Roland Barthes e il Neutro [di Gianfranco Marrone]

https://www.doppiozero.com/Finalmente è arrivato anche nel nostro Paese il volume che raccoglie il corso universitario sul concetto di Neutro tenuto da Roland Barthes al Collège de France nei primi mesi del 1978. Dopo molti anni di mitologie e passaparola, plateali sotterfugi e pubblicazioni semiclandestine, ricorsi in tribunale e condanne pecuniarie, la trascrizione di quelle leggendarie lezioni aveva visto la luce in Francia soltanto nel 2002, presso Seuil, per la rigorosissima cura di Thomas Clerc.

Un testo decisivo, preziosissimo, raffinato, esito del filologico incrocio fra gli appunti stilati da Barthes ogni settimana, in vista delle due ore di insegnamento ogni sabato mattina, e la trascrizione delle registrazioni dell’intero corso miracolosamente ritrovate in un armadio della prestigiosa accademia di rue des Ecoles. Ed ecco appunto – era ora – la traduzione italiana del libro per opera di Augusto Ponzio, studioso che Barthes conosce assai bene, accompagnata da una sua lunga introduzione teorica che ripensa il noto scrittore/scrivente in funzione di autori come Bataille, Levinas, Derrida Blanchot e diversi altri (Il Neutro. Corso al Collège de France 1977-1978, Mimesis, pp. 364, € 24).

Che cos’è il neutro? Si tratta di una specie di ossessione di Barthes che torna per ondate successive nella sua opera, dall’esordio con il Grado zero della scrittura (1953) agli scritti postumi contenuti in Incidenti (1986), passando per l’Impero dei segni (1970), Il piacere del testo (1973), La camera chiara (1980) e moltissimi altri scritti dove si discutono nozioni come il senso ottuso, la fadeur cinese, il languore amoroso, la testualità e così via.

Lo spunto per questa prolungata riflessione intorno a un fenomeno al tempo stesso delicato ed energico, sfuggente e dispotico (l’impero del ‘né-né’ ma per altri versi anche del ‘sia-sia’) proviene da quella linguistica strutturale che, sulla scorta di Saussure, delle scuole di Praga e di Copenaghen, come dire di Jakobson, Hjelmslev e loro seguaci, aveva molto riflettuto – al di là del neutro come genere grammaticale – sulla cosiddetta neutralizzazione, operazione tutta interna alle dinamiche della lingua che mira all’annullamento delle differenze, alla cancellazione delle opposizioni pertinenti, siano esse fonetiche o morfologiche, sintattiche o semantiche.

Così per esempio l’opposizione sonora l/r, pertinente in francese (“je lis” e “je ris” significano cose molto diverse) non è presente in giapponese, dove i due fonemi possono essere usati indifferentemente senza produrre alcuna differenza di senso. Allo stesso modo in italiano distinguiamo fra due tipi di e (aperta o chiusa) ma, scendendo per la Penisola, la differenza si perde completamente. A livello semantico, analogamente, l’opposizione bianco/nero viene neutralizzata in tutta una serie di termini intermedi (bigio, bruno etc.), così come una parola come tiepido neutralizza l’opposizione freddo/caldo.

Da una parte, dunque, l’esistenza di un paradigma, di un sistema di opposizioni, di un dissidio, senza il quale non si dà senso, perciò linguaggio. Dall’altra è la lingua stessa a offrire, grazie al meccanismo della neutralizzazione, il superamento del conflitto, e dunque una specie di terza possibilità. “Definisco il Neutro – scrive/dice Barthes – come ciò che elude il paradigma […]. il paradigma è la molla del senso; là dove c’è senso, c’è paradigma, e là dove c’è paradigma (opposizione) c’è senso à detto in maniera ellittica: il senso riposa sul conflitto (la preferenza d’un termine contro un altro) e ogni conflitto è generatore di senso: scegliere l’uno e respingere l’altro, significa sempre votarsi al senso, produrre senso, darlo da consumare”.

