Fotografie della realtà in Sardegna: il caso Gallura nella ricerca di Lidia Decandia [di Umberto Cocco]
Interessante coincidenza: mentre il Consorzio Costa Smeralda celebra i sessant’anni dalla fondazione con un volume di quasi trecento pagine, più di duecento fotografie, testi solo in inglese (edizione della newyorchese Assouline, 95 euro), un libro dell’editore Donzelli uscito negli stessi mesi, autrice Lidia Decandia (Territori in trasformazione. Il caso dell’Alta Gallura, Roma 2022, € 30), racconta il mondo appena alle spalle, la Gallura dell’habitat disperso, la campagna punteggiata di stazzi a nord del Limbara e sino al mare, tra Badesi e Arzachena, da Tempio a Santa Teresa. Docente di progettazione territoriale nella facoltà di architettura di Alghero e alla Sapienza, l’autrice torna su quel mondo così singolare che per primo raccontò – ormai quasi un secolo fa – il geografo francese Maurice Le Lannou (Pâtres et paysans de la Sardaigne, 1941), le case al centro di poderi ricavati tra i graniti e la macchia, abitati sin dal Settecento dalla famiglia intera del contadino, stabilmente, anche con la donna – che li curava dentro e fuori, e ci metteva un fiore nelle aiuole davanti. Più grande ancora di quello che Decandia indaga – perché si estende a sud dell’Alta Gallura, a sud e a ovest di Olbia sino a San Teodoro, sino alle campagne tra Padru, Alà e Monti – quel mondo è cambiato anch’esso in profondità, già a cominciare dagli anni ’60 e ’70 e, quando il libro del professore del Collège de France viene finalmente tradotto in italiano, nel 1979 (Pastori e contadini di Sardegna, edizioni Della Torre, curato da Manlio Brigaglia) era già in trasformazione rapida, condizionato dallo sviluppo turistico edilizio della costa, ma anche da fenomeni più generali. Come il resto della Sardegna e dell’Italia ha subìto l’abbandono della campagna, ma a differenza di molte aree rurali, è finito sotto lo sguardo in parte di una certa speculazione, ma in parte – nelle zone più interne, ed è quel che più interessa a Lidia Decandia – di un’umanità varia, di provenienze diverse, che lo ha di nuovo ripopolato, in qualche forma colonizzato, e che lo vive per tutto l’anno, come fosse un sobborgo residenziale di una grande città europea o nordamericana, o, in Italia, le Crete senesi, il Salento, il Monferrato, con un di più di fascino, l’esotico, il selvatico, l’isolamento, il senso della lontananza. Insieme con i galluresi resistenti, “ritornanti” – così li definisce Decandia – negli stazzi dei nonni dopo percorsi di formazione e professionali che a volte li hanno portati lontano (è da decenni che le famiglie galluresi mandano i figli a fare l’università fuori dalla Sardegna), protagonisti di questo fenomeno sono figure di continentali non solo italiani, che vanno dagli alternativi degli anni ’60 e ’70 in cerca di una nuova dimensione di vita, a solide famiglie di professionisti che hanno abbandonato città e metropoli, e hanno continuato e continuano a svolgere il lavoro in collegamento col mondo, o hanno cambiato radicalmente e sono passati ad allevare animali e coltivare pezzi di terra, a volte ricchi investitori con decine di ettari di vigneti. Originaria di Calangianus, Lidia Decandia – che guarda a questo mondo da anni, incoraggiando le ricerche degli studenti della sua facoltà – mette insieme una raccolta di storie, di persone, di famiglie, e una riflessione sulle nuove forme dell’urbano anche in contesti rurali, marginali, un possibile modello di vita, di economia. Quello che anche suoi colleghi di facoltà cercano da anni nei territori della Sardegna, dove sono invitati a immaginare un qualche sviluppo locale, qui sembra essersi realizzato; e – come quasi sempre accade – senza pianificazione. Una nuova struttura urbanistica territoriale è nata sotto i suoi e i nostri occhi in mezzo secolo, si sono costituiti i paesi sessant’anni fa inesistenti in tutta la vasta Gallura alta – a parte Tempio, il capoluogo – se non nella forma di piccoli aggregati di stazzi attorno a una chiesetta (anche Arzachena era semplicemente così, una cussorgja, ancora nei primi anni ’60). Lasciarono lo stazzo anche le famiglie che erano rimaste legate alla terra, che hanno continuato a seguire la campagna ma tornando al paese la sera, come fanno “i sardi” (questa differenza Le Lannou colse forse per primo), abbandonando la forma secolare arcaica dell’autosufficienza e del presidio permanente del podere, specializzandosi in allevamenti di razze pregiate di bovini o coltivando vigneti diventati man mano sempre più preziosi e redditizi. Le case abbandonate allora, con i terreni più aspri attorno, magri pascoli ma paesaggi superbi per il gusto contemporaneo, sono diventate in pochi anni agognate dimore non soltanto estive, fra