della cultura street.

Precisa la tua visione dell’arte come atto di resistenza. Non è così semplice spiegare i due concetti, oggi sono diventati luoghi comuni. Non so neanche se l’arte ha ancora questa forza dirompente che ha avuto con il futurismo o con il dadaismo, oggi si arriva quasi ad affermare che Duchamp è un coglione; dunque bisogna resistere all’ignoranza. Il resto viene da sé cosciente che all’ignoranza siamo predisposti tutti senza eccezioni.

Qual è la tua posizione nei confronti del mercato dell’arte? Mi chiedo quale sia quella dei mercanti nei miei confronti. Scherzi a parte, il mondo dell’arte è un meccanismo molto pericoloso per un artista che tu ci sia dentro o no. Se ci sei puoi rischiare di finire un po’ usa e getta, se ti va bene e in base a quanto ti sei dato hai tra le mani un gratta e vinci o alla peggio la tua ultima roulette russa. Io non voglio farmi fuori e vivo a prescindere dal mercato delle gallerie e in 20 anni della mia esperienza come artista ho fatto solo questo, non insegno, non faccio altri mestieri ho basato tutto sul lavoro mio e della mia compagna (Rita Delogu) con cui collaboro. Rispetto la quotazione che mi è stata data da chi ha investito su di me e mi ingegno con laboratori, work shop sempre però basati sul lavoro di ricerca.

Quando per ben due volte su Flash Art il mio nome è stato citato tra i cento artisti più importanti del panorama italiano, naturalmente sono stato contattato da alcuni curatori milanesi, due giorni dopo ero a casa con l’idea che la catena di montaggio non fosse solo in fabbrica  ma anche  nelle gallerie di Milano. Ed è stata la nostra fortuna, mia e di Rita perché poco dopo è iniziata l’avventura con Parigi e la Corsica. Ora Itaca è il posto dove farò il mio mercato.

Da sempre impegnato politicamente e socialmente, mi racconti com’è nato il progetto I Dannati della spesa? Sassari si è trovata ad essere la città più colpita dal virus in Sardegna e nei giorni dell’ andrà tutto bene bisognava indagare su quelle situazioni dove non era sempre vero che andava tutto bene, perché già c’era qualcosa che non andava. Una di queste situazioni era quella del carcere. L’esigenza era reperire e consegnare beni di prima necessità ai detenuti che non potevano riceverli dai parenti bloccati per il lockdown e soprattutto la richiesta dell’acqua potabile era urgente.

Abbiamo preso contatti con il garante dei detenuti Antonello Unida e attivato una rete di sostegno per il periodo del blocco. Molte delle persone coinvolte ne hanno poi a loro volta contattato altre e si sono creati dei gruppi che si sono attivati su diverse situazioni a rischio e d’emergenza, come ad esempio le Janas che oltre alle mascherine hanno raccolto e distribuito materiale scolastico, vestiario e giochi per i bambini.  Ma è la stessa pratica nata spontaneamente che ha visto i giovani dell’ex-Q essere i primi ad attivarsi durante l’alluvione di Olbia.

Non ho una inclinazione per il volontariato e credo che l’attivismo sia l’unica forma di resistenza che ci rimane, si può essere volontari nei primi giorni di un emergenza ma dopo ci deve essere la presenza delle istituzioni ma anche una comunità unita sa essere forte e pronta a vivere momenti duri. La cosa difficile è difendersi dal rischio delle strumentalizzazioni per questo l’etica della fratellanza rimane sempre una buona arma di difesa per l’attivista.

E il Giardino Bandhouse? Il Giardino Bandhouse è la mia Itaca. Sono andato via da quel posto che era il mio studio e ci sto tornando dopo tanti anni. Lì c’è molta parte  del mio lavoro e del lavoro di Rita Delogu con cui condivido 20 anni di collaborazione. Ci sono tanti anni dei nostri progetti anche quelli concepiti con Erik Chevalier, un artista che stimo per il suo lavoro e con il quale ho un’intesa immediata, e con altri amici e compagni.

La scelta di itornare nel mio vecchio studio è iniziata prima dell’era Covid e questa è una conferma che mi assicura d’aver fatto la scelta migliore e lungimirante, mi auguro. In un momento dove i musei e gli spazi culturali sono e forse saranno limitati ancora per un po’, ma non certo per sempre, lo studio di un artista può avere nuovamente un ruolo come lo è stato nel passato. Mi preparo per questo e lo faccio alla mia maniera, in maniera indipendente finché è possibile.

