Leandro Muoni, poesia d’ansia e d’amore [di Ottavio Olita]
Per una volta voglio ribaltare lo schema consueto delle recensioni. Normalmente si lascia alla fine il giudizio sull’editore. Questa volta è importante partire proprio da questo tema perché il libro del quale parlo rappresenta una novità assoluta nel tradizionale rapporto Autore-Editore. La Fondazione Giuseppe Dessì, nella persona del suo presidente Paolo Lusci, che è anche responsabile delle pubblicazioni della Grafiche Ghiani, ha scelto in proprio di dare alle stampe una raccolta di poesie, dal titolo “Compieta dell’uomo tecnologico”, scritta da Leandro Muoni. La coraggiosa assunzione di responsabilità è un formidabile riconoscimento non soltanto per l’autore, molto stimato negli ambienti letterari sardi, ma per la funzione che ancor oggi – nonostante i furori di banalizzazione della parola, in particolare nei salotti televisivi – ha la Poesia. Riconoscimento che si è tradotto anche nell’allestimento, con la riproduzione in copertina di un bel dipinto di Giancarlo Buffa che ha anche dedicato a Muoni un intenso ritratto che occupa la sesta pagina. E oltre alla grafica, due brevi saggi, in apertura, con la ricca prefazione di Giovanni Dettori, e in chiusura con la postfazione dello stesso Autore dell’opera. Chiuso il “cappello” che ho sentito l’urgenza di scrivere perché molto favorevolmente sorpreso dalla scelta fatta dalla Fondazione Dessì, passo all’autore con il quale ho avuto la fortuna di condividere una parte degli studi universitari, in particolare essendo stati entrambi allievi di un indimenticabile e non dimenticato professore di Letteratura Francese, Giancarlo Fasano. Dalle sue lezioni io maturai la scelta di laurearmi con una tesi sulle ‘Fleurs du Mal’ di Charles Baudelaire, Leandro fece un’altra scelta perché non frequentava il mio stesso corso di laurea in Lingua e Lettaratura Straniere. Singolarmente l’impronta di quell’insegnamento è rimasta più impressa in Leandro che in me, perché nelle scelte successive io abbandonai quella strada specialistica per approdare al giornalismo, Leandro ha custodito gelosamente l’impianto di studi originale elaborando negli anni una sua poetica originale, attualizzandola, rendendola particolarmente pregnante. Ho raccontato tutto questo per spiegare per quale ragione ho dedicato grande attenzione e provato forte emozione nel leggere i versi che compongono “Compieta dell’uomo tecnologico”. Emozione accompagnata da una sorta di senso di colpa per il diverso approccio che nella mia storia personale ho avuto con la pratica e l’uso della ‘parola’. Costretto a semplificare per rendere immediatamente accessibile e comprensibile il mio linguaggio, ho progressivamente trascurato l’enorme ricchezza semantica di termini purtroppo sempre più trascurati. Leandro Muoni ribalta tutto questo e lo spiega con grande lucidità nella postfazione nella quale si sofferma senza reticenze sulla sua particolare concezione dell’arte poetica – e non solo poetica – prodotta dall’ansia, così come dal rischio di mutismo o addirittura di afasia. “La poesia – scrive a pag. 180 – si manifesta (…) sotto qualche aspetto anche come riverbero dell’ansia, così come costituisce magari il suo contraltare: ossia lo spodestamento e insieme la padronanza dei sensi, delle emozioni”. E più giù, nella stessa pagina: “Ansia, bellezza ardente e triste e sventura sono dunque tra i fattori della creazione artistica”. La raccolta poetica articolata in otto sezioni – da un Prologo a un Epilogo – è un percorso interno alla crescita dell’Autore, crescita biografica e artistica, che è limitativo esemplificare. Voglio però riportare – per contrapposizione di linguaggio – alcuni versi di due componimenti per dimostrare la forza che la parola assume quando viene scelta con precisione, passione, competenza. I primi son tratti da”Terza età”: “Ma le pupille trafitte dei vegliardi\muse sedute\metafisiche sghembe\all’addiaccio\dei voti annichiliti\rigide fosse\non sollevàro\il capo.\ Solo un fremito grigio\all’angolo\della sclera\ebbe il suo ultimo\rintocco di vertigine\e con spirale mesta\muto cadde senza un sospiro\a terra\decomposto il cielo. I versi che seguono sono tratti da “A un pacifista accanito e disarmato ‘fino ai denti’: “Acido parli\come piscio di cane\schizzo amorfo che taglia\dagli occhi sghembi\ventricolari.\ Affondi verboso nell’ideale\ma stringi coi denti il limone\e argomenti in voce discinta\intanto che emetti con\rabbia dialettiche obese.\ E io penso ch’è sempre un delitto\gettare\ricami sul mondo\dimenticandosi in bianco\l’empio aggressore\anche se con casalingo\veleno muriatico\o ammoniacale isteria urinaria.\ Ma poi penso che servono in vita\i folli\come te puri o impuri\in questa immensità\pataccara del mondo.” La doppia veste linguistica non deve ingannare. Il Poeta Muoni non si sente Vate. Chiudo citando i versi il cui contenuto, per similitudine, mi hanno ricordato quelli di “L’albatros” di Baudelaire. Lì il poeta è paragonato al grande uccello che in cielo volteggia da signore, ma quando è catturato, sul ponte del battello si muove goffo e sgraziato. Muoni, invece, chiude così il suo percorso poetico: “La legge della domanda e dell’offerta – Il commiato del ‘Sans Aveu’ “: “E tu – dimmi – qual è\il tuo mestiere, cosa sai fare\di buono nella vita?”\ “Far versi – signore – scrivere\poesie (talvolta)…quando\il ciel t’aiuta”.\ Troppo poco, non basta!E poi, ragazzo, più risoluto nelle risposte.\ Avanti un altro!”.
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