Risposta ai miei critici [di Silvano Tagliagambe]
Cerco di rispondere non solo a Michela Murgia e a Franco Meloni, ma anche ai commenti di Stefano Puddu Crespellani e di Alessandro Mongili, che ringrazio tutti per l’attenzione, perché mi pare opportuno e importante assecondare e confermare la funzione di sede di un confronto franco su argomenti di interesse comune che ‘Sardegna soprattutto’ sta sempre più assumendo. La mia lettera a Michela Murgia si comprende meglio se si tiene presente che il suo intervento, al quale mi sono riferito, era stato fatto nell’ambito dell’affollato dibattito sul libro di Pietro Soddu Sardegna. Il tempo non aspetta tempo al quale avevo partecipato anch’io promisso dalle Associazioni Lamas, Terra pace solidarietà, Art.21, dalla Fondazione Sardinia e da SardegnaSoprattutto, lunedì 17 alla Mediateca di Cagliari. Nella mia analisi, comparsa anch’essa in questo sito, cercavo di sottolineare il corretto rapporto che, a mio giudizio, va istituito tra le questioni di carattere istituzionale, sulle quali si sta concentrando sempre più la discussione politica, e il problema, che giudico cruciale, della formazione di una comunità coesa, basata su un pacchetto forte di valori condivisi. La mia opinione, che ho cercato di argomentare in vario modo prendendo lo spunto dal dialogo a tre voci proposto da Soddu e dal riferimento ad alcune opere di Ivan Illich, è che è pericoloso anteporre la prima questione alla seconda, o addirittura utilizzarla per distogliere in qualche modo l’attenzione da quest’ultima. Nell’ambito di questa prospettiva generale mi pareva di qualche utilità riportare il discorso dall’analisi di categorie generali e astratte, come quella di autonomia e di confine, alla responsabilità dei soggetti, individuali e collettivi, che si richiamano a esse e le usano. Proprio per questo ho inteso sottolineare, in primo luogo, che le categorie di cui stiamo parlando sono talmente ricche e dense di significato da poter essere considerate entrambe un buon esempio di quella capacità di concentrare in un volume ridotto (in questo caso in un solo termine) molte esperienze e molto pensiero, che Pirsig, nel suo bellissimo romanzo Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, attribuisce alla riflessione di qualità. Proprio per questo non mi piace il loro uso riduttivo, tendente a metterne in luce in maniera unilaterale un solo aspetto. A parte questo, però, il punto fondamentale che mi preme evidenziare è il rischio, in qualche modo “giustificazionista”, che si nasconde dietro il tentativo, ormai ricorrente, di attribuire la responsabilità del tunnel buio nel quale ci siamo cacciati in Sardegna a concetti astratti anziché a uomini in carne e ossa. La risposta di Michela Murgia è in qualche modo una conferma di questo orientamento, laddove si dice che “l’autonomia di cui abbiamo ragionato a partire dal libro di Pietrino Soddu non era quella astratta dei filosofi e degli etimologi: era quella brutalmente pratica in cui siamo inscritti come sardi e i cui limiti e possibilità sono sanciti dallo statuto della RAS. Che quella specifica declinazione di autonomia sia debole e indebolente è un’evidenza storica a cui né la mia narrazione né la tua filosofia possono purtroppo sopperire, perché sono dati che appartengono all’esperienza”. Ecco io sono convinto che un’analisi corretta della situazione, indispensabile per individuare i rimedi giusti per uscirne, debba tener contro di un duplice fatto. Il primo è che, se avessimo voluto e ci fossimo impegnati davvero, credendoci fino in fondo – statuto o non statuto – in campi cruciali come quello dell’istruzione, della formazione professionale, dell’università, della ricerca, dell’innovazione, tanto per proporre alcuni esempi significativi, avremmo potuto fare molto di più e molto meglio di quanto è stato fatto finora. Per riferirmi a una sola circostanza, che ancora mi brucia e “m’offende”, non è stato per colpa dello statuto della RAS, del nostro legame con il continente o dell’autonomia o del confine e della pedagogia del limite se un tentativo di innalzamento della qualità complessiva del sistema scolastico regionale, come quello portato avanti con il progetto “Scuola digitale”, è stato bloccato senza motivazioni plausibili, revocando un bando europeo addirittura dopo la sua scadenza. