Cosa resta del ricordo dei professori che dissero di no al fascismo [di Teresa Simeone]

https://www.micromega.net/ 28 Dicembre 2021. All’inizio dell’anno accademico 1931-1932 ai professori delle Università del Regno fu imposto dal regime l’obbligo del giuramento “alla Patria e al Regime Fascista”. A distanza di 90 anni, ripercorriamo la storia di quei pochi docenti che dissero “no”.

«Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio d’insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio».

Questo era il testo del giuramento che – con Regio Decreto-Legge del 28/8/1931, n.1227, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia dell’8/10/1931, n.233, all’articolo 18 – fu chiesto ai professori di ruolo e ai professori incaricati delle Università del Regno di firmare.

Soltanto dodici, su oltre milleduecento, rifiutarono di farlo: Ernesto Buonaiuti, Storia del cristianesimo, dell’Università di Roma; Mario Carrara, Antropologia criminale, dell’Università di Torino; Gaetano De Sanctis, Storia antica, Università di Roma; Giorgio Errera, Chimica, Università di Pavia; Giorgio Levi della Vida, Lingue semitiche, Università di Roma; Fabio Luzzatto, Filosofia del Diritto, Scuola Sup.re Agric.ra, Milano; Piero Martinetti, Filosofia, Università di Milano; Bartolo Nigrisoli, Clinica chirurgica, Università di Bologna; Francesco Ruffini, Diritto Ecclesiastico, Università di Torino; Edoardo Ruffini Avondo, Storia del diritto, Università di Perugia; Lionello Venturi, Storia dell’arte, Università di Torino; Vito Volterra, Fisica matematica, Università di Roma.

In verità, il numero non è definito con esattezza poiché, oltre i dati della relazione ufficiale del 1932, comprenderebbe professori non di ruolo o in situazioni non rigidamente inquadrabili. Oscilla, dunque, dai dodici, di cui scrivono Giorgio Boatti nel libro “Preferirei di no” e Helmut Goetz nell’opera “Il giuramento rifiutato. Docenti universitari e il regime fascista”, fino ai quindici/sedici che includono anche Giuseppe Antonio Borgese, docente di Estetica presso l’Università di Milano, che si trovava in missione negli Stati Uniti e che decise di non rientrare nella penisola proprio per non giurare fedeltà al fascismo (lo dichiarerà, formalmente, due anni dopo, nel 1933, accettando di non ritornare in Italia, cosa che farà solo nel 1948); Errico Presutti, professore di Diritto amministrativo e di Diritto costituzionale a Napoli, fiero antifascista, dichiarato decaduto dalla Cattedra universitaria per essersi rifiutato di prestare il giuramento; Mario Rotondi, giurista della Cattolica, di cui, tuttavia non sono certe le motivazioni coincidenti con la collocazione a riposo per anzianità di servizio che, tuttavia, insieme a Francesco Rovelli, rifiutò di aderire anche utilizzando la formula “elastica” riservata ai religiosi (“con riserva interiore”); Piero Sraffa, giovane economista di origine ebraica, amico di Gramsci e collaboratore di Keynes che lo chiamò all’università di Cambridge dove, per il suo manifesto antifascismo, scelse di vivere da esule e che il 1 novembre 1931 rassegnò le sue dimissioni dall’Università di Cagliari.

Anche Leone Ginzburg, approdato alla libera docenza nel 1934, rifiuterà di giurare. Nel 1925 avevano rinunciato alla cattedra Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini e Silvio Trentin e accettato la revoca, piuttosto che abdicare al libero insegnamento, il già citato Errico Presutti e Arturo Labriola, come riporta Norberto Bobbio[1].

Un’annotazione è doverosa anche nei confronti di Michele Giua, padre di Lisa, moglie di Vittorio Foa, e nonno della storica Anna Foa, valente e promettente chimico cui nel 1933 fu richiesta l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista: a causa del suo rifiuto, fu privato di ogni incarico e vide la fine della sua carriera universitaria.

Perché fu chiesto questo ulteriore (ce n’era stato uno nel 1924 al Re, allo Statuto e alle altre Leggi dello Stato che, pur con qualche riserva, era stato accettato senza troppi traumi e quello del 1928-29 per i professori delle scuole superiori) atto di fedeltà e che cosa significò per la cultura accademica e per lo Stato italiano ormai divenuto totalitario?

