Le Idi di marzo, nel calendario di una città, si rincorrono nel tempo [di Maria Antonietta Mongiu]
L’Unione Sarda 24 marzo 2022. La città in Pillole. Ci sono date che attraversano le epoche come metafore. Se sostituite da diciture icastiche, impressionano perché assumono latenze oscure e minacciose. Per rimanere ai modi in cui, a Roma, si definivano i giorni, fausti o infausti, sembrano abitare, irreversibilmente, traiettorie negative. Su tutte le Idi di marzo. Quel giorno fu ucciso Giulio Cesare. Andò in Senato, il 15 marzo del 44 e fu pugnalato a morte da un gruppo di intimi. Quante altre volte sia accaduto lo racconta la storia. Ma quella volta fu tutt’altra storia, per le implicazioni politiche e culturali. Niente fu come prima. Di là a poco, si assiste all’ascesa di Ottaviano/Augusto, che avrebbe cambiato le forme e le pratiche della politica e della res publica. Ma quanto le Idi di marzo del 44 a.C. abbiano inciso nell’immaginario, lo dice, per tutto, l’orazione di Antonio, inventata da Shakespeare nel Giulio Cesare. Fotografa luci e ombre di ogni potere e le contraddizioni del circo magico di qualsiasi autocrate. Come dimenticare l’esordio? Neanche Cicerone avrebbe potuto essere più incisivo “Amici, romani, concittadini, prestatemi orecchio. Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo”. Da allora ogni illustre morte violenta sarebbe stata accompagnata dalla retorica che, negando, afferma. Lunga la lista di congiure e di elogia in cui si interpella questo copione. Le Idi di marzo, nel calendario di Roma, erano, semplicemente, il 15 del mese. Il conteggio dei giorni avveniva con periodizzazioni. Si chiamavano Calende il primo del mese e None il 5 e il 7, a seconda del numero dei giorni del mese; così pure le Idi potevano essere il 13, per lo stesso criterio. Nessuna come quelle di quel marzo abitava le nostre vite, fino al 16 marzo del 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro. Rimosso ormai, perché la memoria “come altre assuefazioni materiali” è indipendente da ogni volontà, per dirla con G. Leopardi. In chi scrive agisce una memoria involontaria, personale quanto pubblica. Due giorni prima, il 14 marzo 1978, con altri ragazzi, scoprimmo in viale Trieste una statua di Dionysos, il primo di tanti marmi figurati di quello scavo (di cui solo questa esposta nel Museo archeologico nazionale di Cagliari). Quella statua vide l’apocalisse e quindi anche la rinascita. Venne risemantizzata in un Cristo adolescente che convisse con Vandali, Bizantini, e, persino, con gli Arabi. Non resistette alla faida tra iconoclastia ed iconodulia, che insanguinò Karali nel IX sec. Ricomparve un 14 marzo, insieme ad una delle peggiori Idi di marzo della storia repubblicana. Forse per consolarci. Allora e oggi.
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