Assalto a Capitol Hill, sepsi o bubbone? [di Mario Rino Me]

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All’indomani della giornata di caos dell’Epifania (e Natale della Chiesa ortodossa) nel sancta sanctorum della Democrazia USA, coda velenosa dell’annus horribilis 2020, si impongono alcune riflessioni sui fatti che hanno scosso il già effervescente contesto internazionale. In effetti, un noto think-tank internazionale, Eurasia Group, per la prima volta ha citato il rischio della tenuta degli USA nel suo apprezzamento strategico del 7 genn2020, poi aggiornato a marzo per i noti casi della pandemia.

A sostegno di tale affermazione, ha valutato che, sulla base delle divisioni interne durante le elezioni presidenziali dell’autunno” le istituzioni saranno soggette a una prova senza precedenti”. L’apprezzamento annuale dello stesso gruppo di esperti pubblicato il 4 Genn.2021, osserva che una “superpotenza preminente lacerata a metà non può tornare alla normalità.

E quando il Paese più potente è diviso a metà, ognuno ha un problema”. Il grand problème che attanaglia il Paese viene al pettine il 6 gennaio, allorquando i “ragazzi orgogliosi” trumpiani, incuranti del flagello della pandemia da Covid 19, formano il raduno programmato anzitempo anche nei dettagli, nel centro della Capitale, all’insegna del “Salviamo l’America”.

Qui, la grande bugia della “vittoria rubata”, per la quale si è già fatto ricorso a ogni mezzo legale al fine di ribaltare i dati ufficiali della tornata elettorale, e le intenzioni, si dice già note, dei partecipanti si saldano con l’inadeguatezza del dispositivo di sicurezza ridotto all’osso. Accade allora che una manifestazione pittoresca di protesta nell’area circostante il Campidoglio, arricchita da una coreografia di selfies, mazze da baseball, corna e di bandiere di parte, assuma in breve tempo le forme di assalto al Centro di Potere, evolvendo dunque in una crisi di sicurezza nazionale.

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo fanno vedere la folla rancorosa dei partecipanti sostenuta da un ambiente mediatico che la guida e la attizza con proclami da parte di persone di rango (il Presidente, un figlio e un suo avvocato che incita a una sorta di ordalia (“giudizio da combattimento”): in breve una miscela incendiaria di rabbia pronta a deflagrare appena innescata.

Il che è avvenuto quando la folla ha fatto irruzione nel luogo considerato sacro al fine di interrompere una procedura rituale della democrazia americana, per poi disperdersi nella Rotonda e negli uffici di alte cariche esibendo trofei o stravaccandosi nelle loro poltrone. Proprio per questo motivo che ha causato l’interruzione dei lavori di Camera e Senato nel momento culminante della conferma del Presidente “eletto” si è parlato di “insurrezione”. Non sono poi mancate le scene di alto contenuto simbolico come il passaggio della bandiera degli Stati Confederati, sconfitti dall’Unione nella guerra Civile del 1861-1865.

Questa crisi sistemica, perché di questo si tratta, ha prodotto all’estero una varietà di sentimenti, dallo stupore e costernazione di Paesi Amici e Alleati alla shadenfroide, ironia e sarcasmo degli altri sistemi di governo autocratici. In una sorta di nemesi, quegli effetti di “shock e timore” che i fautori della Rivoluzione negli Affari Militari si auspicavano per i nemici negli interventi all’estero, sono stati subiti questa volta in casa per mano dei propri concittadini; il che ha comportato una spaccatura all’interno del Partito Repubblicano, con le prime defezioni di personaggi di spicco, come il Vice Presidente e il senatore L. Graham, che è stato poi additato come traditore dagli irriducibili.