Per capirlo a fondo si può ripercorrere il cammino del fascismo attraverso alcune date significative, iniziando da quel 28 ottobre 1922, quando, invece di firmare lo Stato d’assedio che gli presentò Facta, Vittorio Emanuele III, due giorni dopo, affidò a Mussolini l’incarico di formare il governo, aprendogli di fatto e di diritto la strada al potere.

La seconda coincide con il delitto Matteotti, 10 giugno 1924, vero punto di svolta per molti intellettuali che inizialmente avevano guardato con simpatia al sorgere di un movimento che credevano rivoluzionario e che si accorsero come di rivoluzionario avesse solo la velleità. Ne ebbero piena consapevolezza il 3 gennaio 1925: il senso del discorso con cui Mussolini stigmatizzò la propria posizione di fronte al Parlamento e rivendicò l’assunzione della responsabilità, politica, morale, storica di quanto avvenuto era chiarissimo: “Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! […]”. E ancora: “L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area”[2].

Parole inequivocabili, cui seguirono, con fedele coerenza, telegrammi ai prefetti in cui si chiedevano la chiusura di tutti i circoli e ritrovi sospetti dal punto di vista politico; lo scioglimento di tutte le organizzazioni che sotto qualsiasi pretesto potessero raccogliere elementi turbolenti e di tutti i gruppi dell’Italia libera (associazione antifascista di ex-combattenti) vietandone qualsiasi attività; vigilanza dei comunisti e sovversivi; rastrellamento, con frequenti perquisizioni, di armi illegalmente detenute; vigilanza rigorosissima sugli esercizi pubblici. Non è un caso se gli storici fanno iniziare da questa data la trasformazione del governo mussoliniano in vero e proprio regime.

Si avvia, dunque, la fascistizzazione del paese: dal 1925 al 1929 lo sforzo prioritario di Mussolini fu di annientare qualsiasi ostacolo si frapponesse alla realizzazione del suo disegno egemonico: il capo del governo fu reso responsabile solo di fronte al re e non più al Parlamento che venne progressivamente svuotato di ogni reale potere; furono messi fuori legge tutti i partiti eccetto quello fascista; chiusi tutti i giornali che non fossero allineati; reintrodotta la pena di morte per reati contro lo Stato e i suoi rappresentanti, abolita nel 1889 dal codice Zanardelli; istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato; introdotto il confino di polizia per gli oppositori; creata l’OVRA per controllare e reprimere il dissenso. Non si salvò neppure la monarchia, che Mussolini cercò di privare delle sue prerogative per assicurare tutto il potere al fascismo.

Nel 1927, infatti, altra data storica, secondo De Felice[3], con una circolare del 5 gennaio, i prefetti, da rappresentanti super partes dello Stato, diventano rappresentanti del regime e chiamati non più a distinguere tra onesti e disonesti, ma tra cittadini fascisti e cittadini antifascisti.


Altri due momenti peculiari sono la legge del 9 dicembre 1928, sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran Consiglio e quella, sul finire del 1929, sullo statuto del partito stesso. Di fatto il Gran Consiglio è l’organo supremo del regime, presieduto e convocato a discrezione del capo del Governo, e con poteri enormi.

Tra le sue attribuzioni c’era anche il diritto di essere consultato sulle proposte di legge circa la successione al trono, i poteri e le prerogative del Re nonché di indicare i nomi da presentargli per la nomina del capo del governo: anche di fronte a queste ingerenze, un vero e proprio colpo di mano, però, il sovrano non batté ciglio, almeno formalmente.

Che ci fosse un attrito tra Mussolini e Vittorio Emanuele III (cosa verissima dopo il 1928, come riconosciuto nel 1944 dallo stesso Mussolini) fu smentito, però, scrive De Felice, in questa fase, dallo stesso capo del governo in un discorso del 15 novembre del ’28 in cui, per spegnere i rumors delle opposizioni, ricordò anche come il re avesse acceso una lampada votiva a Bologna, in memoria delle camicie nere cadute per il fascismo.[4]

La spregiudicatezza di Mussolini si riattivò nel dicembre del 1929, quando modificò anche lo statuto del partito e negò al Gran Consiglio la definizione di organo supremo del partito, sottraendogli la nomina delle alte gerarchie per avocarla a sé.

Queste disposizioni andavano ad aggiungersi allo sbloccamento della Confederazione dei sindacati fascisti e alla riforma della rappresentanza politica del maggio 1928 che delegava al Gran Consiglio la scelta dei candidati. Con questo atto, che prevedeva che l’elettore potesse soltanto approvare o respingere la lista dei candidati espressi dall’organo del fascismo, secondo Giolitti, che lo denunciò in aula, si completava il distacco del fascismo dal regime retto dallo Statuto albertino.

