Le tante vite di Giulia Niccolai [di Marco Belpoliti]
https://www.doppiozero.com. Con Giulia Niccolai se ne va uno dei personaggi più straordinari della cultura italiana, uno dei meno noti e appariscenti, ma certamente uno dei più originali e curiosi. Giulia è stata fotografa, scrittrice, poetessa, monaca buddista, traduttrice, saggista, biografa di sé stessa, voce singolare e unica nel panorama letterario italiano dominato da poeti e scrittori per lo più maschi. La sua vita si è svolta tutta in punta di piedi e sui margini della società letteraria. Figlia di un italiano e di un’americana, era nata a Milano nel 1934. Inizia a fotografare giovanissima legandosi al circolo che si ritrovava al bar Jamaica a Milano: Ugo Mulas, Mario Dondero, Alfa Castaldi, ovvero i fotografi che hanno fatto la fotografia italiana del secondo dopoguerra, legati ad artisti come Piero Manzoni, Roberto Crippa, e a scrittori come Luciano Bianciardi, Germano Lombardi, Nanni Balestrini. Ha diciotto anni e se ne va in giro per l’Italia con una macchina fotografica e su un’autovettura; scende dal Nord al Sud per comporre un ritratto del Paese che è appena uscito dalla guerra. Sono fotografie pubblicate da aziende e industrie legate al padre, una possibilità che diventa un’occasione unica per una giovane fotografa. Poi va in America. Parla inglese, e arriva nel paese d’origine della madre quando tutto sta per cominciare: l’età dei Kennedy, che si trova a fotografare, Robert in particolare; vede Castro alle Nazioni Unite e gli altri politici dell’epoca. Abita da un amico che ha condiviso la casa con Stanley Kubrick, glielo presenta e lei lo ritrae; poi va ad Harlem. Ci è arrivata prima delle trasferte americane di tanti altri italiani dopo di lei. Torna a casa e fotografa la Milano degli anni Sessanta, poi la Roma di Fellini, Giosetta Fioroni, Alberto Arbasino e tanti altri. Sua è l’immagine di Arbasino che compare nella bandella di Fratelli d’Italia prima edizione. Poi di colpo smette, qualcosa di traumatico: ha capito attraverso un reportage in USA che le sue fotografie possono essere manipolate dai giornali in cui li pubblica. Chiude tutto, pellicole, rullini, macchine fotografiche in una valigia e la lascia lì. Intanto si è trasferita a Roma e fa la segretaria di redazione di Quindici, la rivista della neoavanguardia di Balestrini, Giuliani, Eco, Manganelli e tanti altri. Nel 1966 pubblica da Feltrinelli un romanzo, Il grande angolo, con la presentazione di Manganelli. Un libro su una fotografa, ma anche un giallo misterioso, un’opera di avanguardia, ma anche di grande leggibilità. Quindici esplode. Il Sessantotto è iniziato e la politica si divora la nuova letteratura avanguardista. La rivista chiude e una parte della redazione entra nella politica dei gruppi extraparlamentari come Nanni Balestrini, altri si dedicano invece alla letteratura come Alfredo Giuliani. Giulia invece prende un’altra strada. A Roma ha conosciuto un giovane poeta, Adriano Spatola, che già pubblica sulle riviste come “Tempo presente” di Nicola Chiaromonte e degli altri intellettuali non marxisti. Nel 1972, nel pieno della bagarre politica si trasferisce al Mulino Bazzano, una casa isolata nell’Appennino parmense sul bordo di un torrente, di proprietà di un altro poeta, Corrado Costa, e fonda una rivista Tam Tam. Nel falansterio di Bazzano si stampano libri e libretti e vi converge tutta una generazione di scrittori e poeti che continua l’esperienza della poesia sperimentale degli anni Sessanta, ma anche artisti come Claudio Parmiggiani e Giuliano Della Casa. Un punto di ritrovo per un decennio. Giulia scrive poesie, e sono “poesie concrete”: è il momento della poesia visuale che si rifà alle avanguardie del Novecento, ma anche agli sperimentalismi americani degli anni Cinquanta. L’atelier di Bazzano è la nostra Beat generation, ma calata in un mondo molto diverso da quello del ribellismo americano di Kerouac e Ginsberg. Viaggia anche, va all’estero con Spatola e aggrega intorno a sé un gruppo di giovani autori. Tam Tam è la poesia fuori dalle confraternite letterarie tradizionali, la