Andrea Kerbaker [di Ada Masoero]

https://www.ilgiornaledellarte.com/7 settembre 2022 Le due K del cognome, unite a un amabile sense of humour, sono le ragioni che hanno suggerito ad Andrea Kerbaker di porre sotto il segno della K le sue importanti iniziative culturali: la Kasa dei Libri a Milano e il Kapannone dei Libri ad Angera. Milanese di nascita (nel 1960), laureato in Lettere, scrittore ma, prima ancora, «motore di cultura», responsabile per 21 anni, sin da giovanissimo, del settore culturale di Pirelli e poi di Telecom e oggi docente di Istituzioni e Politiche Culturali all’Università Cattolica di Milano, Kerbaker è un bibliofilo impenitente sin dai suoi 17 anni.

Perciò nel 2012 ha fondato la Kasa dei Libri, uno spazio di cultura diffuso in tre appartamenti di un palazzo anni Quaranta in Largo Aldo De Benedetti 4, all’ombra della torre dove ha sede la Regione Lombardia. Non un museo, né un luogo espositivo, benché vi si tengano regolarmente delle mostre, e nemmeno (propriamente) una biblioteca, sebbene possa contare su un patrimonio di 30mila volumi, frutto delle scorribande nei mercatini, nelle fiere, nel web, del «padrone di Kasa» (come ama definirsi), con i quali Kerbaker costruisce un programma culturale di mostre, incontri, dibattiti che, per la loro qualità e originalità, richiamano da sempre un pubblico folto e attento.

Prima curiosità: come ha potuto essere un «uomo d’azienda», con una creatività così fuori dagli schemi?
L’ingegner Pirelli prima, poi Marco Tronchetti Provera, sapevano che io non ero un «uomo d’azienda», e non mi chiedevano di esserlo. Io mi sono laureato in Lettere e sono subito entrato alla Pirelli. Mi sono detto che avrei continuato finché mi fossi divertito. Quando ho visto che il gioco era interessante, ci sono rimasto per 21 anni.

Che cosa è rimasto degli anni vissuti in quelle realtà così attive nella cultura?
Come dicevo, entrai alla Pirelli a poco più di 25 anni. Ero un ragazzo, ma sin da allora incontravo figure come Vittorio Gregotti che, pur essendo già un «monumento», mi diede fiducia, o Vanni Scheiwiller, Guido Vergani, Emilio Tadini: tutti, diventati poi amici veri. Queste frequentazioni sono state il fondamento di ciò che avrei fatto in seguito, perché per formare un patrimonio librario importante occorre un buon fiuto ma è innanzitutto indispensabile una conoscenza capillare del mondo della cultura.

Infatti, finita quell’avventura, è iniziata quella, professionale, dei libri. Qual è stata la prima grande acquisizione?
Il fondo Musatti, monumentale. Lo acquistai nel 1989 per un milione e 200mila lire alla Fiera di Sinigaglia, il mercatino dell’usato sui Navigli: 27 scatole con libri di psicanalisi, psichiatria, cinema (come tutti gli psicanalisti, Cesare Musatti ne era appassionato), ma anche libri sulla storia personale della sua famiglia, ebraica.

Ed è lì che ho scoperto tra l’altro che, dopo le leggi razziali, Musatti era considerato «abbastanza ebreo» da non poter più avere la cattedra universitaria, ma non abbastanza per non poter essere insegnante di liceo. Fu padre Gemelli (padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Ndr) a trovare la soluzione, facendogli assegnare una cattedra al Parini. Il bello di questi fondi librari è che sono intrisi di vita: è come se io avessi conosciuto personalmente coloro che li hanno formati.

L’ultimo acquisto.
È la parte della biblioteca di Emilio Tadini che, dopo la sua scomparsa, è rimasta alla vedova. Ora è scomparsa anche lei e io li ho trovati alla fiera degli «Oh bej! Oh bej» (il mercatino natalizio di Milano, Ndr): ci sono libri importantissimi, perché Tadini era persona di grande cultura e leggeva molto, e poiché anche lui, come Emilio Isgrò, è stato prima un poeta, e solo dagli anni Sessanta un artista visivo, ci sono anche molte sue poesie, in gran parte inedite.

Le stanze della Kasa dei Libri hanno, ciascuna, una propria «vocazione». Ce le racconta?
Il vero cuore della collezione è la stanza dei libri dedicati. Qui ci sono, per esempio, i libri dedicati al grande critico letterario Giovanni Getto, fra i quali c’è la tesi di Umberto Eco, suo allievo all’Università di Torino. Ci sono poi quelli dedicati a Giorgio Soavi, a Piero Bigongiari, alla stilista Krizia, che nella sua sede milanese organizzò per anni cicli d’incontri con scrittori, e altri ancora. C’è poi la stanza delle prime edizioni di libri inglesi, americani, francesi, tedeschi. E di altre lingue che non parlo, ma che raccolgo.