Nel rispondere alle critiche, Mussolini chiamò in causa finanche un articolo dei Diritti dell’uomo del 1789: “Tutte le costituzioni sono rivedibili, perché nessuna generazione ha il diritto di assoggettare alle sue leggi le generazioni che seguiranno”.[5] Il colpo di mannaia sull’attualità dello Statuto albertino non poteva essere più drammatico.

In questo disegno di fascistizzazione totale e d’invasione in ogni sfera della vita dello Stato s’inserisce il tentativo di asservire gli ingegni più alti e prestigiosi della sua classe dirigente intellettuale. Dopo aver irreggimentato ogni settore dell’educazione e dell’istruzione, in un percorso che decideva della fedeltà al regime fin dalla nascita, anzi, con la campagna demografica, fin dal concepimento, all’età adulta, e dopo quella riforma gentiliana del 1923, definita la più fascista delle riforme, si aprì la strada per colpire la libertà d’insegnamento e portare a compimento il tentativo di annientamento di qualsiasi voce dissonante nel paese.

Al fascismo non bastava più piegare i corpi: voleva anche le anime. I docenti erano chiamati a essere non solo coinvolti ma compromessi col regime. L’identificazione tra Stato e fascismo doveva essere totale e riguardare tutti, soprattutto la parte più colta e critica dell’Italia: solo così, nell’asservimento delle sue intelligenze, quelle che sole avrebbero potuto denunciare la brutalità e la volgarità di un sistema antidemocratico, violento e liberticida, si sarebbe ottenuta la resa delle coscienze. Di tutte le coscienze, in particolare di quelle deputate, per natura e statuto, a essere autonome e a chiamare alla libertà le altre più passive, ignave, timorose, indifferenti.

Quello dei professori universitari non fu un semplice giuramento alle istituzioni, ma a un regime politico, a un’ideologia. Ecco perché alcuni non giurarono. Ed ecco perché la richiesta fu un’ignominia evidente a tutti, tanto che ci fu chi, come Einstein, arrivò a scrivere ad Alfredo Rocco di “consigliare al signor Mussolini di risparmiare questa umiliazione al fior fiore dell’intelligenza italiana”. Non gli rispose il ministro, ma un suo collaboratore che lo “rassicurò”: se su più di milleduecento professori ordinari solo sette o otto avevano sollevato un’obiezione, evidentemente la situazione non era grave.[6]

Il giuramento di un numero così elevato di professori fu, dunque, una vittoria indiscutibile che avrebbe accresciuto il prestigio del regime sullo scacchiere internazionale ma pesato, per il presente e per il futuro, sull’indipendenza della scuola e della cultura italiana. E infatti fu abilmente utilizzato dalla propaganda per dimostrare che il consenso era altissimo: “Undici su milleduecentoventicinque. Fa ridere!”, scrisse Il Popolo toscano e “Sublimato all’un per mille”, titolò sprezzantemente un altro giornale di fede fascista.  Tutti erano pronti a servire il regime: il numero sproporzionato di giuranti avrebbe dovuto dimostrare esattamente questo.

Scontata sarebbe stata la vulgata con la generalizzata riprovazione sociale del tempo contro la presa di posizione di quei pochi che resistettero alle lusinghe e alle intimidazioni del potere fascista; d’altronde laddove il sistema deve stigmatizzare scelte etiche forti, il silenzio, la derisione, la delegittimazione rientrano nelle risposte più ordinarie e tipiche e l’oblio la norma per il futuro, come dimostrarono le voci conformiste della stampa dell’epoca.

Come mai così pochi quelli che rifiutarono? Le ragioni e posizioni furono diverse.
Togliatti e Croce invitarono i docenti a giurare per continuare dalla cattedra universitaria a diffondere idee liberali e non lasciare la cultura in mano ai fascisti, cosa che fecero, obtorto collo, Concetto Marchesi, Piero Calamandrei, Luigi Einaudi, Giuseppe Levi. Altri giurarono per motivi economici, per opportunismo, per fede, perché non si sentivano toccati nel loro insegnamento.

Solo dodici, in ogni caso, secondo la già menzionata relazione del Ministro dell’Educazione nazionale, Balbino Giuliano, presentata al Consiglio dei ministri, il 19 dicembre 1932, lo fecero.

