Anche i giganti in cassa integrazione [di Maria Antonietta Mongiu]

Statue_Monte_Prama

L’articolo in questione fu pubblicato in Sardegna Democratica (11 giugno del 2012). Riteniamo utile rieditarlo per le considerazioni sui beni culturali e paesaggistici sella Sardegna (ndr).

L’aforisma “Siamo nani seduti sulle spalle di giganti” di Bernardo di Chartres e quello di Giovanni di Salisbury “non per l’acutezza della vista o la possanza del corpo, ma perché sediamo più in alto e ci eleviamo proprio grazie alla grandezza dei giganti”, bene descrivono la sproporzione tra i decisori di oggi e l’orizzonte sotteso al nostro passato a partire dalle statue di mont’e Prama, note ormai a tutti dopo la mostra “La pietra e gli eroi” nel Centro di Restauro di Li Punti a Sassari.

Per George Orwell “Chi controlla il passato controlla il futuro”. Rassicurante. La successiva “ Chi controlla il presente controlla il passato” meno. Una sciagura nell’Italia di oggi, non all’altezza dei suoi beni culturali. Come in Sardegna. Esemplari il Betile, rubricato ad ex area Betile, o Tuvixeddu, a cui i giardinetti fanno correre gli stessi rischi dei palazzinari, o l’Anfiteatro, tra legnaia e discarica, o la proposta Fondazione Sardegna Beni Culturali (modifiche alla legge regionale 20 settembre 2006, n. 14. Testo unificato n. 235-276-292/A), o la ormai macchiettistica vicenda delle statue di Cabras. Per le quali è stato presentato un progetto dal titolo “BC². Beni Culturali Beni Comuni. Un approccio partecipativo alla valorizzazione: il Sistema museale per Mont’e Prama”. Il progetto “ intende sperimentare un approccio metodologico innovativo, utilizzando per la prima volta tecniche partecipative che permettono di includere punti di vista e competenze differenti” per realizzare “un sistema museale plurale per il complesso scultoreo di Mont’e Prama, incentrato su tre differenti poli di fruizione progettati come un unico percorso museale ma a differente vocazione tematica: il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari; il territorio di Cabras, il Centro di Restauro di Li Punti a Sassari” (!?).

Fufa per giustificare lo sciagurato smembramento del complesso statuario e l’esborso di soldi pubblici in chiacchiere rispetto alle quali le pubbliche istituzioni dovrebbero essere più prudenti. Credevamo infatti di aver pagato pegno a quelle che nel 2000 spacciarono la legnaia nell’Anfiteatro e le fioriere ed il cemento a Tuvixeddu come condizione per Cagliari “capitale del Mediterraneo”. Sappiamo com’è finita. Fummo derisi per aver denunciato l’inganno e stigmatizzati – con G. Lilliu ed A. Romagnino in testa- come pasdaran ed anche peggio. Difendevamo il bene comune e le pubbliche casse. Perché le èlite e le classi dirigenti sono quelle che si assumono responsabilità nel proporre idee e progetti chiari di società, possibile e sostenibile. Sono quelle che si sottraggono alla pulsione di piacere a tutti ed a tutti i costi a spese del vero, del bene comune, delle pubbliche istituzioni.

Ciò che oggi si vede in giro è, al contrario, riluttante ad assumersi responsabilità di progetto e di azione ma non ad esercitare potere ed a voler piacere a tutti ed a tutti i costi, confondendo l’autopromozione con il consenso su politiche di pubblica utilità. Ecco il vero cancro del nostro territorio e della sua irriproducibile densità storica, materiale ed immateriale, che centinaia di generazioni nei millenni hanno stratificato. Della politica e del governo della cosa pubblica. L’altra sera, con la potenza mediatica che gli è propria, lo ha descritto, efficacemente Edward Luttwak, il politologo americano. Da rabbrividire per le esemplificazioni. Ciascuno poteva applicarle a casa propria. Allora, senza scomodare Gramsci, basta tacere e stare indifferenti. Chiedo scusa quindi per l’insistenza su temi altre volte trattati. Le statue di mont’e Prama ed il Betile come metafora.

La precedente giunta regionale destinò parte dei Fondi CIPE 2000/2004 per le Aree Sottoutilizzate (DG n. 50/1, 30.11.2004) per il patrimonio culturale sardo: 25 milioni di euro! Una successiva delibera (DG n. 14/1 del 31.3.2005) dettagliò il relativo quadro programmatico e l’Accordo di Programma Quadro (APQ Beni Culturali) comprendente il restauro di migliaia di frammenti provenienti da mont’e Prama di Cabras, dimenticati nei magazzeni del Museo Nazionale di Cagliari, ed il progetto per nuovi contenitori museali tra cui il Betile

Lasciate alle spalle le cattedrali nel deserto e la cementificazione selvaggia, il governo regionale investiva su conoscenza e cultura. Un capovolgimento dei paradigmi della stagione della Rinascita. L’isola che, nel secondo dopoguerra, rifiutò la competenza primaria sui beni culturali e che aveva sacrificato la bellezza alla chimica di base ed al mattone si assumeva inoltre la responsabilità del suo territorio col PPR. Agiva concrete competenze sulla tutela e sulla valorizzazione, previste dal Codice del Paesaggio e dei Beni culturali. In prima persona. Non più sotto tacco di volubili centralismi, variamente discrezionali, di soprintendenti e di funzionari statali. Finalmente protagonista di un progetto che riconosceva alla totalità del territorio valore e fondamento di uno sviluppo sostenibile.