graniti, lecci, cisto, dal Limbara appunto, alle rocce dolomitiche di Aggius, lungo il corso del Liscia sino al mare delle Bocche, a Palau, Santa Teresa. Più lontano è il mare e maggiormente è stato possibile comprare casa e terreno a prezzi non esorbitanti, ma persino nelle lingue di terra protese verso l’arcipelago della Maddalena ci sono accanto a stazzi diventati proprietà di ricchi e anche di ricchissimi e ricchissime, eredi delle proprietà storiche. Qualche ricco lo incontra Lidia Decandia, e ne racconta biografie (e geografie): un imprenditore svizzero della moda solidamente insediato nelle campagne di Sant’Antonio di Gallura dove produce vino di alta qualità e prezzi, alcune famiglie di sardi e galluresi al centro di enormi estensioni di vigneti, imprenditori turistici che guardano dall’alta collina granitica al tramonto i villaggi vacanze costruiti dalle loro società a valle; la coppia di russi che ha lasciato Mosca al culmine del successo nel mondo della finanza e che continua a lavorarci da casa da quest’angolo di Sardegna, ex commercianti di materiali edili che hanno reinvestito i profitti in terreni, cantine, ambientalisti finalmente, ruralisti, amanti dei paesaggi inviolati. Il libro racconta però più empaticamente le storie minori, meno glamour, di chi ha fatto una scelta di vita. A volte sono pensionati che sono scappati dalle città, o il giro di artisti, ceto intellettuale di borghesia anche alta, urbana, altre volte giovani, che hanno formato coppie, famiglie, in condizioni pionieristiche, provando ad allevare bestiame, coltivare orti, produrre, vendere e scambiare costruendo reti commerciali della cosiddetta filiera corta alimentare, o hanno intrapreso carriere diverse, di medici, insegnanti, liberi professionisti, mestieri che esercitano nelle realtà urbane fra Sassari, Tempio e Olbia, e tornano allo stazzo la sera, come i figli che portano nelle scuole più vicine. Vite del tutto urbane, ovvio, godono degli spazi e dei silenzi della campagna, delle reti tecnologiche di comunicazione, hanno l’aeroporto e i porti vicini, cercano anche la dimensione comunitaria che nella storia si era alla fine formata fra stazzi pure distanti. Certo, non si convocano più le feste da ballo accendendo fuochi di frasche sui poggi per annunciarle la sera prima, non si celebrano più i riti collettivi della cardatura della lana, dell’aia, l’uccisione del maiale, che radunavano decine di famiglie. Resistono le feste campestri attorno alle chiesette, c’è chi ne costruisce ogni tanto qualcuna nuova dentro il proprio podere, ci sono professionisti continentali che piangono commossi mentre raccontano la scoperta di questa cultura più arcaica ancora dei santi che celebra. Ci sono i momenti duri di solitudine, pentimenti, nostalgie di altri mondi, ci sono amare testimonianze sulla inscalfibile diffidenza dei galluresi nei confronti dei nuovi arrivati anche dopo molti anni di “convivenza”. Lidia Decandia cerca tracce di una comunità nuova, un modello di vita interessante e attraente. Le raccontano di attrazioni fatali, irreversibili, scelte definitive, innamoramenti che durano, e tuttavia evita di cadere nella retorica del neo-ruralismo dei ceti urbani, il revival della vita dei “borghi”, le mode della “paesitudine”, conosce le disillusioni dello sviluppo territoriale locale alimentato da Ryanair (la Planargia), o da fenomeni passeggeri, un festival, una sagra. Col procedere dei racconti, anche di quelli più edificanti, sembra farsi spazio in lei la riflessione sul contesto in fondo tutto turistico dentro il quale quell’umanità si muove, come se anche gli alternativi ex fricchettoni coltivatori di erbe e di grano Cappelli, gli architetti, gli artisti, si muovessero nonostante loro nella luce e soprattutto all’ombra del modello che si è imposto, la Costa Smeralda e i suoi surrogati, che ha impregnato di sé culture e sottoculture, comportamenti, alimenta piccole economie degli interstizi, e che attingono dalle storie e dal paesaggio degli stazzi (anche nel volumone della Costa Smeralda) i materiali per vendersi meglio. Vede, l’autrice, «la pervasività del modello economico che sta diventando una monocultura, una vera e propria macchina spremisoldi, che rischia di trasformare la Gallura in una immagine da vendere al turista di passaggio o in un grande parco residenziale». Per esempio una certa speculazione che già da anni ha messo anche le mani su molti stazzi, cominciando da quelli più vicini alla costa, che ha trasformato in bed and breakfast, “citando” l’architettura elementare e perfetta dello stazzo contadino ma distruggendone il contesto per ansia di moltiplicazione di posti letto e dinà (soldi), appunto, ammorbidendo d’erbetta l’estate le aie di polvere di granito. E ovviamente non porta la vita lenta che evoca, ma