Il museo archeologico in una quasi descrizione di un viaggiatore [di Gianni Loy]
Albert T’Serstevens è uno scrittore belga, naturalizzato francese, nato nel 1886 e morto nel 1974. Oltre che aver tradotto Marco Polo e Machiavelli in lingua francese, è autore di raccolte di poesie, di racconti e di alcuni libri di viaggio che l’Enciclopedia Treccani definisce “pittoreschi ed eruditi”. Tra questi ultimi, il volume dal titolo “Sicilia, Sardegna, isole ventose (éoliennes)” la cui prima edizione è apparsa nel 1957, edita da Athaud. Il volume è il frutto di un lungo viaggio -circa 8 mesi – trascorso tra le due isole del Mediterraneo. L’autore, in prefazione, scrive che “dopo gli ultimi anni passati in contatto con i primitivi polinesiani e indiani del Messico, ho voluto ritemprarmi nella luce fortificante emanata dal mare interno e dal suo spirito”. Il volume è corredato da 57 disegni a pennello di Amandine Doré e di 84 fotografie, 54 delle quali scattate dallo stesso autore. Alla Sardegna sono dedicate un’ottantina di pagine delle 360 complessive di cui si compone il volume, che non è mai stato tradotto in italiano. Lungi da ma l’idea di volerlo commentare. Mi limito a “condividere”, secondo una terminologia esplosa nell’epoca della rete – ma che affonda le sue origini in un passato ben più lontano – due pagine del libro che descrivono un piccolo episodio vissuto dall’autore nella città di Cagliari durante quel viaggio, verosimilmente nel 1956. Due pagine che mi hanno affascinato, oltreché per l’eleganza e la sottile carica ironica, per la forte carica evocativa e per la pluralità di spunti di riflessione. Il Museo archeologico [di Albert T’Serstevens] Il martedì, ci spiega il portiere dell’hotel, il museo è chiuso. Apre solo il giovedì e la domenica. Ma potreste essere autorizzati a visitarlo rivolgendovi alla direzione che si trova proprio al lato del museo, al n. 1 di piazza dell’Indipendenza, dove si trova la torre di San Pancrazio. La conosco. Ci siamo già stati due volte.Buon divertimento. Al n. 1 della piazza mi trovo dinanzi ad una delle più belle case aristocratiche, vi andrei a vivere volentieri. La porta è aperta, ma non c’è il portiere. Il vestibolo e la grande scalinata d’onore rimbombano sui miei passi mentre salgo al piano. Al mio suono del campanello, per un buon tratto, nessuno risponde. Alla fine, la porta si apre, un signore giovane ed elegante mi saluta cortesemente, scusandosi per avermi fatto attendere. Visto che non può che trattarsi del curatore in persona, gli consegno la lettera di presentazione dell’Ente che ci raccomanda calorosamente a tutti i direttori di museo e ci autorizza a fotografare, a fare degli schizzi e a consultare i documenti. Terminata la lettura, il curatore mi invita ad entrare, mi introduce all’interno di un salone ammobiliato all’antica. Mi lascia solo, per un po’, mi trovo così a tu per tu con un grande ritratto di una giovane donna, intriso dalla melanconia propria dei bei visi destinati a scomparire. Rimango affascinato da quei grandi occhi velati di tristezza, da quella bocca dove sembra spegnersi il riflesso di un sorriso. Un bouquet di garofani bianchi, appena raccolti, è collocato così vicino a quella dolce immagine che non può che essere ad essa destinato. Il direttore riappare poco dopo. MI presenta, su di un vassoio, due bicchieri e una bottiglia venerabile. Gradite qualcosa? È un vino locale. È davvero curioso questo museo dove vi offrono da bere prima di incominciare la visita … mi sciolgo in ringraziamenti. Siete troppo gentile, signor direttore …” Sorride, scuotendo il capo. Scusatemi, ma non sono il direttore, non faccio neppure parte del museo. Sono un medico …Perdonatemi. Mi avevano detto …”. Si, lo so. Non è la prima volta che ricevo una visita come la vostra. I portieri degli alberghi, non so perché, danno il numero della mia casa al posto di quello del museo. In realtà si trova di fronte, al n. 6. Mi dispiace …Ma no, visto che questo errore mi consente di fare la vostra conoscenza. Se me lo consentite, vi accompagnerò io stesso al museo. Conosco personalmente il direttore. A dire il vero, non avete alcun bisogno della mia intermediazione, ma mi farebbe davvero piacere poter ancora ammirare, assieme a voi, alcune delle opere che amo. Mentre parla, il mio sguardo si è posato, più volte, sul ritratto della giovane donna. Se ne accorge, quasi subito, e ne resta colpito. Mia sorella, mi spiega con voce sorda. È morta due anni fa. Era così dolce, così tenera, così bella…Si, signore, ha la bellezza trasparente di una luce d’alabastro che sta per spegnersi. Ne avevo il presentimento. Il silenzio, e certamente anche l’anima serena della morte, si sono insinuati tra di noi. Posso gustare profondamente quel minuto in cui il decoro, i sentimenti, le espressioni e quel volto lontano accarezzato dai garofani lo rendono prezioso per entrambi. Ci siamo alzati senza dire una parola. Lungo lo scalone, il mio anfitrione sembra ritornare in sé, alla cordiale cortesia che – nel suo spirito d’Italiano e ancor più di sardo – egli deve ad uno straniero che ha ospitato nella sua casa. Egli s’inchina di fronte a quella giovinezza sorridente che deve far riemerge in lui ricordi commoventi. Non ci abbandonerà più durante tutta la giornata, sia per dovere di ospitalità che per alleviare la propria pena. Egli rimane, per noi, uno di quegli amici di un giorno – che un viaggio, qualche volta, ci riserva – dal quale non ci si può distaccare senza rimpianto.
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