Sulle cause del Trumpismo si è parlato e scritto molto con tanto di pronostici, poi concretizzatisi. L’anno scorso ad esempio, alcuni libri lo hanno tratteggiato a tinte fosche: a partire dalla nipote (Mary Trump, (Too much and never enough), che lo ha definito “bullo e meschino, minaccia alla pace Mondiale); poi il suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, il “falco” John Bolton, cacciato per contrasti, ha parlato, e ha scritto, sulla sua incompetenza e sulle sue bugie.

Altre hanno esaminato il fenomeno del trumpismo, come i giornalisti di fama internazionale Bob Woodward (Paura) e Michael Wolff (Fuoco e Furia). Il leit motif è il solito: imprevedibilità, carenze valoriali e, soprattutto, inadeguatezza del personaggio al ruolo di Presidente. Ma risulta anche evidente che il Presidente sia stato l’unico a dar ascolto e capitalizzare il sostegno di un largo settore classificato, come dicono alcuni amici d’oltreoceano, “Gruppo delle rimostranze”, espressione di quell’America dell’interno lontana dai riflettori, dal governo, dai media e dalle correnti prevalenti del pensiero che loro chiamano “liberali della costa”, costituita in gran parte da cosmopoliti, istruiti nelle Università di grido ecc.

Si dice che definendoli come “deplorevoli” la senatrice H. Clinton, non a caso associata al sistema al potere, si sia giocata la Presidenza.  Il milieu di questi gruppi è dunque saturo di disinformazione e polarizzato. Tanti credono inoltre alla teoria diventata sorprendentemente popolare che ritiene che il Presidente difenderà il mondo da una vasta rete di pedofili e satanisti, mentre il “furto “della vittoria elettorale è fuori discussione al punto che la controparte democratica è considerata illegittima.

Orbene, come afferma un mio compagno di Corso alla National Defense University di Washington di tradizione Repubblicana, il Presidente Trump è l’effetto, non la causa di questo clima. Invano, esponenti dello storico partito hanno cercato di frenare l’ascesa del tycoon nel partito. Come il senatore Mitt Romney e il compianto Senatore J. Mc Cain aveva dichiarato che “la nostra incapacità è il loro sostentamento”.

Sul piano istituzionale, la resilienza del sistema a questa tremenda prova si è manifestata con la ripresa dei lavori di entrambi i rami della rappresentanza, mentre le varie Corti dei singoli Stati hanno respinto le varie istanze di brogli e annullamento della votazione, ritenendole tutte “prive di fondamento”. A loro volta, le Forze Armate, con la loro neutralità politica ribadita più volte dal Capo di Stato Maggiore Gen. Mark Milley, si sono rivelate uno dei pilatri portanti e baluardo dell’ordinamento dello Stato.

Sul piano tecnico dei deficit securitari, le inchieste in corso faranno luce su fatti e circostanze, anche se sembra oramai acclarato che precedenti offerte di assistenza da parte della Guardia Nazionale del Distretto e durante la vicenda le richieste di assistenza da parte dalla Polizia alla Guardia Nazionale non siano state considerate vis à vis la sottovalutazione della minaccia o la gravità del momento rispettivamente. Tuttavia, mi pare opportuno riconoscere che le poche forze di polizia in situ hanno fatto l’impossibile per contenere la folla tutt’altro che benevola.

Senza autocontrollo le cose sarebbero di sicuro andate diversamente in termini di bilancio delle vittime. Oltre alla perdita del podio dell’autorevolezza planetaria sui valori democratici, resta lo stigma delle divisioni a metà della società e questo arduo compito di rappacificazione e integrazione incombe sulla nuova amministrazione alla pari della risposta alla preoccupante curva epidemiologica e alla ripartenza economica. E sono certo che gli USA che hanno sempre reagito alla grande sanno all’altezza.

Come osserva un caro amico americano, ambasciatore, la democrazia è un processo e non un risultato acquisito una volta per tutte. Papa Francesco risponde indirettamente raccomandando la pertinente “cultura della cura”.

*Ammiraglio di Squadra (r)

 

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