Màschera, quel fascino misterioso [di Maria Antonietta Mongiu]

TANIT

L’Unione Sarda 4 febbraio 2021. La città in pillole. Màschera è parola assurta ad un’invasività senza soluzione, perché riferita ad un salvifico oggetto che ha modificato i nostri linguaggi. Da quello verbale all’estetico alla cinesica. Un mutato linguaggio del corpo a significare quanto l’uomo si conformi a pratiche, a tutta prima, estranee ma in verità, per quel tanto di taumaturgico che contengono, fondate su un sostrato assai denso da cui la stessa parola màschera origina. In lingua sarda màschera si dice màscara.

La sua base di derivazione è masca di origine indeuropea con una diffusione paneuropea che include anche la Sardegna. Nell’isola il termine oltre che nella pratica veicolare, è documentato nel Condaghe di Santa Maria di Bonarcado che racchiude la vita, tra XII e XIII secolo, del monastero nel Giudicato d’Arborea. E’ stato studiato, nel significato e nel senso, da Giulio Paulis e non dissimili da quelli delle diverse aree europee: fuliggine, fantasma nero, ma pure strega.

Nel tempo i significati, nell’isola, si sono stratificati con effetti sorprendenti ove si pensi che a Carnevale, in alcuni territori, tingersi il viso di fuliggine è già un mascheramento che non abbisogna di ulteriore falso viso, umano o animale che sia. Tale resilienza assurge a garanzia di una qualche coerenza culturale nella complessa geografia delle maschere sarde, lungi da essere acclarata. Poco indagata nelle eventuali connessioni con le archeologie che restituiscono maschere importanti sul piano storico artistico.

La possibilità di due nature che la maschera garantisce, oltrepassanti la crisi di presenza, è infatti documentata dal Neolitico; antropomorfa o zoomorfa, a coprire tutto o parte del viso. Sontuosa, nell’essenzialità, la Maschera di Agamennone, in lamina d’oro, trovata nel 1876 da Schliemann. Nel Pantheon delle maschere antiche dal carattere apotropaico figurano alcune del Museo Archeologico di Cagliari.

Tra queste è doveroso, alla riapertura, andare a trovare le maschere femminile di tipo egittizzante, prodotte tra VI e inizio del V sec. a. C.. Una in particolare, la Tanit Gouin, dal nome dell’ingegnere minerario Léon Gouin, arrivato in Sardegna nel 1858, che ebbe casa a Capoterra dove raccolse una celebre collezione archeologica, in acquistata per il Museo da Antonio Taramelli.

Maschera di bellezza straniante, una sorta di Gioconda ante litteram, ha il capo coperto da un prezioso telo, occhi sgranati, sorriso enigmatico. Come ogni vera maschera, sembra ci voglia proteggere.

 

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