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Il secondo fatto è ben sintetizzato dalla cronaca della sua giornata di neo-assessore fatta il 19 marzo da Paolo Maninchedda nel magazine on line ‘Sardegna e libertà’. La riporto qui perché è istruttiva: “Ieri sono arrivato in assessorato alle 8.30. Ho letto sette giorni di posta arretrata: l’80% erano lettere di avvocati, sentenze di tribunali, notizie di condanne a rimborsare Tizio o Caio, diffide a procedere ecc. ecc. Ho cercato qualcosa in ferro da toccare, un corno da appendere, un ferro da cavallo da tirare a qualcuno, niente: tutto in legno. Una piccola parte, ma significativa, dei tre chili di carta che decoravano la scrivania, era invece costituita dalla corrispondenza tra Direzioni generali degli Assessorati che guerreggiavano sulla reciproca competenza e nel frattempo bloccavano 4 metri cubi di documenti, pratiche, istanze, stanziamenti e erogazioni ecc.. In questo bellissimo, accogliente e rassicurante quadro stava e sta la vicenda Abbanoa, la quale ha una caratteristica che viene poco sottolineata: l’odore della guerriglia istituzionale. Comuni contro comuni; Consorzi industriali contro Abbanoa; Abbanoa contro Consorzi industriali; Comuni contro Abbanoa; Abbanoa contro Comuni; enti regionali in lotta tra loro e contro i comuni; enti regolatori che non regolano; tariffe che invecchiano; gente che lavora troppo e gente che non lavora; gente che paga l’acqua e gente che non la paga o non l’ha mai pagata; contatori veri e contatori farlocchi; soldi che giacciono in attesa della fine della rissa; banche ferme; legislazioni che intrecciano reciproche competenze in una matassa inestricabile”.
Comuni contro comuni; Consorzi industriali contro Abbanoa; Abbanoa contro Consorzi industriali; Comuni contro Abbanoa; Abbanoa contro Comuni; enti regionali in lotta tra loro e contro i comuni: è colpa dello Statuto? Dell’autonomia? Del confine? Della pedagogia del limite? O non invece della carenza di quelle virtù civiche di cui parlava già Robert Putnam nel suo istruttivo libro del 1997 La tradizione civica nelle regioni italiane, nel quale veniva sottolineato lo scollamento tra Nord e Centro Italia, da una parte, e Mezzogiorno del nostro paese, dall’altra, per quanto riguarda proprio la presenza di quei valori e obiettivi comuni che rendono coesa e collaborativa una comunità? La risposta a questa domanda non è banale o oziosa, perché da essa dipende il tipo di azione politica che occorre intraprendere per uscire dal guado, per capire se saltare al di là o restare qua dove siamo.
Allora, date per scontate tutte le colpe degli altri, come la recente bocciatura da parte del parlamento italiano dello scorporo del collegio isole per le elezioni europee, che anch’io depreco e critico come e se possibile ancor più dei miei interlocutori, siamo sicuri che per interpretare al meglio proprio “la tensione tra quel che ci piacerebbe che potessimo essere e quello che invece quotidianamente viviamo”, alla quale si riferisce Michela Murgia, e che apprezzo molto come idea di forza propulsiva di un’azione politica, sia sufficiente mettere sotto processo questi altri, o le soluzioni istituzionali?
Nel mio intervento sul libro di Soddu, cerco di mettere in guardia dal pericolo di istituzionalizzare i valori, soprattutto quelli fondanti, quelli che sono alla base delle virtù civiche, e che per questo sono i presupposti indispensabili per la formazione di una comunità salda e duratura. E sottolineo che, seguendo questa via il degrado delle istituzioni, il loro invecchiamento e la loro crescente inadeguatezza in condizioni profondamente mutate finiscono, inesorabilmente, per produrre anche il consumo e il declino dei valori legati a esse e da esse stesse generati e legittimati. Si ha così una corruzione dell’immagine che l’uomo si fa di se stesso, che provoca una regressione della sua coscienza individuale e una mutazione di quella collettiva, in seguito alla quale l’uomo medesimo viene visto come un essere dipendente non più dalla natura e dalle altre persone, ma dalle istituzioni, che diventano così il centro esclusivo dell’attenzione e dell’analisi.