Ma questo binarismo, questa specie di imposizione a scegliere fra due soli termini (A oppure B) viene talvolta accantonata nei sistemi linguistici attraverso, ricorda Barthes, il ricorso a un terzo termine fortemente ambiguo, o meglio ambivalente, dato che tende a presentarsi ora sotto forma di termine complesso (A + B) ora come termine neutro (né A né B). Se dico ‘ermafrodita’ sto ipotizzando un’entità complessa che sintetizza ‘maschio’ e ‘femmina’; se dico ‘angelo’ parlo invece di qualcuno che non è né ‘maschio’ né ‘femmina’. Ma quanti ermafroditi tendono a presentarsi come angeli, quanti asessuati si spacciano per bisex? Chi ha (ri)visto Sanremo coglie subito il problema.

Così, il neutro è insieme un’intimazione e una defezione, un’obbligazione elusa, una costrizione data e cancellata nello stesso tempo. L’insegnamento è chiaro: senza regole nessuna trasgressione; ma anche: senza libertà, nessun ordine possibile. Un monito che le lingue, per definizione arbitrarie ma non per questo meno gravide di imperativi e consigli, indicazioni metodologiche e suggerimenti esistenziali, forniscono in generale alla società, alle forme del mondo comune e alla loro complessa gestione (non a caso, il corso dell’anno successivo, mai tradotto da noi, sarà dedicato da Barthes al ‘vivere insieme’).

Leggiamo ancora: “trasponendo sul piano ‘etico’: ingiunzioni del mondo a ‘scegliere’, a produrre senso, a entrare nel conflitto, a ‘prendere le proprie responsabilità’, ecc. à tentazione di levare, di eludere, di schivare il paradigma, le sue ingiunzioni, le sue arroganze à esentare il senso à questo campo polimorfo dello scarto che permette di schivare il paradigma, il conflitto = il Neutro”.

Il programma di ricerca è così circoscritto: “Ci prenderemo il diritto di parlare di ogni stato, di ogni condotta, di ogni affetto, di ogni discorso (senza spirito e nemmeno possibilità d’esaustività) che riguarda il conflitto, o la sua rimozione, la sua sottrazione, la sua sospensione”. E l’idea di fondo è chiara: “Del Neutro do una definizione che resta strutturale. Con questo voglio dire che, per me, il Neutro non rinvia a ‘impressioni’ di grigiore, di ‘neutralità’, d’indifferenza. Il Neutro – il mio Neutro – può rinviare a stati intensi, forti, inauditi. ‘Eludere il paradigma’ è un’attività ardente, che brucia”.

Motivo per cui Barthes propone, lungo tutte le sue fittissime lezioni, una serie di possibili metaforizzazioni di quello che, in senso stretto, è un effetto linguistico, sciorinando una gran quantità di spostamenti possibili dal campo della struttura linguistica a quello della socialità e della cultura, ma anche, e forse soprattutto, a quello del desiderio che indirizza e al tempo stesso sconvolge le soggettività individuali e collettive.

Se la neutralizzazione non è indifferenza, insignificanza, banalità ma produzione di senso, invenzione, arricchimento, si capisce perché non c’è neutro senza una qualche aspirazione verso di esso: “Resta da affrontare la verità del corso: il desiderio che è alla sua origine e che mette in scena. Il corso esiste perché vi è un desiderio di Neutro: un pathos (una patho-logia?). […] La descrizione topica, esaustiva, finale di questo desiderio di Neutro non mi appartiene, è il mio enigma, ovvero quanto di me può essere visto soltanto dagli altri. Posso soltanto indovinare, nella boscaglia di me stesso, l’antro in cui esso si apre e si approfondisce”.

Desiderare il neutro diviene un’operazione a due fasi che, se pure tendono a confondersi, occorre tenere distinte. Innanzitutto, scrive Barthes, è voglia di sospendere gli ordini, le leggi ad hoc, l’arroganza dei poteri e dei terrorismi. Ma ciò non basta, perché, si ripete spesso nel corso del libro, emerge un secondo ordine del desiderio: quello che rifiuta il discorso di pura contestazione, che scorge dietro il primo desiderio l’instaurazione di una nuova forma di potere narcisistico, non avendo paura, dissolvendo la propria stessa immagine, di tornare a un paradigma adesso privo d’ogni intimidazione.

