Una al posto di tutte non è libertà: è patriarcato [di Daniela Brogi]
https://www.doppiozero.com 6 Settembre 2022. Lo spazio delle donne non è mai quello dentro il quale arriva a conquistare il centro una donna che si erge a portavoce appassionata di tutti i valori patriarcali. Dire «Io sono», invece che «Noi siamo», è come dire “Io sono Io”. Si alimenta un culto e un racconto della propria individualità singolare che basta a sé stessa, restaurando e riaffermando il fascio di valori e categorie del sovranismo assoluto. Un conto è l’emancipazione, un conto la libertà. Se Giorgia Meloni ha raggiunto un’alta emancipazione personale, politica e simbolica, candidandosi a Premier senza chiedere il permesso a nessuno, non è solo grazie al proprio lavoro e al proprio talento: è stato anche grazie alle battaglie e ai diritti conquistati dal Femminismo, la rivoluzione culturale più importante del Novecento. Ma sul piano della libertà in quanto obiettivo politico e situazione plurale di affrancamento dai pilastri del dominio maschile, l’agire politico di Meloni, la sua autonarrazione e la sua vicenda di affratellamento al patriarcato più conservatore e violento, non hanno spostato né sposteranno nulla, anzi. Senza dimenticare questi passaggi, vorrei tuttavia concentrarmi, qui, sull’offesa alla “gente di nessuno”, come l’avrebbe chiamata Manzoni, compiuta da Giorgia Meloni e dal suo gruppo. Quello stesso popolo a cui ci si rivolge di continuo è infatti il più cancellato e ignorato: tanto nella sua storia quanto nei suoi bisogni reali e presenti, compresa la necessità di un immaginario interculturale capace di gestire quello che l’Italia è realmente: una società multiculturale. Non è vero, lo sappiamo bene, che gli italiani possano essere definiti solo come un popolo di brava gente: lo hanno spiegato bene, nel caso del colonialismo, gli studi di Angelo del Boca, e ce lo ricorda anche uno dei romanzi più belli e importanti – anche se poco letti – usciti nel nuovo secolo, vale a dire Il Re Ombra, di Maaza Mengiste. Un libro di cui si è parlato molto, troppo poco ancora, ma che invece resterà uno dei punti di riferimento inaggirabili di chi intende occuparsi seriamente di letteratura. Nel Re Ombra la Guerra di Etiopia è riraccontata incrociando le vicende e gli sguardi di tre donne etiopi durante un’invasione che fu tutto tranne che un capitolo eroico della storia d’Italia. Nondimeno, vivere la contemporaneità significa e significherà sempre di più anche stare dentro le contraddizioni, uscire dai manicheismi trancianti. E così, nel male e nel bene, come le storie di famiglia di ognuna o ognuno di noi, l’Italia è un paese pieno di vicende invisibili di solidarietà e onestà importanti che non vanno lasciate perdere: sono storie coraggiose, belle, fatte da poveracci, in tanti casi da donne, da morti di fame, da operaie e operai, ma anche da piccolo-borghesi e persino da dirigenti d’impresa illuminate/i. Con mille contraddizioni, tutte queste tradizioni formano le identità e le memorie di un popolo come quello italiano, così abitato dalla diversità e dalle differenze. Ed ecco che, reinventate dalle destre, tutte queste vicende sono cancellate, perché il popolo diventa la massa informe a cui rivolgersi solo urlando, ostentando ignoranza, volgarità, sessismo. Le italiane e gli italiani, se guardiamo le loro (le nostre) vite, sono un popolo impoverito e infragilito, ma che resta decisamente migliore di chi si candida strepitando a rappresentarlo, rivolgendosi soltanto al suo aspetto bestiale. Parlando in maniera estremamente semplificata di Dio, Patria, Nazione e famiglia, o addirittura di diritti delle donne, cercando in tutti i modi di appropriarsi dell’uso e del significato di questi termini, costruendo gerarchie fanatiche, Giorgia Meloni usa parole e valori di grande importanza e dignità svuotandoli dall’interno, facendoli implodere. Li trasforma in armi contro le donne, feticci con cui impedire di essere persone e non soltanto madri, per esempio, o di avere un’assistenza medica dignitosa in caso di aborto. Impedisce (non solo alle donne) di avere relazioni sentimentali non eteronormate. Chiede di essere razzisti nei posti di lavoro e di studio, di odiare le proprie compagne di banco perché sono immigrate, di trattare i propri badanti come nemici e di farsi odiare da loro. Chiede di desiderare un mondo che è tremendo, prima di tutto per chi crede, in maniera seria, nel senso della famiglia, della patria, di un Dio. Chi è ricco si salverà, chi non lo è dovrà arrangiarsi, impoverirsi anche di più, e alla verifica concreta non sarà di alcun aiuto il mito della Grande Madre Inferocita che racconta di voler sfamare il popolo. Non sono poche le responsabilità della classe dirigente di centrosinistra rispetto a questo vuoto. Un’abile politica della destra postfascista ha capito quanto possa tornarle utile urlare che sarà la Prima donna Premier, infilandosi del tutto strumentalmente in una genealogia della conquista dei diritti politici delle donne. Una conquista che in Italia ha cominciato a realizzarsi concretamente quando le donne poterono votare la prima volta: nel 1946, proprio dopo la caduta del regime a cui Meloni e il suo partito postfascista continuano a richiamarsi. Ecco perché parlavo di offesa, di dignità tradita; ecco perché ho usato parole e toni che, se possibile, intendono rivolgersi non a chi è già d’accordo, ma a chi silenziosamente sta pensando di votare il partito di Giorgia Meloni, raccontandosi di fare qualcosa anche per la causa delle donne. E vorrei riuscire a parlare anche al maschilismo indifferente e benpensante, ancora così diffuso, che continua a credere che i diritti delle donne siano una questione civile, anziché politica. Nessuno è incolpevole: più ci reimpossesseremo di un concetto di cittadinanza come pratica anche culturale, oltre che politica, più toglieremo autorevolezza a chi offende la storia e i diritti delle moltitudini, dunque la nostra storia. Immagine: Laura Berger
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