Alla metà degli anni Sessanta, a favore della piccola schiera d’irriducibili, ci fu chi diede battaglia, proponendo che i loro nomi fossero scolpiti sui muri delle università italiane. Si chiamava Ignazio Silone.[7] Anche un paio di anni fa, Pierluigi Battista chiese alla sindaca Raggi di intitolare loro una strada, una piazza, un largo.

Si è sentito forte, dunque, da parte di qualche intellettuale il bisogno di rivendicare l’audacia di professori i cui nomi sono stati a lungo sepolti e che non vengono ricordati spesso, come invece si dovrebbe. Perché l’oblio? Forse perché, al di là di tante sottili spiegazioni e usando quel rasoio di Occam spietato ma indispensabile, nel celebrare il coraggio di pochi si sarebbero evidenziati la codardia, l’opportunismo o la pavidità di tanti.

Che cosa rimane oggi di quel coraggio? Di quella rinuncia? La risposta, a mio avviso, è nelle parole di Nicola Chiaromonte: “Quando giunge l’ora in cui la morte – scriverà – comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distogliere lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per prima ci si articola nella mente è: Che cosa rimane?…Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati ‘belli’, direbbe Plotino…Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male è male, e non si può fare che sia diversamente (e non si deve fare che appaia diversamente)”.[8]

Ripercorrere le vicende dei dodici professori sarebbe impossibile in quello che è una breve sintesi della vicenda; valga per tutte, tra tante, l’annotazione contenuta nel diario segreto di Gaetano De Sanctis. Quando Balbino Giuliano, Ministro dell’istruzione, cercò di convincerlo a giurare, egli rispose che il suo atto non voleva avere alcun significato politico ma era solo l’ossequio a quell’imperativo categorico del dovere che era stato norma costante di vita.

“Vi sono giorni in cui viene meno ogni speranza terrena. Sembra che il dolore fisico ci opprima. Sembra che la vita, nel dolore, si dissolva. E frattanto intorno a noi si fa o a noi sembra si faccia il deserto. L’odio, l’invidia, la calunnia ci straziano a gara. Gli amici sono lontani. Forse ci hanno dimenticato. Forse ci hanno tradito. Tutto crolla. Il domani non è che tenebra. Pare che si sfascino gli organi dei sensi e lo spirito si sente chiuso in un carcere tetro. Ma c’è pure nella resistenza indomita che oppone al dolore e al male, nello sforzo d’accettare la volontà divina, non col porgersi ad esso passivo, ma attuandola in qualche modo in sé, ma identificandosi in qualche modo, attivamente, con essa, c’è una gioia intima e violenta e turbinosa. E la nostra notte s’illumina di divini bagliori”.[9]

Anche quella di questi dodici e più professori fu Resistenza, una resistenza combattuta con le armi della libertà intellettuale e senza spargimento di sangue. Una delle tante forme di Resistenza che restituì all’Italia la dignità che il regime fascista aveva cercato di annichilire e che ci fu necessaria quando, nel ricostruire l’identità di un popolo che si era concesso a un dittatore, si dovettero rintracciare gli esempi di chi vi si era opposto.

Nota dell’autrice: Il presente contributo riprende, in forma sintetica, i contenuti di un intervento tenuto il 23 maggio 2020 per il terzo ciclo dei seminari dell’Anpi di Benevento in corso di pubblicazione nel primo semestre del 2022.

FOTO: L’inaugurazione della nuova sede dell’Università di Roma presieduta dal Capo di Governo Benito Mussolini, ripreso insieme con un gruppo di gerarchi. Durante la cerimonia è stata conferita al Re d’Italia la Laurea ad onorem. 3 novembre 1935. Fondo Giordani – Copyright L’OSSERVATORE ROMAN

[1] Norberto Bobbio, Italia civile. Ritratti e testimonianze. Passigli, Firenze 1986, pp. 439-40

[2] Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, pp. 37-38

[3] Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, pp. 41-45

[4] Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, 2002 Arnoldo Mondadori, Milano, pag. 44

[5] Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, 2002 Arnoldo Mondadori, Milano, pag. 46

[6] Sandra Linguerri, Raffaella Simili, Einstein parla italiano: itinerari e polemiche, Edizioni Pendragon, 2008, pp. 38, 39

[7] http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/antifascismo5.html

[8] Nicola Chiaramonte, Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971, a cura di Miriam Chiaromonte, il Mulino, Bologna 1992, pp. 8-9

 

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