Il gioco del neutro è infinito, e in questa continua tensione fra opposizioni e loro superamento, istanze libertarie e loro depotenziamento si produce una gran quantità di figure possibili, un’ampia e variegata configurazione di situazioni, intellezioni, passioni, narrazioni, affezioni del corpo e dell’anima. Ecco un florilegio ricchissimo di occasioni di senso – che costituisce il corpo del volume – la cui enumerazione può dare l’idea di una ricerca al tempo stesso rigorosa ed esistenziale, erratica e ostinata: delicatezza, silenzio, fatica, benevolenza, colore, aggettivo, sonno, affermazione, debolezza, ritegno, coscienza, risposta, rito, oscillazione, intensità, arroganza, kairós, androgino, spavento…

A essere convocati in questa ricerca costitutivamente non sistematica, costituendo una straordinaria rete di citazioni incrociate, sono autori molto diversi: dagli amati Michelet e Pascal, Blanchot e Baudelaire, fino a Benjamin, Bachelard e Freud, Vico e Hegel, passando per i mistici (Meister Eckhart, Boehme, Swedenbord) e soprattutto dai classici (Aristotele, Dionigi Aeropagita, i sofisti e gli scettici, Diogene il cinico, Marziale) e dal pensiero orientale, dal Tao allo Zen.

Si prenda il silenzio, questione gigantesca che Barthes controlla assai bene, tema esemplificativo un po’ di tutto il libro. Innanzitutto, va ricordato che il latino distingueva due forme del silenzio: sileo (che è la tranquillità, l’assenza di movimento, l’essere silente delle cose naturali ma anche dei morti e della divinità) e taceo (che è l’assenza di parola, la mancanza di verbalizzazione). Dio non tace, piuttosto è silente, e grazie a questa sua sorta di imperturbabilità produce, per contraccolpo, il rumore del mondo e quella sua forma di suprema organizzazione che è il linguaggio.

Il silenzio presente, poi, nelle lingue romanze perde però questa differenza a tutto vantaggio di taceo, che diviene così l’emblema d’ogni silenzio. Nasce il diritto alla parola e, per contrasto, il diritto al silenzio: c’è chi rivendica la necessità del discorso (la cristianità e il gesuitismo in particolare pensano il sacro in funzione del linguaggio) e chi, per opposizione a questo regime del dire a tutti i costi, rivendica la possibilità di eludere la parola, di schivarla appunto tacendo. L’arte del tacere ha funzione politica, strategica, di modo che star zitti è sotto sotto dissimulare la propria essenza, agire senza clamore.

Il problema è che, commenta Barthes, le cose non finiscono qui, dato che, se pure il silenzio contrasta ogni forma di franchezza (“la franchezza è una porta spalancata verso la stupidità”), esso stesso finisce per diventare segno di se stesso, per dire senza parlare, per significare tacendo. Ritornando al punto di partenza. Il silenzio è allora imperioso tanto quanto il linguaggio, si fa significante di significati pieni, come quando, per esempio, sta lì a funzionare come richiesta d’azione altrui: taccio per chiedere, e, proprio perché sto in silenzio, questa mia richiesta diviene ineludibile.

Dalle strategie atte a eludere la parola si passa così a quelle che mirano a eludere il silenzio, a scansarlo, evitarlo come un morbo malefico. Cosa tutt’altro che evidente. Lo sapeva bene Pirrone lo scettico, il cui obiettivo era quello di riuscire a neutralizzare la differenza fra parola e silenzio: le sue perplessità circa ogni forma di conoscenza sedicente obiettiva passavano dal rendere neutro il linguaggio o, analogamente, dal far parlare il silenzio, rendendoli formalmente identici. Dunque, inoffensivi. E a chi gliene chiedeva conto replicava beffardo: “forse che sì, forse che no, che cambia?”. Eludere le risposte era per lui magnificare il neutro: essere silente senza per questo tacere.

 

Lascia un commento