Potenziale ottimizzazione della sorveglianza COVID-19, integrando approcci di sorveglianza veterinaria [di Alessandro Foddai e Maurizio Ferri]

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La pandemia di COVID-19, causata dal virus SARS-CoV-2, iniziata più di un anno fa, ha stravolto la nostra esistenza, tra perdite ingenti di vite umane e innumerevoli ripercussioni sociali ed economiche. Ma non è la prima nella storia dell’umanità, se pensiamo alla pandemia SARS (2002), HIN1 (2009) e MERS (2012). Tuttavia, soprattutto in era moderna, è la prima volta che si verifica un evento sanitario così devastante a livello globale.

Le domande legittime che frequentemente vengono poste per poter comprendere questa pandemia sono le seguenti:

-quando un nuovo agente patogeno acquisisce la capacità di infettare l’uomo, siamo in grado di trovarlo abbastanza velocemente e limitarne la diffusione in maniera tempestiva?

-quali metodi di sorveglianza epidemiologica possiamo applicare (e ottimizzare) per trovarlo, monitorarlo e mitigarne il rischio di diffusione su larga scala, così da limitare i danni in attesa dei vaccini e/o trattamenti efficaci?

-la risposta è omogenea, organizzata, intersettoriale e internazionale?

Partiamo dall’assunto che una strategia di controllo che sia efficace e sostenibile deve utilizzare gli strumenti scientifici più attuali disponibili, e soprattutto deve mettere a frutto le esperienze passate sia positive che negative per poter migliorare continuamente la performance. In sostanza parliamo della sorveglianza epidemiologica, uno degli strumenti base per lo studio della epidemiologia e controllo degli agenti infettivi.

I sistemi di sorveglianza, attraverso la raccolta dei dati di campo (es. diagnosi dei soggetti infetti, studi sulle specie colpite ecc..) hanno lo scopo di fornire una foto istantanea della realtà epidemiologica in una o più popolazioni, così che il decisore possa mettere in atto le misure adeguate per il controllo/eradicazione della malattia stessa nel più breve tempo possibile e limitare i danni sanitari ed economici.

Per la sorveglianza COVID-19, pensiamo che la medicina veterinaria, con un approccio di un’Unica Salute (One Health), che parte dall’assunto che la sanità animale, la salute umana e la protezione dell’ambiente sono strettamente interconnesse, possa fornire un supporto aggiuntivo alle altre professionalità in virtù della condivisione di esperienze sul controllo delle infezioni animali, comprese le zoonosi trasmissibili dall’animale all’uomo, come appunto COVID-19.

Tra gli animali, l’insorgenza rapida di nuove malattie anche altamente diffusive ha richiesto spesso lo sviluppo di metodi di sorveglianza e di polizia veterinaria efficaci, ma anche sostenibili in termini di costi (es. di personale, campionamento, testing ecc.). Per tale motivo, nel Marzo 2020, con due pubblicazioni sulla rivista scientifica One Health (riferimenti 1 e 2) viene proposto di adattare a COVID-19 un approccio di sorveglianza utilizzato in veterinaria per le malattie animali altamente diffusive. Il riferimento 3 offre una spiegazione generale del protocollo in italiano.

In veterinaria dunque, lo scopo principale della sorveglianza è di fornire una fotografia della Medicina Veterinaria Preventiva (SIMeVeP) che sia abbastanza realistica della situazione epidemiologica di campo, così da poter adottare misure di controllo tempestive e mirate, ed anche valutarne l’efficacia.

A loro volta però, la tempestività e l’efficacia delle misure veterinarie sono fortemente dipendenti dal tipo di sorveglianza scelta e dalla legislazione nazionale ed internazionale che ogni stato membro dell’Unione Europea è tenuto ad applicare anche per l’accesso al mercato libero, attraverso il rispetto di standards prestabiliti. Nei sistemi di sorveglianza e polizia veterinaria, le popolazioni animali vengono in genere campionate su base statistica e gestite come entità uniche di sorveglianza (in blocco, come un corpo unico appunto), mentre in medicina umana (in genere) è prioritaria la gestione a livello del singolo paziente.

Entrambi gli approcci hanno vantaggi e svantaggi [3]. Tuttavia, una volta che un agente patogeno si insedia su larga scala in una popolazione (con un’alta prevalenza di infetti), diventa difficile tracciare, testare e gestire tutti i soggetti infetti. In tale situazione, campionamenti casuali rappresentativi (su base statistica) e ripetuti, possono consentire di combinare la necessità di avere una foto il più possibile vicina alla realtà epidemiologica, con la tempestività delle misure da adottare, minimizzando allo stesso tempo sia i costi di gestione sia quelli di impatto della malattia stessa (in termini di perdite).

Riguardo a COVID-19, le prime diagnosi sia in Cina che negli altri paesi, sono state fatte testando i soggetti sintomatici e i contatti a rischio. Con una percentuale di infetti (prevalenza) molto bassa e nelle fasi iniziali dell’ epidemia (es. in una città, provincia o regione), questo tipo di sorveglianza poteva essere l’opzione principale, considerando le scarse risorse disponibili (test, laboratori, personale ecc.).

Purtroppo però, la sorveglianza clinica e il tracciamento, hanno consentito di limitare la diffusione del virus solo in pochi paesi, come per esempio in Nuova Zelanda e in Corea del Sud, anche in ragione della presenza d’infetti asintomatici in grado di diffondere il virus. In molte nazioni, ciò ha portato ad avere allarmi tardivi, in presenza di una elevata prevalenza di persone infette e di un elevato numero di persone fragili sintomatiche.