Ecco, per comprendere il mio commento alla posizione di Michela Murgia occorre riferirlo a questo aspetto, che considero cruciale, e che ha a che fare con questo mondo, con il mondo della politica, delle cose da fare qui e ora, e non con il mondo delle idee o con quello delle ontologie come pensa Alessandro Mongili. E a Stefano Puddu voglio dire che sono d’accordo con lui nel ritenere che la nozione di autonomia nel senso politico del termine, specificamente riferito alla Sardegna come Regione a statuto autonomo, è tutto tranne che autopoietica, ma proprio per questo mi pare fondamentale ribadire che se non lo è non è per colpa della categoria di autonomia, che potrebbe benissimo venir declinata anche in quel senso assai più ricco, efficace e produttivo, ma del modo in cui è stata interpretata e applicata qui e nel passato più o meno recente, dagli uomini ai quali competeva utilizzarla.
Infine al mio carissimo amico Franco Meloni ribadisco brevemente qui, per iscritto, quello che già gli ho detto al telefono. Mi ha un po’ sorpreso leggere nel commento di un fisico affetto, per sua stessa ammissione da “devianza quantistica” che il termine confine gli fa venire l’orticaria, dato che proprio la meccanica quantistica mostra che il confine (ad esempio tra colui che osserva e la realtà osservata) può essere eventualmente spostato ma mai eliminato, per cui è un concetto imprescindibile. E dall’uomo Franco Meloni, raffinato cultore delle teorie dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), delle quali abbiamo discusso a lungo in passato, mai mi sarei aspettato una così clamorosa presa di distanza dalle idee di Raymond Queneau e di Georges Perec (oltre che di Italo Calvino), i quali sottolineano ripetutamente che la creatività non è mai l’espressione dell’assenza di limiti e di confini, ma piuttosto il prodotto dell’abitudine a porseli e della capacità di superare ogni volta anche i più ardui.
Vogliamo riferirci a un altro esempio, tratto, questa volta, dalla musica, anche questo ambito di specifico e profondo interesse di Franco? Nella Poetica della musica di Igor Stravinskij troviamo scritto che “un modo di comporre che non fissa a se medesimo dei confini diventa pura fantasia. Gli effetti che produce possono casualmente divertire, ma non tollerano ripetizione: è inconcepibile una fantasia che si ripeta, poiché non può ripetersi che con suo pregiudizio”. Il mancato riferimento a un confine e il proposito di comporre un’opera musicale facendo a meno di esso “corrisponde a una tendenza che non è, a dirla esattamente, un disordine, ma si studia di sopperire a una mancanza d’ordine. Il sistema della melodia infinita esprime perfettamente questa tendenza: è il perpetuo divenire di una musica che non aveva alcun motivo per cominciare come non ne ha alcuno per finire. Una melodia infinita si risolve così in un oltraggio alla dignità e alla funzione stessa della melodia, che è il canto musicale di una frase cadenzata”. Forse anche per la politica è la stessa cosa.
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Caro professore, la ringrazio molto per la sua risposta. Purtroppo non ero presente al dibattito e non ho potuto che leggere l’intervento di Michela Murgia e il suo. Rispetto a quello che lei scrive qui, vorrei sottolineare un aspetto che mi sembra interessante. Non credo che né Murgia né lei siate in disaccordo su un punto, che è quello delle competenze scarse e della chiusura “ciascuno nel proprio ambito”, che lei sembra paventare riportando un diario di primo giorno in Assessorato. A me pare che l’ambito politico non sia così “altro” rispetto a quello della cultura, anzi che le cose siano così intrecciate nelle pratiche (come mostra la testimonianza che lei riporta), da rendere legittimo il punto posto da Murgia, che è quello di fare avanzare la cultura e la pratica politica, di innovarla mettendo in discussione una serie di vecchi dati per scontato. Se è vero, come lei dice (e io sottoscrivo totalmente) che in Sardegna, come in Italia, c’è scarsissima attenzione verso la cultura e l’innovazione, è pur vero che, paradossalmente, chi proviene dall’Università e dall’establishment culturale sardo non sembra avere grandi capacità di innovazione, almeno quando si mette a fare politica. Mi sembra quindi più che legittima l’idea di dare avvio a un processo innovativo partendo dalla politica, soprattutto nel momento in cui l’establishment culturale pare essere così conservatore e chiuso nelle sue rendite.