consumismo, consumo anche ambientale, macchine, l’asfalto sulle strade sterrate (che i contadini percorrevano su cavallini e carretti per scambiare prodotti e prestazioni, e i mendicanti a piedi per andare a chiedere un pezzo di pane e un giaciglio in cambio di poesie popolari e di lezioni ai bambini isolati), cancelli videosorvegliati, recinzioni monstre a sovrastare la trama dei muretti a secco. (I muretti a secco: «Sembravano delle sculture di Kounellis», racconta a Decandia un pubblicitario milanese che nel 2010 rinuncia al lavoro a Shangai dopo avere visto uno stazzo in agro di Aglientu. «Decide che ogni mattina si sarebbe voluto svegliare in quel posto», lo compra, lo stazzo con trenta ettari di terreno, continua a viverci). Anche un’economia molto interessante, legata alla tradizione contadina, quella vinicola che le cantine sociali del vermentino degli anni settanta hanno fatto sviluppare, si è troppo bruscamente trasformata, negli ultimi dieci-vent’anni, arricchita di capitali, così che sta modificando anche il paesaggio, allargando radure dov’era il bosco, abbattendo muretti di pietra per dare continuità ai filari, cambiando il mercato dei fondi agricoli, degli stazzi (dei quali gli imprenditori e gli studi di marketing prendono i toponimi per darli ai vini, registrandoli e impossessandone, proprietariamente), espellendo chi non sta a quel livello, la piccola proprietà contadina, la conduzione familiare dei poderi. Dispersa com’è, quella che vorrebbe rimanere estranea alle dinamiche del turismo costiero, non dipenderne, non dipenderne troppo almeno, si scopre “comunità” fragile, ha meno legami del mondo dei contadini che sta soppiantando, anche se redditi più alti. È sempre più priva della lingua che era (è) un fortissimo elemento di consapevolezza di sé dei galluresi, che ne definisce anche i confini geografici, li fa parlare in uno stesso modo ad Aglientu e a San Teodoro, nelle vecchie frazioni di Padru e a San Pasquale, li faceva (li fa) distinguere orgogliosamente dai “sardi” (li saldi). Lidia Decandia scruta dentro alcune manifestazioni culturali che si sono affermate in questa dimensione negli ultimi decenni, fornendo quasi un modello a volte esageratamente fatto passare per economia. Il festival jazz di Berchidda e i concerti fra chiesette campestri e stazzi, l’esperienza di De Andrè a Tempio, quella delle residenze d’artista sperimentate ad Aggius con Maria Lai, il festival “Isole che parlano” a Palau, di Nanni e Paolo Angeli. Tutti interessanti fenomeni. Ma a una persona l’autrice sembra affidare l’incarico di rivelare i dubbi che si insinuano anche in lei su quanta fatica si fa a vedere delinearsi una dimensione di vita vera, ricca, non dipendente: si chiama Riccardo, è tempiese, laureato a Torino in lingue e letterature moderne. Ha quarant’anni quando Lidia Decandia lo intervista. È andato a vivere in uno stazzo, a Luogosanto, fa cento cose – dalla gestione degli uffici turistici al bibliotecario itinerante, moderno poeta mendicante alla Petr’Alluttu (Pietro Orecchioni, poeta vagante dell’Ottocento) – e prova ad animare una comunità, con la compagna romana, Sara, conosciuta all’università di Santiago in Portogallo da dove erano venuti a scrivere ciascuno la propria tesi di laurea in un luogo appartato. Lo hanno trovato, ci sono rimasti, sono lì da undici anni. Ma «cominciano a sentirsi un po’ stretti», scrive di loro l’autrice. «Sono soprattutto spaventati dalla deriva turistica che sembra ormai schiacciare tutte le altre dimensioni e dalla estetizzazione dei paesaggi che pericolosamente rischia di mettere a repentaglio, mercificandola, una storia di rapporti fra uomini e ambienti, costruita nei secoli. Ma sono anche profondamente intristiti dalla frammentazione individualistica che, rispetto ai primi anni, sembra sempre più affermarsi anche in queste campagne in cui i nuovi arrivati, sempre più centrati su sé stessi, anche se nella direzione di un miglioramento ecologico della qualità della vita, appaiono poco propensi a costruire reti collaborative di azione politica». Il fatto è, dice Riccardo, che nemmeno si contesta questa deriva: «Se non si protesta, se non ci si mette insieme non si fa un cambiamento». Questione enorme di deprivazione e auto-deprivazione politica, sociale, culturale. Non è che sia molto diverso da quel che accade nella dimensione del paese, ma insomma, è più in questo vuoto di densità che si consumano i destini delle comunità, i modelli di sviluppo territoriale. E così si fa stretta «la gabbia dorata» di questa Gallura, Sara ha ripreso a pendolare fra Luogosanto e l’India dove lavora per una sartoria, e tutt’e due, lei e Riccardo, avvertono il bisogno «di riprendere il volo per respirare un po’».
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