Per malattie che mostrano una discreta prevalenza di infetti asintomatici, la sorveglianza clinica ed il tracciamento ad essa relazionato non consentono di poter capire se le variazioni giornaliere osservate nel rapporto positivi/testati e nel totale di casi rilevati, siano dovute a una reale variazione dello status epidemiologico nella popolazione e/o se siano invece dovute (almeno in parte) al tipo di campionamento effettuato. In tali casi, il livello di campionamento della popolazione e la sua rappresentatività possono essere altamente variabili e dipendere fortemente dalla volontarietà dei soggetti sintomatici e paucisintomatici di cercare supporto medico.

Nella situazione attuale, lockdown duri applicati su intere regioni o nazioni, sono poco sostenibili (es. in termini di costi) e poco tollerati, a causa delle ingenti perdite economiche e dei disagi causati nella popolazione. Le misure draconiane o parziali dovrebbero essere applicate alle sole zone (città o regioni) realmente infette e per tempi minimi, così da consentire una gestione armonizzata, almeno finché non si raggiunga l’immunità di gregge.

In queste circostanze, lo scopo della sorveglianza non è solo quello di dare un allarme rapido all’interno delle zone recentemente infettate, ma anche di poter confrontare il livello di diffusione della malattia nel tempo in zone multiple, e differenziare con buona precisione tra popolazioni infette e indenni (anche tra paesi). In tal modo, i movimenti tra i due tipi di popolazioni potrebbero essere regolati di conseguenza.

Riteniamo che nella situazione attuale, il protocollo base veterinario proposto per la sorveglianza di COVID-19 [1, 2, 3], in virtù di un campionamento minimo casuale dei soggetti da testare e tenuto conto del margine di errore dei test usati, potrebbe consentire di distinguere le zone infette da quelle “free” (libere)in tempo reale e in maniera rappresentativa e standardizzata.

Successivamente, nelle zone infette si potrebbe stimare la prevalenza “reale” sia di soggetti infetti (carriers del virus) sintomatici e non, che di quelli positivi agli anticorpi. Il monitoraggio continuo rappresentativo, basato sul campionamento casuale delle persone all’interno di una popolazione, consentirebbe di ottimizzare la performance dei sistemi di sorveglianza attuali applicati nei diversi paesi e di confrontare la situazione epidemiologica tra le diverse popolazioni in maniera oggettiva, con indubbi vantaggi per le movimentazioni turistiche tra paesi.

Inoltre, il protocollo veterinario, consentirebbe di avere allarmi rapidi in zone recentemente infette dove poter applicare le misure di controllo tempestive, e di monitorare l’impatto delle misure di controllo in quelle infette da tempo. I parametri da stimare nelle diverse popolazioni sarebbero: la stima della prevalenza “vera” nelle zone infette e della “confidenza in indennità” nelle zone/città/regioni dove non si riscontrano casi.

L’utilizzo di tali parametri, oltre che essere facilmente comprensibili dalla popolazione, consentirebbe di poter regolare in maniera oggettiva le misure di controllo e le eventuali chiusure/aperture. Ovviamente, il protocollo proposto potrebbe avere delle limitazioni nell’applicabilità in sanità umana, come ad esempio limitazioni legislative, di privacy (per i soggetti campionati) e di partecipazione della popolazione chiamata per il campionamento casuale.

Tuttavia riteniamo che l’applicazione di una strategia di sorveglianza veterinaria, potrebbe migliorare la risposta alla pandemia attuale e/o eventualmente a quelle future, anche attraverso l’ottimizzazione dei piani di “preparadness” (di risposta) nazionali futuri, pensati con approccio One Health, di integrazione tra i diversi settori della sanità pubblica.

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*Alessandro Foddai, veterinario epidemiologo presso National Food Institute-Technical University of Denmark, Division of Global Surveillance. Laureato in medicina veterinaria (Sassari). Master in produzioni animali europee (Francia). Laurea specialistica (Olanda) e Dottorato (Danimarca) in epidemiologia quantitativa veterinaria. Si occupa di: uso e combinazione di dati nazionali, analisi statistiche, valutazione del rischio di introduzione e di diffusione di malattie infettive, valutazione e ottimizzazione di piani di sorveglianza-eradicazione nazionali. Ha lavorato presso: l’Istituto Veterinario Nazionale Danese (DTU-Vet), il Consiglio Danese per gli Alimenti e l’Agricoltura (Danish Agriculture and Food Council), e per il governo britannico presso l’Agenzia per la Salute degli Animali e delle Piante (Animal and Plant Health Agency, APHA).

** Maurizio Ferri. Coordinatore Scientifico Società Italiana Medicina Veterinaria Preventiva (SIMeVeP). Laureato in medicina veterinaria e specializzato in ispezione degli alimenti di origine animale e fisiopatologia della riproduzione animale. Ha più di 22 anni di esperienza professionale nel campo della Sanità Pubblica Veterinaria e Sicurezza Alimentare. Dal 1991 è veterinario di ruolo presso il Servizio Veterinario della Azienda Sanitaria Locale di Pescara. Ha acquisito esperienza in valutazione del rischio microbiologico degli alimenti e capacity building per l’attuazione dell’acquis comunitario nei paesi candidati e potenzialmente candidati all’ingresso nella UE. Con questo ruolo ha svolto missioni di valutazione e workshop per conto della Commissione europea, nell’ambito del programma TAIEX. Ha contribuito alla stesura di documenti scientifici dell’EFSA sulla valutazione del rischio. Attualmente è responsabile scientifico della SIMeVeP (Società Italiana Medicina Veterinaria Preventiva), Vice-Presidente della UEVH (Unione Europea Veterinari Igienisti), e membro del Stakeholders Discussion Group on Emerging Riskdell’EFSA

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