Una rivoluzione copernicana che, al di là delle appartenenze, deve essere ancora metabolizzata e coscientizzata da una parte del ceto politico sardo. Se non fosse così il centro sinistra sarebbe ancora al governo della Regione e non manderebbe contraddittori messaggi nelle amministrative scorse e in quelle attuali. Se non fosse così il centro destra la smetterebbe di concentrare tutte le sue energie a smontare il PPR. Tutti ad ignorare che la ricerca dell’Università di Cagliari e di Edimburgo sull’autopercezione dei sardi ha evidenziato la centralità del paesaggio e della cultura! Col PPR la Sardegna è stata la prima ed unica regione ad attuare esaustivamente l’art. 9 della Costituzione e con l’APQ Beni Culturali e le successive politiche sulla cultura è stata pioniera delle politiche oggi teorizzate da Monti, Barca, Ornaghi, Profumo con i “Poli culturali del Mezzogiorno” e con gli investimenti sulla conoscenza, o dal Sole 24 ore con la campagna “La cultura è sviluppo”.

Ma il cento politico sardo lo sa? E’ consapevole che territorio, ambiente, beni materiali ed immateriali, compresa la lingua, sono parte costitutiva di un’appartenenza e di un nuovo progetto di sviluppo? Ne coglie le declinazioni? Al di là degli slogans è una sua pratica operativa ed attuativa? Lo interpella che l’welfare non è assistenzialismo e precariato ma servizi e precondizioni perché ciascuno possa agire il suo sogno di lavoro e di vita? Siamo ancora al nominalismo retorico e ciarlatano? Semmai si dovesse perdere la mappa delle appartenenze si avrebbe difficoltà a distinguere le geografie di maggioranza e di opposizione nelle variopinte dichiarazioni dei politici nativi o di quelli in tour per legittimare, ad uso mediatico, questo o quel capobastone. C’è differenza tra le rappresentazioni di oggi e quelle di 20/30 anni orsono nei “come eravamo”?

Quanto è accaduto dal febbraio del 2009 dice che la strada dell’autoconsapevolezza è ancora lunga e complessa. Che il superamento dei disconoscimenti, dei rancori, della damnatio memoriae è di là da venire. Perché non è solo un problema di contrapposti schieramenti politici ma culturale e pedagogico e stenta ad essere riconosciuto, nonostante i devastanti sintomi.

Quella delibera sull’utilizzo dei Fondi Cipe del 2004 e le successive resero disponibili cospicue risorse, oggi un miraggio, per un’offerta culturale di alto profilo nel sistema turistico regionale oggi comatoso. Per mirate e coerenti azioni di restauro di reperti e di luoghi e per riconsiderare la fruizione dei beni culturali. Per narrazioni altre dal kitsch e dai peggiori stigmi sull’isola. Per un riequilibrio tra interno e costa. Erano una via di uscita da decenni di diatribe tra internazionalismo di maniera ed etnocentrismi, blocco di ogni operabilità ed insieme disco verde per ogni svendita della Sardegna. Proposta per un cambiamento di orizzonte che oltrepassando quella sterile dualità inerisse nella rappresentazione e nella percezione dell’isola e della sua storia. Da questo bisogna ripartire. E’ una conditio sine qua non!

Perché la ricerca prima richiamata ha raccontato che a livello diffuso ha funzionato. Che una diversa traiettoria è in essere nell’immaginario ed nel senso comune dei sardi. Ma non solo. Si pensi, ad esempio, al mutamento di prospettiva che ha assunto il paesaggio o la stessa storia della Sardegna e, per tutti, il periodo nuragico con cui l’isola è stata semplicisticamente identificata. Finalmente nel suo legittimo rango, emancipato dalle retrovie della preistoria e dell’etnocentrismo. Finalmente storicizzato e – parafrasando Filtzinger- pensato in un’interculturalità “come la risposta educativa relazionale alla società multiculturale e multietnica”. Non a caso registro della nuova contemporaneità della Sardegna, il cui futuro sarà sempre più fondato sul suo autoriconoscimento storico. Che choc! Dopo le imbarazzanti reticenze iniziali le stesse statue di mont’e Prama, ritrovate fortunosamente nel 1974, sono oggi assurte a metafora di una storia a lungo negata. Finanche a livello scientifico se è vero che si sono affermate, grazie al restauro, posizioni storiografiche differenti sulla loro qualità estetica, sulle cronologie, sulla cultura che le ha prodotte.

