Leopardi, Goethe e Tuvixeddu [di Maria Antonietta Mongiu]

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L’Unione Sarda 24 giugno. La città in pillole. “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? /Brillano tra le foglie cupe le arance d’oro, / Una brezza lieve dal cielo azzurro spira, /Il mirto è immobile, alto è l’alloro! /Lo conosci tu? Laggiù! Laggiù! /O amato mio, con te vorrei andare!”; così Goethe nel 1795 in Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister.

Romanzo di formazione che traccia la rotta del nuovo genere e, insieme, indizio della maturazione dello scrittore, reduce dal grand tour che produrrà l’inarrivabile Viaggio in Italia. Libro di meditazioni per allenare vista, olfatto, udito e per intendere come è stato massacrato il bel paese; spesso, con l’alibi della valorizzazione, termine da eliminare dal vocabolario.

Goethe, nel paesaggio italiano colse forza pedagogica, protagonismo, ininterrotta dialettica con chi lo abitava. Quanto ne fosse consapevole Leopardi è di evidenza in ogni opera e nel suo vissuto. Nell’ Infinito del 1819, il paesaggio è immaginazione, interminati spazi, sovrumani silenzi o vento che stormisce e, infine, metafora tra l’oggi fugace e l’eterno.

Un anticipatore del concetto di percezione dei luoghi che si fa norma rivoluzionaria nella Convenzione europea del paesaggio. Vi si legge all’art.1: “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.

A leggerla come pratica quotidiana si capisce che i contenuti sono Dna dei nostri contadini e pastori o almeno di quelli consapevoli di essere sentinelle di un paesaggio antico e del suo senso. La sua manutenzione dovrebbe essere pagata dalla comunità tutta.

La percezione dei luoghi è diventata fulcro del Codice dei Beni culturali del 2004, ma soprattutto del PPR della Sardegna. Una nuova Carta De Logu che dice: “[…] protagonista, è il paesaggio della Sardegna. Un bene complesso e fragile […] prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, lungo la cui durata si sono costruiti insieme, fusi nella medesima forgia, la forma dei luoghi (il paesaggio appunto) e l’identità dei popoli […].

Conservare il paesaggio significa conservare l’identità di chi lo abita, perché un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità e memoria. Ogni decisore dovrebbe rammentarlo prima di apporre timbri e firme, onde evitare impugnative, ormai quotidiane, ma, soprattutto, oscenità tipo quelle visibili oggi nella necropoli di Tuvixeddu: lindo giardinetto inframmezzato da buchi che furono tombe.

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