Il rischio peggiore nel discutere di Autonomia è di passare in modo disinvolto e repentino dal terreno della semantica e della filosofia a quello della vicenda politica e dell’esperienza storica. Personalmente non sono interessato, se non per esercizio intellettuale, ad occuparmi dell’Autonomia come categoria astratta ma a discuterne come evento che storicamente si è manifestato e che ha prodotto i suoi effetti. Qualche numero in questi casi aiuta. Fra il 1961e il 1970, il primo periodo del Piano di Rinascita, il PIL pro-capite dei sardi è passato da 220 mila a 643 mila lire, con un aumento del 192%. Il PIL è un parametro rozzo, che non esprime tutte le complessità dello stato di una popolazione. Ma è rozzo per tutti e si presta quindi a confronti temporali e spaziali. Lo stesso parametro è passato nello stesso periodo dal 69% al 75% del dato medio nazionale.
Tutto ciò significa che la Sardegna ha mantenuto l’aggancio con le condizioni economico sociali dell’Italia, che nel frattempo diventava uno dei paesi più ricchi del mondo. Si può ricorrere anche a immagini meno precise e più letterarie per la Sardegna degli anni cinquanta, che alcuni di noi ricordano bene. Quanti erano i paesi senza impianti fognari, sena acqua corrente, senza rete di energia elettrica, senza scuole medie, senza una biblioteca e con un ambiente a dir poco degradato? Senza dimenticare l’emigrazione verso l’Italia settentrionale e verso altri paesi europei. L’Autonomia è servita a superare questa situazione, a mettere la Sardegna in condizioni di contrattare, rivendicare e operare interventi per un mutamento radicale delle condizioni economico-sociali dei suoi abitanti.
Perciò ha ragione Pietrino Soddu quando afferma che è sbagliato parlare di un generale fallimento dell’Autonomia. Anche se c’è un senso in cui l’obiettivo non è stato affatto raggiunto: quello, definito dal Piani di Rinascita, di realizzare una situazione economico-sociale paragonabile a quella delle Regioni più sviluppate dell’Italia e quindi dell’Europa. Quando si fa un bilancio dei risultati bisogna quindi affinare l’analisi e articolare i giudizi. Tutto merito o tutta colpa dell’Autonomia? In gran parte sì. Dal 1948 in poi l’Autonomia ha consentito alla Sardegna di fare un balzo in avanti che non aveva mai fatto nella sua storia, nonostante i tentativi ricorrenti in altri secoli, quelli sì falliti. Per la buona ragione che l’Autonomia era il risultato della democrazia repubblicana dell’Italia, la cui Costituzione dice all’articolo 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Non c’è scritto “in qualunque regione siano nati” ma il senso è quello.
Senza ombre l’Autonomia? Certamente no. Lo Statuto del 1948 ha un peccato originale: essere nato da una concessione dello Stato italiano, per la buona ragione che l’Italia nel 1948 era rappresentata da un organo democratico, la Costituente, mentre la Sardegna, per forza di cose, era rappresentata da una Consulta nominata dai partiti. Questa condizione legittimava la Costituente a decidere in ultima istanza sulla proposta di Statuto della Consulta regionale, a introdurre modifiche rilevanti sulla testa del popolo sardo: un bilateralismo imperfetto. Questo peccato originale ha informato di sé tutti i rapporti fra la Regione e lo Stato. Quest’ultimo può, in linea teorica ma è anche affettivamente accaduto, modificare lo Statuto sardo e varare leggi sulla Sardegna, come decisore in ultima istanza, a prescindere e perfino contro il parere dell’assemblea rappresentativa dei sardi.
Per mettere fine a questa situazione, le rivendicazioni indipendentiste, perfettamente legittime e comprensibili, hanno il torto di agitare formule e bandiere, e nel frattempo si prende quello che passa il convento, lasciando energie, iniziative e progetti a marcire fra i sogni non realizzati. Tra aspirazioni indipendentiste, enunciazioni sovraniste e pratiche centraliste, sono decenni che si parla di scrivere un nuovo Statuto e non se ne fa nulla. E’ una colpa che hanno/abbiamo tutti: autonomisti, sovranisti, federalisti, indipendentisti. Proprio quando la Sardegna, essendo democraticamente rappresentata da un’assemblea elettiva, potrebbe avanzare l’idea e la pratica di un bilateralismo perfetto.
E’ necessario partire pragmaticamente dalla constatazione che rinunce alla sovranità, sostanziali e formali, sono indispensabili e benefiche: verso l’Europa, cui ci legano non le tragedie di millenni e le politiche contingenti di oggi ma la pace degli ultimi 70 anni; verso l’Italia, cui ci legano non le passate esperienze autoritarie e le criticità di oggi ma 70 anni di storia democratica; verso istituzioni internazionali di vario genere. Il problema è che rinunce e limiti alla sovranità non devono essere atti di sovranità o di imperio da parte di altri verso di noi, ma il frutto di scelte consapevoli e condivise in condizioni di parità fra i sardi e i loro interlocutori.
Insomma, nessuno deve decidere contro di noi, nessuno deve decidere senza di noi, ma qualcuno può decidere con noi.
|