È importante non perdere di vista qual’è l’obiettivo ultimo del confronto dialettico: che è, per un verso —come giustamente ricorda Silvano Tagliagambe—, quello di avviare processi che favoriscano una “comunità coesa”, sulla base di valori condivisi; ma è anche, e soprattutto, quello di affrontare una situazione estremamente degradata, di sofferenza fortissima, sul piano sociale, economico e politico, che vive il nostro popolo, per poter formulare idee e proposte valide, che però non siano la riproposizione stanca e rituale di vecchie ricette ormai note, i cui risultati sono appunto lo sfacelo che stiamo contemplando.
È pur vero che le politiche concrete dei governi regionali si sono mantenute, fino ad oggi, al di sotto dei margini di azione consentiti dal testo statutario; in questo senso, ci sarebbe un potenziale di miglioramento perfino all’interno di questa prospettiva. Il problema è capire quanto sono ampi questi margini, ovvero a quali inciampi legislativi e burocratici sono soggetti, e in che misura, soprattutto, sono in grado di rispondere alle necessità dei sardi.
Come è risaputo, le pastoie sono dei legacci che non impediscono del tutto all’animale di muoversi; gli consentono altresì dei piccoli spostamenti, generalmente lenti e disagevoli, nel perimetro della recinzione che gli è stata predisposta, ma escludono la corsa e il salto, cioè le uniche forme di movimento che, a buon diritto, per un animale possono chiamarsi libere. C’è poi quel curioso fenomeno per il quale un capo di bestiame, se viene tenuto impastoiato in modo permanente per un periodo sufficientemente lungo, alla fine introietta questo impedimento nel proprio schema corporeo, per cui rinuncia a correre e a saltare anche nel caso in cui le pastoie gli vengano tolte.
La riflessione di Michela Murgia sulla struttura dei vincoli, cioè sulle “regole del gioco” —i meccanismi di potere all’interno di una relazione, anche istituzionale—, ci aiuta a capire due cose: la prima, che in una situazione strutturalmente caratterizzata dalla dipendenza, parlare illusoriamente di autonomia serve piuttosto a disattivare il potenziale di autostima e le capacità di autogoverno di quella comunità, sfociando nell’arrivismo, nell’uso clientelare del potere, nell’inefficacia e nel cinismo da parte di chi (s)governa, e nel fatalismo, nel disincanto, nella passività e nella rabbia da parte di chi si sente politicamente abbandonato e escluso —sentimento ormai condiviso da una maggioranza—. (Il quadro deprimente offerto dall’assessore Maninchedda è un ritratto della fase terminale di questo lungo processo di degradazione sistemica vissuto dalla Sardegna, che non potendo essere “autopoietica” diventa autodistruttiva). La seconda, altrettanto rilevante, è che l’idea di “autonomia”, pur correttamente intesa (in senso autopoietico), non è sufficiente, da sola, a invertire la tendenza e offrire alla comunità una prospettiva di riscatto, se non vengono rinegoziate le regole su cui si basa lo squilibrio gerarchico. E per rinegoziare queste regole, è certamente di grande aiuto disporre di una prospettiva teorica che si ponga “oltre” il sistema delle regole, per noi definite dal quadro statutario attuale. Mi sembra che stia qui l’elemento di interesse che l’ipotesi indipendentista può offrire: perché, nel processo di negoziazione delle regole, si può anche stare, per un tempo, con i piedi dentro il campo di gioco; ma la mente deve essere già fuori.
Comunque sia, l’idea del “non dipendentismo”, cioè la volontà di ridurre le dipendenze della Sardegna rispetto all’Italia su una serie di problematiche concrete, indica un percorso su cui è possibile trovare dei consensi inediti tra un ampio numero di sardi. Per farlo, però, bisogna essere disposti ad uscire dalle proprie “zone di confort”, dai recinti di sicurezza a cui abbiamo ristretto il nostro raggio d’azione. Per me implica anche l’abbandono delle ali protettrici delle grandi coalizioni politiche italiane che, con larghissimi margini di intesa, hanno fatto scempio della Sardegna e del suo territorio fisico e politico negli ultimi decenni. Forze che si sono blindate all’interno delle istituzioni e a cui i sardi, non si sa se per rassegnazione o per ottundimento, continuano ad affidare le proprie sorti. Anche di questo bisogna continuare a parlare. E bisogna farlo in spazi esterni ad esse, perché non abbiamo ancora visto, né a destra né a sinistra, alcuna dirigenza politica capace di assumere i propri errori e di farsi da parte, volontariamente, per favorire nuovi processi che possano giovarsi della loro assenza per riuscire a svilupparsi favorevolmente.