Il “Concorso internazionale per la progettazione per la realizzazione del Museo regionale dell’arte nuragica e dell’arte contemporanea del Mediterraneo a Cagliari” ovvero il Betile doveva essere il significante ed il significato di questa dolorosa ma consapevole anamnesi. E’ un episodio culturale su cui si eserciteranno antropologi e sociologi a venire, insieme alla mancata industrializzazione ed ai rapimenti. Impronte digitali del fallimento di gruppi e classi dirigenti su cui c’è una generalizzata difficoltà ad aprire una discussione perché chiama in causa ed interroga politici, intellettuali, università, forze sociali ed imprenditoriali. Si appurerà che tra questi eventi, che ho semplificato per ragioni di spazio, ci sono un nesso di causa-effetto ed un comune denominatore ascrivibili alla aspirazione di pezzi di nostre classi dirigenti a voler solo essere borghesia compradora, eterodiretta ed, ostinatamente, impegnata nella pratica del reciproco disconoscimento.

L‘ossimoro non è così stravagante giacché le nostre comunità chiuse – soprattutto i mondi universitari e politici – sono tribalmente consociate e forti nell’antagonismo verso chiunque o qualsiasi cosa siano discontinuità e reale modernizzazione dei punti di vista e dell’esistente. Se non fosse così davvero il nostro ceto politico avrebbe questo bisogno di portarsi in giro i cosiddetti big nazionali che, nei loro luoghi, sono sostanzialmente classe morta che si rigenera nelle province dell’impero tra ziminate e tavolate ai ristoranti. Dai Savoia in fuga è cambiato qualcosa? Se non fosse così la nostra cultura sarebbe coscienza critica e non una parte del problema.

Gli analisti di domani si chiederanno come mai il 23 novembre 2005 la Regione, il Comune di Cagliari, l’Autorità portuale sottoscrissero un’intesa istituzionale in cui definirono il comune interesse per realizzare il museo Betile e perché tre anni dopo il sindaco di Cagliari sottoscrisse nuovamente l’intesa e poi si sottrasse e rinnegò se stesso. Chi sono i carneadi dell’autodafé? Cambiata amministrazione si chiederanno come mai un sindaco di una diversa generazione che prima applaudì a tanto progetto da sindaco non si batté quando la giunta regionale, nel dicembre del 2011, si liberò degli ultimi 10 milioni disponibili per quel museo? Il tramonto del quale è il marcatore del declino di una città, di un’isola e di un progetto di sviluppo nonostante marketing, apparenti ripartenze, flash mob, e quant’altro.

Evitiamoci la beffa di trasformare dunque quei giganti, che nel Betile avrebbero trovato il loro senso, in macchiette della loro grandezza perché abbiamo la fobia di fare cose grandi. Evitiamoci spacchettamenti di un insieme unitario ed improbabili promozioni. Tacciamo se non abbiamo cultura e linguaggi adeguati. Dire ex area Betile significa che qualcuno forse crede che il Betile sia stato realizzato ed abbia contenuto le statue di mont’e Prama, finalmente esposte dopo il restauro. In fondo il progetto Betile non era stato esposto come in corso di realizzazione nel Padiglione Italia alla Expo di Shangai dal governo Berlusconi? Non è forse vero che l’assessore regionale alla cultura ebbe a dire “un risultato eccezionale visto che per i Giganti di Mont’e Prama si è parlato di scoperta a livello dei Bronzi di Riace e dei guerrieri dell’Esercito di Terracotta in Cina?’’. Il più alto tasso di subalternità mai visto. Le statue rilevanti perché qualcuno ha voluto ricondurle a celebri scoperte! Tanta gregarietà culturale e vergogna della sardità in quanto tale sono coerenti con l’infeudazione in cui siamo costretti.

Dire che è responsabilità solo della maggioranza significa ridurre l’opposizione a res nullius. Di questa tuttavia non si ricorda alcuna interrogazione sulla mancata realizzazione, dopo tre anni, delle “Unità introduttive” al nostro patrimonio o del “Corpus dei beni culturali” o del “Sistema museale o della mancata applicazione” del “Piano triennale dei Beni Culturali”, tutti approvati dalla precedente giunta di centro sinistra. Esemplari nell’idea di società educante e di sviluppo sostenibile, nei processi partecipativi e nei personaggi con cui si sono costruiti. Il silenzio fa il paio con quello sul miglioramento della performance dei nostri studenti e delle nostre autonomie scolastiche nelle valutazioni Ocse Pisa.

P.S. Il ministro Barca, anche lui in viaggio ad limina, ha dato atto dei nostri avanzamenti nelle valutazioni OCSE Pisa grazie alle politiche che praticammo! Ma elettoralmente è più produttivo per tutti disconoscerli per affermare che siamo “brutti, sporchi, cattivi e piccoli” e che il “mondo grande e terribile” ce l’ha con noi!

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