scoperta di un nuovo modo di scrivere in versi e anche in anti-versi, che ha aperto nuove strade alla letteratura underground italiana del decennio successivo. Poi un giorno Giulia, che ha anche sostenuto finanziariamente il Mulino e le edizioni che lì si stampavano, lascia tutto e se ne torna a Milano, abbandona dietro di sé anche l’esperienza della poesia sonora dei Settanta. Nel 1980, a quarantasei anni, Giulia Niccolai ha un ictus, un’esperienza dolorosa da cui fatica a riprendersi. Racconta di aver impiegato quattro o cinque anni per tornare alla piena normalità, per quanto il trauma le abbia lasciato degli strascichi. In quel periodo era appena tornata a Milano e traduceva, per mantenersi, Gertrude Stein per le edizioni di Rosellina Archinto, un lavoro difficile anche per una persona bilingue come lei. Appena uscita dall’ospedale telefona alla persona che nella casa editrice seguiva il libro che lei stava traducendo per dirle che non ce l’avrebbe fatta a consegnarlo alla data stabilita. La donna le dice semplicemente: “Senti, vado a sentire una conferenza di un Lama tibetano, vuoi venire? Ci vediamo lì? Siamo nel giugno del 1985, e l’appuntamento è a una fermata di metrò. Giulia l’aspetta, ma la donna non arriva. Ha l’indirizzo e decide di andarci da sola. Entra nella sala e si siede in fondo. Il Lama sta parlando della ruota del tempo e mentre sviluppa la sua esposizione con voce pacata, Giulia prova la sensazione che il Maestro stia rispondendo via via alle domande che formula nella mente: attimo per attimo, ecco la soluzione ai quesiti. Lascia la sala con l’impressione che lui le abbia letto nel pensiero. La sensazione è quella di essere tornata di colpo a casa dopo essere rimasta in una sorta di Legione straniera per cinquant’anni anni. Nel 1990, dopo un discreto apprendistato come buddista, Giulia Niccolai si fa monaca e prende i voti in India. Adesso le due sponde della sua vita non sono più l’Italia e l’America, come le era accaduto in precedenza, per cui Giulia ha scritto poesia per quarant’anni anni in entrambe le lingue, mescolandole e fondendole –, ora sono l’Oriente e l’Occidente. Nel 1981 ha anche pubblicato da Feltrinelli un libro bellissimo, Harry’s Bar e altre poesie (1969-1981) che raccoglie i testi sperimentali pubblicati a Bazzano nelle edizioni Geiger e dopo di allora. Poi pubblica un libro intitolato Le due sponde (Archinto), memore della nuova esperienza, dedicato alla pittura e insieme alla sua vita, al Buddismo tibetano e al pensiero visivo, un libro enigmatico. Enigma è una parola che figura nel titolo di due quadri di De Chirico che Giulia esamina e discute, non solo ricorrendo alla sua cultura, alla sua sensibilità visiva (è stata pur sempre una fotografa professionista), ma soprattutto alla sua esperienza spirituale. L’enigma era per Giorgio Manganelli, suo punto di riferimento, il cuore di ogni classico, ovvero ciò che si occulta nel fondo della letteratura e che non si può ridurre a nessuna lettura filologica o critica: qualcosa di pulsante, di vivo, di misterioso, qualcosa che ci interroga, come le linee intere o spezzate degli Yi Jing, dove possiamo leggere, se lo vogliamo, i sublimi mutamenti, il nostro destino. Ecco che una sera, a Milano, per strada Giulia vede passare un nuovo modello di tram che reca il numero 14. Le figure illuminate all’interno delle carrozze, dietro ai grandi finestrini quadrati, le danno un tuffo al cuore: ecco transitare l’essenza muta dei quadri di Hopper. Un’altra volta si trova a Los Angeles; immersa nella luce della città americana comprende all’improvviso cosa voleva dipingere David Hockney con le sue piscine: la pittura come specchio. Una delle grandi qualità di Hockney, scrive nel suo libro di note, appunti, riflessioni, piccole storie personali, illuminazioni di istanti, epifanie del pensiero, è di essere sempre consapevole dell’inautentico e dell’artificiale. A un certo punto, nelle bellissime pagine su Hockney, cita una frase di Hannah Arendt: “Le opere d’arte sono: cose del pensiero”. Ma cosa sono esattamente queste “cose del pensiero”? La “cosa” per Giulia