La “campana” di Francesco Ciusa: base dell’artigianato artistico sardo [di Maria Laura Ferru]
Il catalogo della Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative che si tenne a Monza nel 1923 dimostra, in maniera inequivocabile, che Francesco Ciusa progettò e realizzò l’opera La campananel 1921. L’opera non poteva avere origine, perciò, nel lutto familiare che sarebbe giunto ad investire la vita dell’artista nell’aprile del 1922 , lutto dal quale è distante anche la copia in pasta marmorea che è riferibile al laboratorio aperto a Pirri intorno al 1930 dal figlio Giovanni Barbaricino in società con un Gasperini, suo parente. La campana di cui bisogna tenere conto è quindi la prima, quella del 1921, realizzata nella SPICA in terracotta dipinta e patinata a freddo, che permette di riconoscere allo scultore Francesco Ciusa il primato d’aver voluto creare la ceramica d’arte a soggetto sardo. La data evidenziata nel catalogo rivela che la Campana fu creata nel 1921 proprio in previsione di appuntamenti importanti come quello monzese, atteso per il maggio del 1923. Lo scultore aveva all’epoca alle spalle l’esaltante risultato della Mostra di Cagliari dei primi del 1921 nel corso della quale il re d’Italia aveva lodato la produzione della sua SPICA ed acquistato i 24 campioni creati fino ad allora. Non si fa fatica ad immaginare che lo scultore, dopo quell’ evento gratificante, avesse deciso di far fare un salto di qualità al suo proposito di creazione di prodotti da considerare in ogni caso artigianali perché altri potevano riprodurre in copia gli originali da lui interamente progettati. Non solo disposti per la serialità ma anche adatti, per le dimensioni, ad essere oggetti di arredo domestico. Oggetti nuovi che invero erano nelle intenzioni destinati ad ambienti domestici anch’essi nuovi, per quanto ispirati ad una sorta di tradizione. La ricerca della sardità da parte dei mobilieri Clemente di Sassari aveva già dal 1911 portato a risultati clamorosi, con la confezione di camere da pranzo, studi e salotti allestiti con abbondanza di colonne ai caminetti e alle madie e sculture di pavoni ai braccioli delle poltrone rigide come troni. Si veda il salotto prodotto per la casa romana di Grazia Deledda, dove anche la tappezzeria dei divani era stata rigorosamente ispirata al rosso-blu dei costumi femminili di Desulo. Per quegli ambienti Francesco Ciusa progettò nel 1921 soprammobili di ceramica (terracotta dipinta e patinata a freddo) che si armonizzassero con la severità dei nuovi mobili dei Clemente e ne richiamassero il comune proposito di “parlare sardo”. Nacquero con tali intenti le piccole plastiche la Campana, il Ritorno, Sacco d’orbace, tutte ispirate alla realtà isolana e a quella barbaricina in particolare. Perfette, come le altre opere d’arte dello scultore, ma fortemente innovative se viste sotto il profilo dell’idea originaria e del rapporto formale da cui scaturivano. L’idea di famiglia presente in quelle creazioni è quella della famiglia nucleare: padre, madre e figlio. Nella Campana ai tre si aggiungono due protomi di agnello per significare il lavoro pastorale, tradizionale sostentamento della famiglia barbaricina. Ma la novità del discorso consiste soprattutto nella rappresentazione plastica sempre meno verista e molto simbolista: i tre sono avvolti nella tradizionale mastruca che li unisce tra di loro e li separa dal resto del mondo e rende visibili e tangibili l’unione e contemporaneamente la separazione. A rendere ancora più esclusivo il rapporto tra i tre membri della famiglia nucleare vale nella Campana l’allineamento verticale dei tre personaggi volutamente non ben definiti, quasi appena accennati. In definitiva, una sintesi espressiva modernissima si coniugava in quelle opere col concetto ugualmente modernissimo di famiglia-cellula, che si faceva identificare come sarda per via della mastruca, copertura tradizionale del pastore barbaricino. Con tali creazioni Ciusa dimostrava di essere riuscito nell’intento di “cantare la Sardegna” e di volerne fare partecipi quanti più Sardi possibile: a questo mirava la riproducibilità delle opere. Ma è la sua scultura di sempre, quella che emerge dalle piccole creazioni: è questo quello che intendeva quando affermava di voler nobilitare l’artigianato. E solo dopo il lutto dovette nascere il titolo lugubre di Campana dato all’opera che i giornalisti che erano stati nel suo laboratorio avevano segnalato come “nuraghe”, rimarcando quindi l’assenza di un titolo contestuale alla creazione. Poi spetterà al figlio Giovanni Barbaricino riprodurre con quegli stessi stampi quelle opere con altri materiali, con pasta di marmo negli anni Trenta e con terraglie nude negli anni del dopoguerra. Ma quella fu solo una vicenda di riproduzione. La creazione de La campana nel 1921 rappresenta il migliore esordio che l’artigianato sardo potesse mai augurarsi: artigianato al cui sviluppo il miglior artista isolano aveva deciso di partecipare iniziando a produrre modelli ripetibili.
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