Quali sono oggi i corpi della politica italiana? [di Marco Belpoliti, Sergio Luzzatto]
https://www.doppiozero.com/.Esce presso Guanda in una nuova edizione con pagine aggiunte Il corpo del capo, il libro dedicato agli usi politici del corpo di Silvio Berlusconi. Sono trascorsi quasi dieci anni dalla prima edizione. Ne discutono l’autore del libro, Marco Belpoliti, e lo storico Sergio Luzzatto, autore de Il corpo del duce e di Padre Pio, entrambi pubblicati da Einaudi. Quali sono oggi i corpi della politica italiana? Belpoliti: Berlusconi è tornato, sotto forma di una mummia. Un revenant, totalmente rifatto nel viso e nei capelli. Una specie di Nosferatu che proviene dall’oltretomba. Com’è possibile che, nella storia dell’Italia moderna, dal corpo di Mussolini si arrivi al corpo di questo ottantenne che pare avere ampie possibilità di successo elettorale, il prossimo 4 marzo? Sembra quasi che Berlusconi, ormai, possa fare a meno di un corpo. Luzzatto: Da un lato, si misurano oggi gli effetti di medio periodo del referendum del 4 dicembre 2016, quello perso da Renzi sulla riforma della Costituzione. E si misurano gli effetti del fatto che negli anni scorsi, anche al tempo del suo massimo appannamento fisico e politico, Berlusconi (come Mussolini) ha avuto la forza di non prendere neppure in considerazione il problema di una successione a se stesso. Così, ora, incassa i dividendi. Il referendum ha politicamente affossato la Seconda Repubblica, e proprio Berlusconi, che aveva interpretato al meglio lo spirito del bipolarismo, si trova adesso a essere disponibile, compatibile, plausibile sul terreno di una politica del proporzionale. Dall’altro lato, mi sembra importante quello che tu dici: Berlusconi si presenta ora senza il suo corpo. Si accontenta del suo brand. Nel logo di Forza Italia c’è scritto “Berlusconi presidente”, e sebbene Berlusconi sia formalmente ineleggibile, quel logo, secondo i sondaggisti, vale 2 o 3 milioni di voti. Oggi, non c’è più bisogno di vedere il corpo del capo di cui parli nel tuo libro. Basta il nome. E questo fa riflettere. La domanda è: cosa dice questo, oltreché di Berlusconi, dell’Italia? Cosa dice di noi, in un’epoca in cui, fra l’altro, le nuove generazioni non guardano più la televisione? Quelli che non guardano la televisione, che guardano internet, che navigano sul web 2.0, non voteranno, non sono interessati alla politica dei partiti. Berlusconi si rivolge agli anziani, o comunque agli elettori dai 50-60 anni in su. Tuttavia, anche le generazioni più giovani sono state influenzate dalla televisione di Berlusconi. Perché ha modellato l’Italia, attraverso le emittenti commerciali, il consumismo, una nuova forma di sessualità. I valori sono: successo, riconoscimento, ammirazione. Questi sono gli effetti del trentennio berlusconiano, prima ancora che della sua politica governativa. E poi, televisione e web non sono così distanti fra loro. Il web significa i video. In treno, sia sui treni superveloci che sui treni pendolari, vedo adulti e ragazzi che guardano video: canzoni, clip, spot. Gli smartphone hanno reso portatile lo stile delle televisioni commerciali. Anche se Berlusconi non c’è, se è un fantasma, è presente in quella cultura visiva veicolata dal web. Come un fantasma, è dappertutto e non è da nessuna parte. In compenso, sui manifesti elettorali, almeno per ora, non figura. Perché veicola un’immagine impresentabile dal punto di vista dei valori stessi che lo hanno connotato in precedenza. Tu parli di un Berlusconi impresentabile, ma non credo sia vero. È impresentabile per te, per me, per quanti appartengono a una generazione che ha vissuto la sua impresentabilità, anzitutto, su basi, si sarebbe detto una volta, etico-politiche. Ma Berlusconi è più che