Niccolai non è un oggetto, bensì un contenuto del pensiero: un’esperienza spirituale. Su questa strada la poetessa è probabilmente andata più avanti di Manganelli stesso che, dopo aver conosciuto l’enigma in modo concreto (“la cosa”) nel corso del suo viaggio in India, raccontato in Esperimento con l’India (Adelphi), se ne è ritratto, l’ha fuggito, per poi ritrovarselo davanti, di colpo, negli ultimi mesi di vita. Giulia si è invece buttata dentro l’enigma, lo ha seguito fino in India, ne ha fatto la sua stessa “cosa”. Nel sottotitolo del libro è scritto: Spazio/Tempo: indica le due sponde, insieme a Oriente/Occidente. Il tema del libro è infatti l’incontro con l’Eterno, tema spirituale per eccellenza. L’eternità come abolizione del tempo, argomento che la poesia insegue da secoli, e su cui si arrovella non meno della religione o della scienza. Con la sua esperienza del mondo visivo Giulia Niccolai ha fatto un passo ulteriore in questa direzione, alleggerendo ancora il suo fardello. Di meditazione in meditazione (ma si dovrebbe dire: di poesia in poesia), tutto è diventato più aereo e più sottile. Rispetto al libro precedente quello che è venuto dopo, Esoterico bigliardo (2001), appare come il libro dell’infanzia del pensiero. La “cosa” a cui si sta pian piano avvicinando è infatti il passato remoto cui sembra indirizzarla la visione della pittura: i quadri di Magritte e Hopper, di De Chirico e Jim Dine, di Carracci e Antonello da Messina le servono per questo. L’origine è davanti a noi: invecchiando si avanza retrocedendo. Le pagine più belle del libro, pagine che cadono all’improvviso, come colpi di luce – la luce che come fotografa, poetessa e donna, Giulia Niccolai dimostra di amare fortemente – sono quelle in cui il mondo visto diventa un mondo vissuto, esperienza di un attimo, illuminazione, rivelazione, enigma, appunto. Il capitolo dedicato a Duchamp è poi un sorprendente autoritratto. “Di cosa hai vissuto?”, chiede Pierre Capanne nella celebre intervista a Duchamp. “Non lo so proprio”, risponde l’artista. Cabanne insiste, e Duchamp gli dice: “Avevo dei Brancusi in soffitta, ho chiamato Roché e glieli ho venduti. Allora, continua, gli affitti costavano poco a New York”; e conclude: “Vivere è più una questione di quanto uno spende piuttosto di quanto uno guadagna. Bisogna sapere quanto ci serve per vivere”. Henri-Pierre Roché, il mitico autore di Jules e Jim e di Le due inglesi e il Continente, pubblicati a settant’anni suonati, sosteneva che l’opera migliore di Duchamp è stato l’uso che ha fatto del suo tempo. Giulia Niccolai appartiene a quella genia di artisti, non solo perché è stata una poetessa della neoavanguardia, non solo per le belle e sorprendenti poesie che ha pubblicato (Harry’s Bar è uno dei migliori libri di poesia del dopoguerra), non solo per i libri che ha scritto dopo di allora, ma anche per l’uso che ha fatto del proprio tempo: la meditazione. Si è fatta buddista e monaca non solo per ritrovare sé stessa, la propria pace interiore, per liberarsi dell’Io, ma anche per essere fino in fondo un’artista. Credo che con lei abbiamo perso una delle figure più importanti della poesia italiana, e non solo visto la sua fotografia e le altre cose che ha fatto. Dopo tanti anni, grazie a Silvia Mazzuchelli, Giulia ha recuperato tutto il suo archivio fotografico depositato per decenni in una casa della provincia di Parma. La riscoperta del suo lavoro di fotografa era in corso da qualche tempo, anche grazie all’attenzione che Uliano Lucas e Tatiana Agliani le hanno dedicato nel loro libro sulla storia del fotogiornalismo italiano, La realtà e lo sguardo (Einaudi). Una riscoperta che ora è doverosa e utile per ritrovare sguardi inattesi. Giulia Niccolai era molto di più di tutto questo: è stata una persona meravigliosa, attenta, sorprendente, felice. Difficile dimenticarla anche solo per un momento. Ha fatto pensare e divertire almeno due generazioni di lettori, e adesso tocca alla sua fotografia riscoperta illuminare il mondo con sguardi lontani ma sempre presenti e attuali.
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