Ma è più o meno la lezione dei nostri grandi maestri come Sciola: il suo studio e il suo paese sono stati sempre per lui patrimonio della comunità. Ma ci sono già esperienze di artisti contemporanei sardi come Bruno Petretto che ha da anni fatto una scelta di “spazio altro” dove l’anima è sicuramente lui. Su questa lezione, il primo passo sarà contaminare il mio nuovo “quartiere”.

Il Giardino Bandhouse è già un luogo di confronto e incontro, molti degli ultimi progetti di cui sono parte, sono nati sotto quella veranda con altri amici e colleghi. Il Covid e le sue tenebre non hanno fatto altro che accelerare il ritorno al mio studio e dunque ora c’è un grande fermento intorno al giardino e a piccoli gruppi e anche con il distanziamento ci si incontra. Uno dei prossimi obiettivi è aprire Bandhouse

Come spieghi questo inquietante scenario diffuso di intolleranza e odio? Veramente non me lo spiego e lo sto analizzando come tutte quelle cose che mi passano davanti veloci. Non mi sorprende che esistano ma mi preoccupa l’espandersi a tutti i livelli di questi fenomeni che poi sono molto più virtuali che reali nel mondo occidentale ma che posso sfociare in individualismi violenti e di branco, Il terrorismo islamico arruola in questa fascia di individui isolati ad esempio. Se per me la violenza può essere un estremo atto della condizione umana è anche vero che una delle condizioni più deleterie dell’umanità è questo odio e questa violenza che è diventata solo offensiva.

Una tua riflessione sul panorama artistico in Sardegna. Tu mi chiedi una riflessione su un argomento che è molto complesso e che avrebbe bisogno di una lunga chiacchierata che non basterebbe comunque a sviscerare tutto. Le cose positive le conosciamo tutti: innanzitutto una straordinaria generazione di artisti sardi che va da giovani con grande potenzialità ad artisti già formati e validi.

Ed è veramente straordinario che in un territorio così avaro, rispetto all’arte contemporanea, vengano fuori personalità artistiche di spessore e non poche. Il problema sta nel non perdere per strada tutta questa ricchezza e in Sardegna hanno fatto e permesso di tutto fuorché la salvaguardia del proprio “patrimonio nazionale”. Non si fa un lavoro di tutela delle risorse umane e neanche di quelle materiali. Vengono costruite strutture che cambiano destinazione d’uso ad ogni giravolta politica o vengono abbandonate e non viene soprattutto riconosciuto il lavoro intellettuale.

Si deve pagare sempre un prezzo alla politica e si ha sempre la sensazione che le istituzioni siano sotto ricatto; ed è quella stessa classe “dirigente” che convoca gli stati generali dell’arte solo alla vigilia delle solite elezioni di mezza stagione. Però esiste un aspetto etico che riguarda proprio gli artisti e tutti gli operatori del settore, diciamo che se la politica ha delle responsabilità il mondo dell’arte non è innocente.

In questo momento lavori anche ad una serie di caricature. Da cosa è scaturita questa tua nuova esigenza e cosa hai in serbo per il futuro? Ho sempre disegnato come mi consigliava Pinuccio Sciola “… almeno 50 disegni al giorno… almeno 50 piccoli schizzi o segni dove la mano vola” , ora me ne bastano molto meno ma è un esercizio che faccio ogni sera. La disciplina anche in un indisciplinato ci vuole e questa del disegno è una bella disciplina che aiuta se applicata con rigore.

Appunto nello studio Bandhouse ho scatole piene di questi disegni a “mano che vola”, forse migliaia, ritratti e caricature e segni essenziali riempiono scatole e scatole e quaderni e si ritrova il mio percorso in piccoli disegni ma, da quando ho cambiato cellulare ho comprato un dispositivo che ha una piccola “app note” e in questi giorni che lavoravo nel cantiere della casa ho utilizzato il touch al posto della matita e mi sono ritrovato perfettamente con il mio segno di penna o matita o pennello.

Da sempre ho studiato nel mio privato il volto e l’anatomia umana ma ora guardare un volto e immaginarlo o ricordarlo senza la mascherina è un buon esercizio di memoria e di creatività.

*Foto. Rita Delogu

 

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