presentabile da un altro punto di vista: in quanto passa dall’incarnare la figura del padre all’incarnare la figura del nonno. Certo, nonno dei suoi primi nipotini, Berlusconi lo era già nel suo fotoromanzo elettorale del 2001, Una storia italiana («Nonno… Superman!», si autodefiniva). Adesso, però, Berlusconi è nonno nel senso biopolitico del termine. La generazione dei diciottenni o dei ventenni di oggi non lo vota, ma neppure lo detesta. Perché non ha vissuto in prima persona la vergogna che per molti italiani ha rappresentato il fatto di muoversi, là fuori, in un mondo in cui l’Italia era incarnata da Berlusconi. I ragazzi di oggi non si curano di Berlusconi. Semmai vivono, come tu suggerisci, dentro un mondo che lui ha contribuito a plasmare, quello dei video, della clip. Comunque, i giovani non lo detestano. E una delle ragioni, io credo, è proprio che oggi Berlusconi fa il nonno. E ci marcia, con i vari annessi e connessi. A cominciare dal cagnolino: il barboncino del nonno. Un altro colpo di genio. Quali che siano i numeri che farà la lista elettorale degli animalisti, la consapevolezza mediatica e attoriale, per riprendere categorie del tuo libro, con cui Berlusconi è passato dall’essere l’uomo del bunga bunga all’essere l’uomo del barboncino, è stupefacente e geniale. In effetti, se sei un ragazzo che ha un padre fin troppo ruspante, un satiro, allora ti senti a disagio. Ma se hai un nonno che sta dietro al cagnolino, e che ha una fidanzata così tanto più giovane di lui che, sotto sotto, tu pensi con lei non ci sta, allora va tutto bene. Aspettiamo a dire, quindi, che l’immagine attuale di Berlusconi è in contraddizione con le precedenti. Da un certo punto di vista, lui sta sempre dentro il suo fotoromanzo. E rispetta una sua logica biopolitica. La vicenda del barboncino e del nonno, io la leggo in un altro modo: ora è inoffensivo. Non offende più. Il satiro, l’uomo del bunga bunga, era conflittuale perché era un rivale. Con le sue donne, le sue ville, la sua ricchezza, i suoi privilegi, attivava l’invidia oltreché l’ammirazione, che è poi un’invidia resa positiva. Non potendo essere come lui, e non vergognandosi di sognarlo, tanti italiani lo ammiravano, mentre tanti altri lo detestavano. Ora, nel manifesto elettorale di “Berlusconi presidente” è scritto: “onestà, esperienza, saggezza”. Il cagnolino è Umberto D., siamo ancora al pensionato neorealista. Un cane piccolo, tascabile, non un alano o un pastore tedesco. Il classico cane da compagnia. E, come tu dici, anche la fidanzata, la Pascale, diventa una dama di compagnia. Berlusconi come un nonno-padre, protettore, che sembra uscito dalle immagini della Francia pre-rivoluzionaria, la Francia delle corti, con i cicisbei e il contorno di cortigiani. Questa è una delle facce del fantasma. Nessuno sa quanto il barboncino valga in termini elettorali, però sappiamo che le immagini condizionano le adesioni, e quindi anche il voto. Con Berlusconi funziona l’adesione: si parla di nuovo di lui. Quando dicevo impresentabile non alludevo all’aspetto morale, ma alla sua bruttezza attuale, a un corpo totalmente rifatto con la chirurgia plastica. In ogni caso, ora l’ammirazione per lui viene dalla sua mansuetudine, ma è una mansuetudine che non si separa mai da una forza. A 82 anni è energico, nonostante i piccoli crolli. Ha rubato l’energia a Renzi, che invece torna a fare il ragazzo su Twitter: l’avrai vista quella foto, dove scrive al computer con i piedi appoggiati sulla panchina. Forse anche lui avrebbe bisogno di una sua Pascale. Non so di cosa Renzi abbia o non abbia bisogno. La vulgata gli ha attribuito a lungo un’affaire con Maria Elena Boschi. Io ignoro tutto sulla pertinenza o meno di questa vulgata. Di certo, però, lo storico o il