Un dio per l’antropocene [di Felice Cimatti]
https://www.doppiozero.com/un-dio-per-lantropocene24 maggio 2024. Nella celebre intervista rilasciata a Der Spiegel nel 1966 (pubblicata postuma nel 1976), in risposta alla domanda “può l’uomo singolo influenzare ancora questo processo” – ossia l’impersonale dispositivo della modernità tecnica – “ovvero può la filosofia influenzarlo?” Martin Heidegger rispondeva così: “la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale solo per la filosofia, ma anche per tutto ciò è mera impresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare” (Martin Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda 1987, p. 136). La salvezza del mondo, e quindi dell’essere umano come principale agente della trasformazione tecnica del mondo (quella che oggi chiamiamo appunto l’epoca dell’antropocene, una nozione che al suo tempo ancora non esisteva), non può venire, per Heidegger, da qualcosa che lo stesso essere umano possa fare. L’antropocene, cioè, non si risolve tecnicamente, dal momento che l’antropocene coincide piuttosto con il tempo del mondo completamente asservito al progetto tecnologico umano, un progetto (che non è di qualcuno, e tanto meno del solo capitalismo, ma coincide con la modernità stessa) che ha trasformato il mondo, quello che per Heidegger è l’essere da sempre obliato, in un immenso oggetto tecnico, un ‘semplice’ materiale da costruzione. Che cosa ci resta da fare, allora? “Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione di Dio o all’essenza di Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)”. Si tratta, astenendosi dal pensare che il problema dell’antropocene sia appunto un problema tecnico come qualunque altro problema tecnico, di assumere una postura di disponibilità alla apparizione di un dio, o all’essenza di un dio, che possa infine salvarci. Ma che significa, propriamente, che solo un Dio può salvarci? Significa, indipendentemente che si creda o non in un Dio (Heidegger parla agli atei come ai credenti, ovviamente), che la salvezza del mondo, e dell’essere umano con esso, non dipende degli esseri umani. In questo senso l’antropocene non è un problema tecnico, ossia appunto un problema che gli esseri umani possano risolvere (in fondo, si potrebbe dire, Homo sapiens significa ormai Homo anthropocenicus). La salvezza verrà, se verrà, da fuori, non dall’interno del mondo umano. E che significa, si chiederà un lettore scettico, che verrà da fuori? Che quello che è necessario è un radicale cambio di sguardo da parte degli esseri umani verso il mondo. Vedere il mondo come qualcosa del tutto al di là della presa umana, cioè non vederlo soltanto come un materiale da costruzione di cui disporre ad arbitrio. Per uno sguardo del genere, ammesso che sia possibile, non ha più senso separare la posizione umana dal resto del mondo. Per un inumano sguardo del genere non c’è che il mondo. Peter Sloterdijk, al contrario, – in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. di C. Calligaris e S. Crosara, Edizioni Tlon 2024, con una preziosa postfazione di Antonio Lucci, che ricostruisce il valore e il contesto di ricezione del libro) – prende fin dal titolo una posizione diversa. Non ci serve un Dio che ci salvi, e quindi non ha senso nemmeno mettersi ad aspettare che arrivi qualcun altro a salvarci. Non ha senso perché la specie umana, diversamente da quanto sostiene Heidegger non si sarebbe sviluppata nel confronto con l’essere, e quindi con una presenza estranea e in qualche modo trascendente rispetto al mondo umano, ma si sarebbe in realtà autocostruita. È la tesi che sostiene nel saggio centrale del libro, “Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’umanismo di Heidegger” (pubblicato originariamente nel 1999; da ricordare la risposta polemica a questo saggio contenuta in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale di Jürgen Habermas). La nozione chiave per capire l’essere umano non è quella di ‘natura’ umana’, come tale fissata una volta per tutte, bensì quella di “antropotecnica”, ossia l’insieme di tecniche artificiali che, nel corso dell’evoluzione di una specie animale di primati, hanno ‘prodotto’, e continuano a ‘produrre’, l’essere umano: “questo termine” – antropotecnica – “è stato di recente travisato nell’ambito di un ampio dibattito, poiché era stato preso come sinonimo di un concetto di biopolitica central-egoistica e strategico-pianificatrice dell’umano; dibattito per altro che è stato caricato di nervosismi, neanche si trattasse di una battaglia religiosa per la difesa dell’uomo”. Appunto, non c’è nessuna essenza umana da difendere (tanto meno da una prospettiva religiosa). “L’espressione ‘antropotecnica in questo testo spiega invece quello che è un semplice teorema dell’antropologia storica, secondo il quale ‘l’uomo’ è da capo a piedi un prodotto e, nei limiti del sapere odierno, può essere compreso solo seguendo in maniera analitica il suo processo produttivo e i suoi rapporti di produzione” (p. 164). Quello che oggi è un animale umano non è nato come un vivente da sempre proiettato nella contemplazione dell’essere; al contrario, l’umano è, ricorsivamente, il risultato di una serie di tecniche sempre più sofisticate di produzione di umanità. Sloterdijk propone, al riguardo, il modello della serra, al cui interno si coltivano varietà vegetali che, all’esterno di quella stessa serra, non riuscirebbero a sopravvivere: “nel nostro caso l’effetto serra portò a delle conseguenze ontologiche: si può mostrare plausibilmente come da un essere-nell’-ambiente-serra si sia potuti passare a un essere-nel-mondo umano” (p. 184), cioè appunto a un animale umano, ossia con le caratteristiche cognitive e comportamentali degli esseri umani. Non c’è mai stato, nel corso dell’evoluzione umana, un rapporto con un mondo radicalmente altro – l’essere del mondo – un rapporto che poi sarebbe stato perduto (l’oblio dell’essere di cui parla Heidegger), e che solo se ritrovato potrebbe salvarci (stiamo parlando di quel Dio che potrebbe salvarci): “la selezione” naturale, nel caso umano, “diventa sempre più legata all’effetto serra: non conduce tanto all’adattamento a un ambiente circostante che esercita una pressione, bensì premia le caratteristiche che facilitano al sapiens in fieri un’ulteriore presa di distanza dall’ambiente, e dunque un ulteriore disadattamento da esso” (200). Il mondo dell’animale umano è sempre stato un mondo umano. In questo senso anche la Lichtung, concetto chiave della filosofia di Heidegger, l’improvvisa radura nel bosco dove al viandante si mostra la numinosità dell’essere diventa, per Sloterdijk, una nozione interna alla sfera umana: L’essere-presso-il-mondo dell’intelligenza umana non è da pensarsi dunque come un essere-fuori-di-sé o come uno sporgersi fuori, in un qualche senso spaziale: l’uomo non si comporta nel mondo come un turista stranito in una terra straniera. Piuttosto l’estasi umana deve essere concepita come un’operazione propria dell’organismo divenuto umano, che ha preformati in sé il suo essere-nel-mondo e il suo poter-essere-presso-le-cose, e che di volta in volta attualizza la sua estasi secondo quello che offrono le circostanze. I cervelli umani sono gli organi generali della Lichtung, in essi si concentra l’essenza delle possibilità dell’essere aperto a tutto ciò che non è cervello (p. 209). Per questa ragione non potrà mai esserci un Dio per salvarci, perché fin dall’inizio l’animale umano non ha avuto rapporti con nient’altro con il mondo umano, e la stessa Lichtung è un prodotto dei “cervelli umani” in quanto “organi generali della Lichtung”: “la Lichtung […] come ora sappiamo, non è pensabile senza la sua origine tecnogena. L’uomo non se ne sta a mani vuote nella Lichtung, non se ne sta lì come un custode vigile privo di mezzi, accanto al suo gregge, come suggeriscono le metafore pastorali di Heidegger. Dispone di pietre e di derivati della pietra, di strumenti e di armi: ciò che diviene è condizionato da ciò che ha in mano. L’humanitas dipende dallo stato della tecnica” (p. 239), appunto, non dipende dall’essere esposto alla Lichtung (non dipende che da sé stesso, in fondo). Non c’è alcun fuori, soprattutto quello radicale divino, che possa arrivare dall’esterno del mondo umano per salvarlo, e per salvare con gli esseri umani anche il