Sa Carrela, quando una folle corsa di cavalli celebra la storia tra coraggio e tradizione [di Umberto Cocco]
Strana, la Sardegna in inverno. Immalinconisce, nel grande deserto rurale che era una volta la trama della sua identità, pastori e paesi. E poi, fors’anche per scuotersi da questa cupezza, in questi mesi esplode, si accende. Letteralmente. A fine gennaio per Sant’Antonio (quello del porco, precisava Gramsci, non Sant’Antonio da Padova), grandi fuochi nelle piazze dei paesi, durano giorni e notti, alimentati da enormi tronchi cavi portati da compagnie di giovani – maschi – in competizione fra loro. E quando le ultime braci si stanno per spegnere, nel gesto dei ragazzi che infilano una mano nel letto di cenere e ceppi appena spenti e la portano alla faccia a tracciare le guance e la fronte di nero, ecco il carnevale nasce. Su carrasegàre. Carne viva da lacerare, il dionisiaco sardo. In incubazione nelle case, appunto da metà gennaio, nei raduni ancora quasi solo dei maschi, alcolici e vitalistici, alla vigilia della quaresima va in piazza, la domenica e il martedì. Mette in scena riti pazzeschi, di forza brutale e di improvvisi appagamenti, feste rilassate come da scampato pericolo. In una zona va verso il primitivo, l’arcaico: a Ottana, Orotelli, Mamoiada. Maschere di legno di pero, ghigni agghiaccianti, i riti tribali barbaricini di una lotta inconclusa fra mondo animale e l’uomo, la donna megera che fila la morte e l’uomo bue che se ne difende. E in un’altra parte dell’isola, appena più meridionale, fra Santulussurgiu e Oristano, corse di cavalli. Influenza spagnolesca evidente. Ma anche fra le due – la Sartiglia di Oristano, Sa Carrèla ‘e nanti di Santulussurgiu, trenta chilometri soltanto di distanza, fra montagna e mare occidentale – differenze, differenze… Quasi mondi distanti, antropologie rivali, contadini e pastori. Una giostra elegante di cavalieri solitari in maschera, delicate maschere di terracotta, né maschile né femminile, nella città che fu il capoluogo del Giudicato d’Arborea, regno contadino. A Santulussurgiu una corsa impetuosa di cavalli lanciati in coppia e a volte in formazioni di tre (o non si può più?!), affiancati, i cavalieri allacciati, in discesa nella strada stretta del paese, stretta e tortuosa, un budello che sembra portare al centro del vulcano nella cui bocca il villaggio di allevatori è collocato, nel Montiferru, monte di ferro. Sono una cinquantina, sessanta, i cavalieri, indossano maschere anche improbabili, non è la maschera al centro della scena, anzi: la irridono, la sbeffeggiano (e si sbeffeggiano), portano le fogge all’arlecchinesco. Conta il valore del balente a cavallo, la forza della cavalcatura, l’armonia degli accoppiamenti, il tempo del galoppo. Il climax nel punto massimo della velocità e come ne escono – uomini e cavalli – quando la discesa finisce, e se ti rilassi lì puoi essere sbalzato di sella. Sempre di meno col passare degli anni si può viverla dal centro della strada, questa impressionante Carrèla, dallo slargo da cui muovono, s’iscappadorzu, decisivo per la composizione de sa pareza. Le norme della sicurezza hanno in pochi anni separato quel che era unito e confuso: la folla che assiste e si apre all’ultimo davanti ai cavalli lanciati, il brivido di venire sfiorati, la via di fuga all’ultimo nella soglia delle case che magari è già zeppa di corpi. Ci sono stati morti, fra i cavalieri e fra la gente a piedi, qui e nel vicino paese di Sedilo dove si corre l’ardia di San Costantino in estate, ci sono reduci claudicanti in questi villaggi, segnati per sempre. Eppure, soprattutto dopo la sospensione per la pandemia, sa Carrèla tornerà a rimbombare, domenica e lunedì, e la gente starà alle finestre e ritratta nelle case a viversi solo lo sfrecciare davanti, che è comunque un bel rabbrividire. Il paese celebra la sua storia, in questa occasione. Ha una vasta campagna di allevamenti bovini, e tutti hanno cavalli. Una specie di aristocrazia della campagna (riccu est andare a caddhu, poberu a sa molentina, si diceva. Ai poveri l’asino, ai ricchi il cavallo). Solo Ozieri può competere. Hanno a valle, nell’altopiano di Abbasanta, la Tanca Regia, dove anche i piemontesi selezionavano l’anglo-arabo-sardo. A monte, a San Leonardo, un maneggio sontuoso, nel bosco, scampato all’incendio di due anni fa. Nel paese una piccola economia, calzolai, stivali e la sella lussurgese di cui a sa Carrèla i giovani fanno sfoggio, man mano sovrastata da quella inglese, che i cavalli reggono meglio, così poco avvezzi al lavoro, non trasportano più le brocche di latte. Corrono a carnevale, e poi liberi tutto l’anno nei pascoli d’altura. |