semiotico del futuro potranno utilmente studiare gli usi, e gli abusi, dell’immagine di Maria Elena Boschi nell’età di Matteo Renzi. Durante i 1000 giorni in cui Renzi è stato al potere, tante volte mi sono interrogato sulle fotografie che, ogni santo giorno, “La Stampa” o il “Corriere della Sera” o “La Repubblica” hanno pubblicato della Boschi. A cominciare da quelle del suo giuramento da ministra, con il tailleur blu super-attillato e il tacco 12. Tante volte mi sono detto che uno studio accurato di quelle foto permetterà analisi non banali sull’evoluzione del corpo del potere nell’Italia del terzo millennio: il corpo del capo, della capa, della donna del capo. Un po’ come, d’altronde, per gli Stati Uniti dei nostri giorni: il corpo di Trump e il corpo di Melania e il corpo di Ivanka… Mentre tu parlavi, mi figuravo questo Berlusconi inguardabile, finto, e pensavo proprio a Trump, il quale, in fondo, costituisce l’ennesima riprova del fatto che, nella comunicazione politica, noi italiani facciamo scuola. Mussolini, ad esempio, è stato sicuramente un pioniere. Dalla metà degli anni Venti alla metà dei Trenta, era di molto avanti a tutti. Hitler avrebbe imparato da lui, e se si pensa a Roosevelt, al presidente vicino al caminetto con la radio, confrontato a Mussolini era un dilettante. Settant’anni dopo, Berlusconi ha aperto strade ulteriori. Nel libro tu insisti, giustamente, sull’importanza dei capelli. C’è tutta un’epica, infatti, sui capelli del Berlusca, e sulle dinamiche all’incontrario della sua calvizie: “Silvio quando ancora non aveva i capelli…”. Trump, lui, sta mascherando la calvizie con il riporto, e rappresenta l’avvento biopolitico di un Berlusconi con altri mezzi, più spudorati ancora. Il bunga bunga ha rischiato di travolgere Berlusconi quando era già al potere; se fossero uscite registrazioni in cui Berlusconi diceva sulle donne, e sul corpo delle donne, frasi come quelle pronunciate da Trump prima di entrare in politica, voglio sperare che, in Italia, ci sarebbe stata una crisi di rigetto. Ho intitolato l’ultimo capitolo della nuova edizione “Nosferatu”. L’Italia è un paese per vecchi, dove un uomo di 82 anni si appresta a vincere le elezioni. Berlusconi è rimasto a galla nonostante la condanna ed è di nuovo in campo. Come un vampiro, succhia il sangue all’Italia. Questo corpo impresentabile è anche la metafora del corpo degli italiani. Berlusconi è ancora una volta in sintonia con quanto accade nel Paese: i giovani se ne vanno. Niente futuro. Solo un avatar di nome Berlusconi. Qui arriviamo al punto che più mi premeva toccare: i corpi degli altri. Tu dici che Berlusconi è in sintonia con gli italiani, ma nei quasi dieci anni trascorsi dalla pubblicazione del tuo libro sono successe varie cose, in Italia, sul piano della biopolitica, o quanto meno di una politica dei corpi. Prendiamo Emma Bonino. Con il suo foulard, è l’immagine stessa di una donna anziana che lotta contro un tumore. E colpisce il modo con cui porta questa immagine dentro la politica: non solo coraggiosamente, ma problematicamente. La donna oggi più rispettata della politica italiana, quella con il quoziente di gradimento più alto di tutti dopo il presidente della Repubblica, è anche una donna fisicamente piagata. Mentre la giovane ministra con il tailleur super-attillato e il tacco 12 viene oggi nascosta o quasi: di soppiatto, viene candidata in Alto Adige. Sotto la Prima Repubblica Andreotti diceva, memorabilmente: il potere logora chi non ce l’ha. Ma la Seconda Repubblica ha logorato anche corpi di chi il potere ce l’aveva. Guarda il corpo di Renzi. Era un corpo giovane quando si è proposto sulla scena politica, ed è come se questa giovinezza fosse stata bruciata anzitempo. In termini di presenza fisica, Renzi