mondo. Ma che cos’è, a questo punto, il mondo? “Il mondo non è tutto quello che è lì, da scoprire, piuttosto esso è tutto quello che può essere costruito attraverso azioni di routine. Perciò, nel caso della ‘modernità’, si tratta di un nome per portare avanti la rivoluzione dell’operabilità. Essa sfocia in una nuova condizione del mondo, in cui il padroneggiamento dei prodotti artificiali di grado superiore diventa la norma” (p. 390). Il mondo è quello, torna il movimento ricorsivo che abbiamo già incontrato, che facciamo del mondo. È evidente, allora, che trasformando la Lichtung in una sorta di oggetto tecnico non c’è più nulla, nel mondo umano, che possa pretendere di rappresentare un valore non tecnico: La modernità, in quanto millennio della crescente artificializzazione, trae la sua sostanzialità dalla tecnica, in quanto ‘progressiva conquista del nulla’. La profondità del futuro oggi possiamo pensarla soltanto come l’insieme delle dimensioni di crescita dell’artificiale. Una tale crescita non si lascia più considerare però come una fase della storia dell’essere: chi vuole tentare di capirla concettualmente, la deve concepire come la storia del dispiegarsi del nulla. Il nulla si mostra sempre più come l’elemento proprio della capacità di progredire (p. 405). La modernità come “storia del dispiegarsi del nulla”. La sfera antropogenica del mondo umano, la sfera del progresso e dell’incessante miglioramento tecnologico, non solo non apre più alla Lichtung (alla luce dell’essere), apre in realtà al “nulla”; infatti “il nulla è l’elemento della modernità” (p. 405). Ed è sicuramente vero, è facile per Sloterdijk sostenerlo, che “nell’epoca del mondo globale, nelle situazioni future della modernità, non c’è alcun dubbio che sarà preminente la volontà di artificio rispetto alla disponibilità a piegarsi a una natura già definita o a un’antichità normativa. A questo proposito nessuna congiuntura neocattolica potrà cambiare qualcosa” (p. 407). Chi, oggi, è realmente disposto a rinunciare – ammesso che viva (o aspiri a vivere) nella parte ricca del mondo – ai vantaggi della tecnica, per non parlare delle possibilità della medicina rigenerativa? Per questo il nostro tempo, appunto il tempo del “nulla”, è anche il tempo della “fuga dall’essere” (p. 407), ossia la fuga dal mondo non umanizzato, non addomesticato; l’unico mondo che conosciamo è il mondo umano artificiale, un mondo che basta a sé, un mondo in cui, scrive ancora Sloterdijk, “non c’è motivo per non credere che il meglio stia arrivando, o debba ancora arrivare. Chi crede di vedere sempre davanti a sé la fine di qualcosa, trae false conclusioni a causa della sua stanchezza rispetto al cammino del mondo” (p. 408). Questa raccolta di saggi viene pubblicata in tedesco il 22 ottobre del 2001, poco più di un mese dopo l’attacco alle Twin Towers di New York, l’analogo moderno del sacco di Roma di Alarico nel 410 d. C., e prima che il tema dell’ecologia (questa parola compare una sola volta nel libro) diventasse la questione più urgente da affrontare. Ha ragione Sloterdijk, siamo nel tempo del “nulla”, nel tempo che non si interessa più dell’essere, tanto meno della Lichtung. Nell’intervista citata Heidegger da un lato dice che “il mondo non può essere ciò che è come è, grazie all’uomo, ma neppure senza l’uomo”, dall’altro dice anche che “egli stesso [l’essere umano] non signoreggia” la tecnica, quella sfera tecnica che ha completamente avvolto il mondo, lo ha del tutto umanizzato e quindi artificializzato. Per questo, conclude, “la filosofia è alla fine” (p. 137), perché ora non è più tempo di pensare l’essere, quanto di fare un passo indietro rispetto a questa umanità che non sa pensarsi che come padrona del mondo. Non rimane altro che, conclude Heidegger, “preparare questa disposizione a tenersi aperti per l’avvento o la contumacia di Dio” (p. 139). Le parole del filosofo gravemente compromesso con il nazismo ci sembrano ormai impraticabili, sanno di vecchio, di fuori tempo. Questo non toglie, però, che il nostro è il tempo del “nulla”: siamo così sicuri di non avere bisogno di quel dio?
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