In altri spazi ho visto libri riuniti per casa editrice.
Certamente: tra i miei prediletti ci sono i libri pubblicati da Vanni Scheiwiller, un amico caro, ma anche quelli della storica Skira ginevrina. Altre sale sono dedicate alle opere prime, altre alle edizioni numerate, mentre ad Angera, nel Kapannone dei Libri, sono conservati i libri d’arte, design, architettura e cinema. E in entrambe le sedi, aperte a studiosi e studenti per tesi e ricerche, pandemia permettendo si tengono incontri e lezioni per adulti e bambini, ai quali sono riservati giochi d’arte e di scrittura. Tutti gratuiti.

Appunto, i costi: qui tutto è gratuito. Ha delle sovvenzioni pubbliche?
No, ma abbiamo sostenitori generosi, da Fondazione Cariplo a Mediobanca, a UniCredit, oltre al Comune di Angera, perché i costi per il personale (le mie meravigliose collaboratrici!) sono ovviamente elevati: da noi non si fanno stage gratuiti. Ma l’attività è finanziata anche dal nostro lavoro per istituzioni per cui organizziamo iniziative culturali e letterarie. Desidero infatti che Kasa e Kapannone dei Libri possano contare su una propria sostenibilità economica.

Anche per gli acquisti ha potuto contare su sostenitori?
No, il patrimonio librario l’ho creato io: va detto però che riesco a trovare questi libri a cifre molto modeste. Forse perché i libri «vogliono» andare nelle case giuste: per così dire, si «fanno trovare».

Tornando ai cicli d’incontri, l’ultimo aveva un tema quanto meno singolare: «Da Joyce a Fantozzi».
La storia editoriale dell’Ulysses di Joyce è affascinante, perché parliamo di un libro praticamente illeggibile, opera di un autore britannico, edito per la prima volta nel 1922 a Parigi ma stampato a Digione da tipografi che non conoscevano l’inglese. Leonardo Sciascia, che lo amava molto, non si dava pace: c’erano 5mila errori.

Che poi si rincorsero nelle edizioni successive, fino a quando, nel 1932, non uscì l’edizione definitiva, di The Odyssey Press, che abbiamo qui. Quanto a Fantozzi, abbiamo le carte di Sergio Pautasso, il famoso editor di Rizzoli (e docente universitario e molto altro), grande amico di Paolo Villaggio, con cui, nel 1971, creò il primo libro di Fantozzi. Due vicende interessanti.

Nella Kasa dei Libri allestite delle mostre, gratuite anch’esse. L’ultima, nella scorsa primavera, era «Arte da sfogliare. Da Miró a Giacometti, i mille artisti di “Derrière le miroir”», dedicata alla rivista pubblicata dal 1946 al 1982 dalla Galleria Maeght di Parigi, i cui numeri monografici contenevano litografie originali (di Braque, Calder, Chagall, Giacometti, Kandinskij, Matisse, Miró e altri) e commenti di importanti scrittori. Quale sarà il tema della prossima?
La prossima mostra, dall’8 settembre al 23 ottobre, è sulle «Copertine di Munari». Presenta tutte le copertine, circa 400, che Bruno Munari (Milano, 1907-98, artista, designer e scrittore, Ndr) realizzò per libri non suoi in sessant’anni di lavoro, dal 1930 fino alla fine. Lavorò per Bompiani, per Einaudi, per Rizzoli, per Vanni Scheiwiller e per gli Editori Riuniti, per ognuno ideando una grafica diversa (talora diversa persino per i diversi filoni della stessa collana), poiché lui operava una distinzione «per lettore», tenendo presente il livello culturale dei destinatari di ogni volume. Ciò che colpisce è l’infinita varietà della sua fantasia, soprattutto perché si manifesta su più fronti in contemporanea e con uno standard sempre molto elevato (talora perfino troppo sofisticato, come nella prima edizione Einaudi di Se questo è un uomo di Primo Levi, che allora non ebbe fortuna).

Ma lavorò anche per il Club degli Editori, una collana da decine di migliaia di copie lanciata da Mondadori nel 1960, per cui elaborò una grafica più accattivante. E, a sorpresa, nelle ricerche per la mostra abbiamo scoperto che, oltre alle copertine di nove numeri di «La lettura» (il mensile del «Corriere della Sera», uscito tra il 1901 e il 1946, Ndr), disegnò anche almeno cinque copertine per il mensile «La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia», il quotidiano fondato da Mussolini.

Nessuno ne ha mai parlato approfonditamente: è evidente che questa censura postuma nasce dal rispetto per Munari. Tuttavia a me sembra un atteggiamento piuttosto miope. Perché piuttosto non chiedersi la ragione della sua adesione al fascismo?

 

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