ha rottamato se stesso. E Berlusconi, che quasi quasi lo aveva riconosciuto come suo degno successore, non tanto politico, ma mediatico, sembra ora che approfitti di questa usura prematura. Renzi stesso è costretto a dire che gli sta venendo qualche capello bianco, è costretto a gigioneggiare sulla propria senescenza corporale. Infine, c’è la questione dei Cinque Stelle. Quale corpo hanno? Già, fin qui si era parlato del corpo di Grillo, ma adesso si può parlare del corpo dei Cinque Stelle al plurale. Nuove figure mediatiche. C’è Di Maio, new entry della politica corporale. Penso sia interessante riprendere quello che tu hai scritto nell’altro libro sul corpo dei politici, La canottiera di Bossi. Per semplificare: hai riflettuto sull’unicità del corpo del capo, inteso come Berlusconi, e sulla ordinarietà, anzi sulla volgarità dell’everyman in canotta, che è Bossi, anche dopo la sua malattia. Oggi, i corpi dei Cinque Stelle sono tre, politicamente parlando. E sono tutti e tre corpi di maschi. Nessuna donna, nessuna Bonino o nessuna Boschi della situazione. Un magma indistinto di donne di cui noi conosciamo a malapena i nomi, si chiamino Taverna o Lombardi o chissà come; la Raggi è un altro discorso, viene percepita come un personaggio locale, non nazionale. Tre uomini, separati anagraficamente da una generazione: Beppe Grillo, e poi Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Nella sua epifania politica, Grillo ha lavorato anche sul corpo: del resto è un attore, un uomo di teatro e di varietà. Lui stesso ha investito sulla ricetta dell’everyman che tu hai descritto per Bossi, intesa come una scommessa sull’elemento popolaresco, anti-intellettuale, anti-capitalistico. Pensa alla attraversata dello Stretto di Messina, come Mao. È il corpo di un trickster, il disordinatore, come nel teatro e nelle mitologie, è il fool. Grillo ha portato il disordine nella scena politica. Di Maio è il manichino, rigido, quasi elegante, in giacca e camicia bianca. Ho letto che era uno steward: un indossatore di basso profilo. Di Battista è il post-sessantottino. Rappresenta la nuova generazione, quella del sociale, dei no-profit, della cooperazione che si è spesa per piccole utopie, spesso fuori dal contesto italiano. Possiede un elemento utopico, manifestato da come si veste: jeans, camicia, barba. Direi distopia più che utopia, rispetto all’offerta di corpi politici di cui abbiamo parlato finora. Distopia, perché Alessandro Di Battista si muove come sulla scena di un mondo che non è ancora presente, ed è forse lui che ha maggiore futuro. Potenzialmente, rappresenta forse l’offerta più inclusiva. Ad esempio: il padre fascista di Di Battista è perfetto nella sua narrazione, perché i giovani di oggi, post-ideologici, non lo ritengono un problema; d’altra parte, ai loro occhi, uno come “Dibba” ha il merito di essersi ribellato alla vicenda famigliare, sebbene si tratti di una ribellione così contenuta che il padre e il figlio vanno perfettamente d’accordo… In generale, l’attuale offerta agli elettori rischia di rivelarsi inadeguata. I leader di cui abbiamo parlato – Berlusconi, Renzi, Di Maio, cui va aggiunto Salvini – non potranno accontentare che singoli frammenti del bacino elettorale. Così, la mia curiosità è di capire se quel fenomeno assolutamente liquido che è Di Battista, il quale ha avuto l’idea luminosa di sottrarsi all’agone nel primo giro, visto che le elezioni del 4 marzo rischiano di tradursi in una falsa partenza, sia promesso a un grande futuro. Forse la sua ricetta corporale è quella più efficace. Di sicuro, Di Battista è l’unico leader politico italiano che parla in modo naturale il linguaggio dei social e della comunicazione contemporanea. Berlusconi ha bisogno di quarantenni che glielo spieghino. Renzi anche, seppure molto meno. Che si faccia fotografare in tinello con le sue nonne o sul treno con i ferrovieri, non si riesce a sentirlo come genuino. Dietro si percepisce qualcuno che gli dice: meglio postare questa foto e non quell’altra. Di Battista, invece, dà l’idea di fare tutto da sé. E suona autentico. E parla, per immagini e per parole, una lingua trasversale. Quando andava con la fidanzata incinta lungo gli argini del Tevere. Quando saliva sulla moto per rinnovare il mito del Che. Ha una vera e propria babele di riferimenti culturali, in cui ci sta tutto e il contrario di tutto. In questo senso, come adesso suol dirsi, può “spaccare”. Su Di Battista non so dirti, la tua è una ipotesi suggestiva. Sicuramente il corpo di Renzi non funziona, non è riuscito ad andare oltre la camicia bianca. Né l’aiuta il fatto di essere fiorentino, anzi probabilmente è un ostacolo, per quanto Firenze sia la culla della nostra lingua letteraria, colta. Il suo accento suona male alle orecchie degli italiani. In più, Renzi si è appannato perché come uomo di governo non ha raggiunto un’identità fisica; è rimasto a metà strada tra l’essere giovane e l’essere adulto, non è nessuna delle due cose. La sua unica identità è mediatica. Non a caso ha preso il treno e ha attraversato l’Italia, per uscire dalla televisione e dai social. Mentre Berlusconi ha avuto il privilegio di avere un’identità fisica prima che mediatica. La sua identità fisica precede l’amplificazione dei media, che l’hanno solo accentuata. Nel caso di Renzi tutto questo non c’è. Berlusconi è brutto, Renzi non è bello: eppure l’immagine di Silvio appare simpatica, mentre Matteo non riesce attraente. Guarda i nei sul suo viso, raccontano qualcosa che può anche non piacere. Certo, ognuno di noi ha ricevuto il corpo che ha e non può farci nulla. Ma a differenza di Berlusconi, e di Grillo, Renzi non può contare su doti da attore. Sono d’accordo con molte delle tue analisi, e vorrei aggiungere due elementi di riflessione. Il primo riguarda qualcuno che non abbiamo ancora nominato: il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Rispetto alle cose che scrivi sul corpo di Berlusconi, mi sembra significativo notare come Gentiloni rappresenti, in tutto e per tutto, un ritorno al corpo democristiano. Un ritorno, cioè, alla figura del politico che porta in giro il proprio corpo come qualcosa di obbligato, di inevitabile. Qualcosa che non puoi non avere, che ti porti dietro come si portano le scarpe. Ebbene: i leader politici italiani di cui abbiamo discusso finora hanno tutti pochissime possibilità di diventare premier. L’unico che ha buone probabilità di rimanere primo ministro è proprio colui che continua a non avere un corpo, come già accadeva ai politici nella prima Repubblica. E si torna lì anche perché il proporzionale, come sistema elettorale, non ha veramente bisogno del corpo di un capo. Che si tratti di sistemi autoritari o di sistemi democratici, il corpo del capo serve in una logica maggioritaria: veicola quel sovrappiù carismatico che ti può permettere di sbaragliare i concorrenti. Ma nel proporzionale, il corpo del politico serve relativamente. Interessante la tua ipotesi che i corpi dei politici si rapportino ai sistemi politici: maggioritario o proporzionale. In effetti il corpo del capo, sia Mussolini in un sistema dittatoriale, sia Berlusconi, in uno democratico, è decisivo. Siamo portati a identificare il dittatore o l’autocrate, l’uomo del Destino o quello del Successo, con la sua espressione fisica. Renzi non ha il “fisico”, di questi due, e allora si deve concludere che non poteva diventare un Capo? Se Renzi avesse vinto il referendum, è chiaro, non saremmo qui a parlare di questo. Camicia bianca o non bianca, Renzi sarebbe il padrone della politica italiana. Ma quando gli italiani hanno respinto quel referendum, hanno respinto una certa idea della personalità carismatica. Vedi, io non sono d’accordo con te sul fatto che Renzi sia rimasto in mezzo al guado dal punto di vista dell’età, reale o percepita. Il problema è piuttosto: cosa si aspettano gli italiani, da un uomo di quell’età? E un buon termine di confronto è quello con i francesi, e con Macron. Tu l’hai visto, Macron, il giorno della sua vittoria alle elezioni? L’hai visto sulla spianata del Louvre che camminava da solo per trecento metri verso la Pyramide, con l’Inno alla gioia come sottofondo? Era il re di Francia che tornava a casa. Perciò non credo che il problema di Renzi sia quello dell’età, il fatto che a quarant’anni non sia più un giovane dirompente né sia ancora un vecchio saggio. Ma sono due personalità molto diverse Macron e Renzi, perché le abbini, forse per l’età? Macron appartiene alla stessa generazione di Renzi, ma davanti a sé ha un orizzonte d’attesa diverso. I francesi vogliono il monarca, la monarchia repubblicana, gli italiani no. Forse nella nostra storia c’è un anticorpo, o un vaccino, di cui altre storie nazionali non avvertono il bisogno. Senza dire del coraggio, davvero inaudito, che Macron ha avuto sul terreno di una biopolitica “di genere”. In Italia, qual era l’orizzonte d’attesa riguardo a Berlusconi? Era divisivo: Berlusconi divideva. Finché era virile o femmineo, come scrivi tu nel libro, finché era sessuato, divideva; solo adesso che è asessuato non è più divisivo. Sarkozy stava con Carla Bruni, una donna molto bella e desiderabile. E anche lui divideva. Macron sta con una donna che potrebbe essere sua madre: la sua è una narrazione politicamente altra, totalmente inedita, che ha incantato i francesi. Dopodiché, volendo cavarcela con una battuta, potremmo chiederci: chissà come sarebbe andata, se gli italiani avessero potuto attribuire a Renzi un’affaire con una Maria Elena Boschi molto più vecchia di lui… una storia vissuta contro tutti, contro la famiglia, contro il senso comune, con una donna più vecchia di 25 anni. Vorrei tornare su Paolo Gentiloni. Hai ragione che è democristiano fisicamente, ancora prima che politicamente: in quanto il senso della sua presidenza è la mediazione, l’amalgama, come lo chiamava Aldo Moro. Leggo la figura di Gentiloni in rapporto a un’altra figura, che è extraterritoriale e insieme nazionale: il Papa. Da un lato noi abbiamo un curato, per quanto gesuita, gestore di un immenso oratorio, che è poi la Chiesa cattolica. Un uomo dal carattere molto forte; osserva le orecchie e il naso di Bergoglio, esprimono determinazione. Dall’altro lato abbiamo un membro della Fuci, la federazione universitaria cattolica, Paolo Gentiloni, che pur non essendo cattolico, anche se da ragazzo è stato catechista, di fatto lo è nella gestione politica e nel corpo, come sottolinei tu. E che risente in forma indiretta della presenza di papa Francesco. In fondo, tutti quelli di cui abbiamo parlato sin qui sono come figure del presepe, che si leggono non solo singolarmente, ma anche in relazione tra di loro. Aggiungo perciò l’ultima figurina, quella di Francesco con le sue scarpe da contadino piemontese che spuntano sotto la talare bianca del Papa, e con la sua borsa da docente di seminario. Il Papa sì che ha un corpo, Gentiloni no, e può farne a meno anche per questo. Dobbiamo stare attenti a non far sempre tornare tutto. Nel presepe, non tutte le figure hanno un significato in rapporto alle altre. Papa Francesco c’era anche quando c’era Renzi, che è lui stesso cattolico, ma che viene dagli scout, e da un paese di provincia. Paolo Gentiloni Silveri discende da una famiglia nobile dello Stato pontificio, Renzi dal popolino del contado toscano. Non so se hai visto Young Pope di Sorrentino. C’è la scena dell’incontro tra questo Papa anomalo, americano, che fuma, e il Primo Ministro italiano, interpretato da Stefano Accorsi, che è poi Renzi nello stile e nelle movenze. Il dialogo che si svolge tra loro è improntato all’antipatia reciproca, anche fisica. Credo che l’antipatia e la simpatia contino molto nei rapporti umani e anche politici. Sorrentino ha sottolineato l’aspetto di naturale antipatia che suscita l’ex premier Renzi. E bada che in vari casi questa antipatia gli è persino servita, a Renzi, come uno strumento, almeno quando vigeva la divisione, il conflitto. Con Gentiloni siamo entrati nello spazio della mediazione, e persino dell’unione dei diversi e degli opposti. La Grande Coalizione verso cui sembra che andiamo, salvo sorprese, contiene un desiderio di pacificazione che né il corpo di Berlusconi nel passato, carico di erotismo, né il corpo del rottamatore Renzi, carico di aggressività, sono in grado di garantire. Vorrei tornare su una cosa di cui hai parlato: il Renzi fiorentino. Sotto la Prima Repubblica, l’Italia della politica cercava di essere un’Italia unita anche in quanto Italia senza più accenti, senza inflessioni dialettali. Con le debite eccezioni, naturalmente: Giovanni Leone, per esempio, presidente della Repubblica poi dimissionario, aveva un’inflessione fortemente napoletana, e certo questo non gli ha giovato. Nella Seconda Repubblica, Renzi ha pensato di poter interpretare anche fisicamente, vocalmente, un bisogno di cambiamento. Non ha mai fatto nulla per nascondere la sua inflessione toscana, e fiorentina. Ecco, io mi chiedo, quanto è stata divisiva questa scelta di Renzi, agli occhi, alle orecchie, di tutti quelli che fiorentini non sono? Perché dietro, credo, c’è il problema storico di Firenze. Un problema vecchio di sette o otto secoli… Da sette o otto secoli, dal tempo di Dante, Firenze si presenta come la culla di una civiltà che è stata egemone in termini letterari, culturali, anche identitari, ma che ha vissuto una vita assai grama dal punto di vista politico. Pensa ai lunghi secoli degli Antichi Stati, quando Firenze era tutt’al più la capitale di un Granducato. E pensa ai soli sei anni, non uno di più, in cui Firenze è stata capitale del Regno d’Italia. Dal 1865 al 1871: una capitale tra le più effimere della storia universale. Ecco, forse, da questo punto di vista, Renzi è stato, parafrasando Molière, colto senza saperlo. Ha interpretato una tradizione, che non è solo quella generica del toscanaccio, dell’uomo sboccato e tagliente, ma è quella specifica del fiorentino, dell’uomo che da secoli insegna all’Italia come si sta al mondo. Senonché, da secoli, l’Italia è restia a farselo spiegare. Oggi, qual è questa Italia? È quella del Nord o quella del Sud? Entrambe. Non per caso, forse, i maggiori rivali politici di Renzi vengono oggi l’uno (o i due), Berlusconi e Salvini, da Milano, l’altro, Di Maio, da Avellino. Sia chiaro, l’elettore italiano medio certamente non pensa a Dante quando pensa: come mi sta antipatico Renzi. E Renzi stesso, immagino, sa a malapena chi Dante sia, benché in un suo libro di qualche anno fa, Stil Novo, abbia voluto far credere di conoscerlo a memoria. Comunque, mi sembra una storia di lungo periodo, questa della difficoltà dei fiorentini di farsi accettare come guide dagli italiani. Né poteva bastare, per risolvere la faccenda, il sottotitolo di quel libro firmato da Renzi: La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter. Questo dialogo è stato pubblicato su “L’Espresso” del 18 febbraio 2018 in forma più breve, Ringraziamo il settimanale per aver consentito di ripubblicarlo.
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