Ancora sull’Anfiteatro romano di Cagliari [di Maria Antonietta Mongiu]

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Ad integrazione di La città in pillole del 26/03/2014 (L’Unione Sarda), qui riproposto il 27, pubblico una scheda redatta 14 anni fa per il Comitato a difesa dell’Anfiteatro romano di Cagliari, che vide tra i promotori Giovanni Lilliu ed Antonio Romagnino. Il Comitato che raccolse migliaia di firme non riuscì ad evitare il disastro che è sotto i nostri occhi. L’ Anfiteatro romano è ancora “imprigionato” mentre peggiora il suo stato di salute. L’occultamento ne impedisce la fruibilità alla comunità. Ciò in contrasto con l’art.9 della Costituzione.

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La parola Amphitheatrum indicava uno spazio, in cui sostavano gli spettatori, delimitante un’arena dove si svolgevano venationes (cacce agli animali) e giochi di gladiatori. Inizialmente in legno, tra la fine del I secolo av. C. ed il I secolo d. C. fu, diffusamente, costruito in pietra. Lo spazio per gli spettatori, di pianta ellittica, fu dotato di gradinate (cavea) che, in diversi ordini, spiccavano dall’arena. La forma di questa – ellisse prossima all’ovale – era la più idonea oltre che per cacce agli animali e giochi gladiatori anche per allestimenti con macchine sceniche, sfilate, cortei e per una visibilità più agevole da diversi punti di osservazione. Gli anfiteatri ebbero larga diffusione nelle provincie, in località connotate da piazze militari, sia nella versione interamente costruita in pietra sia in quella ricavata in pendii ed in terrapieni con integrazioni in muratura. Non furono, tuttavia, mai alternativi ai teatri che ebbero una contestuale evoluzione nella doppia tipologia.

L’anfiteatro di Cagliari è frutto della combinazione dello scavo di una naturale declività, di un breve terrapieno e di integrazioni in muratura. Dei quattro segnalati in Sardegna è l’unico conservato negli elementi connotanti ed era il più cospicuo per dimensioni e per apparecchiature. La datazione della messa in opera è tra l’età flavia, nel I secolo d. C., e la più probabile età adrianea, nel II secolo d. C., fase in cui nella città, inserita in una fitta rete commerciale e luogo militare per eccellenza, si registrano considerevoli interventi pubblici e privati quali la messa in opera di edifici termali, di impianti idraulici, di abitazioni di prestigio.

Il manufatto rispondeva alle esigenze di una popolazione, aumentata nel numero e varia nella composizione, cui non era sufficiente l’antica cavea teatrale del tempio-teatro di via Malta del II secolo av. C., peraltro differente nella destinazione e nell’utilizzo. L’anfiteatro, posto nella periferia settentrionale e accessibile tramite la strada che collegava la città al suburbio, era a monte di un quartiere eminente nella topografia urbana tra Stampace e Palabanda. Il toponimo centuscalas rimanda alla persistenza fisica e alla memoria profonda nei cagliaritani che oltrepassa secoli e vicissitudini della città tanto da comparire come un taglio a chiusura di Stampace nella cinquecentesca imago urbis di Sigismondo Arquer.

Vittorio Angius nel 1833 ci narra che nel “seno della valletta di Palabanda tra il convento dei cappuccini e lo spalto della cittadella ” si poteva notare la ” preziosa anticaglia” dell’anfiteatro romano. Il monumento, in quel momento, attendeva di essere scavato ma era sufficientemente leggibile. La struttura per due terzi era scavata nella roccia e per un terzo era costruita; di quest’ultima riusciva ancora a vedere ampi brandelli. Le misure indicate (m 88,90 l’asse maggiore nel punto di massima espansione e m 50,00 nel punto più basso ed ancora 72,90 l’asse minore; m 50,00 l’asse minore nel punto di massima espansione e m 34,00 nel punto più basso) sono quelle che saranno costantemente ripetute, salvo qualche irrilevante modifica.

L’altezza al seggio estremo dall’arena venne calcolato in m 18,30 distinguendo nella cavea un’articolazione in cui l’ima cavea è suddivisa in sette ordini che l’autore afferma essere destinati ai cavalieri e la rimanente porzione “pur sempre in sette ordini” sarebbe stata destinata al popolo. Era evidente l’ambulacro superiore e i relativi vomitoria ed ulteriori ordini di gradini. Nella galleria sotto l’ima cavea erano distinguibili le aperture che immettono nell’arena come pure l’ingresso a due vani e nella galleria due scale per accedere al podio nella galleria; nei vani scavati nella roccia si individuano degli sfiatatoi e i condotti per l’acqua ma soprattutto un grande quantità di ruderi che ingombravano l’arena.

Giovanni Spano e Vincenzo Crespi aggiungono dettagli di non poca rilevanza quali la presenza di nicchie stuccate nei corridoi e la descrizione di una quantità rilevante di reperti. L’uso dell’anfiteatro a cava fa dire, troppo drasticamente, agli autori ottocenteschi che i guasti, dovuti ai lapicidi medioevali che con il materiale da qui cavato avrebbero eretto le torri e le mura del Castello, erano pressoché irreparabili. Ciò che comunque appare curioso sul piano del costume e dell’ideologia dominante nell’intellettualità sarda del momento, è la presenza del manufatto nelle False Carte d’Arborea. Spano, infatti, citando Antonio di Tharros afferma che il fondatore dell’edificio sarebbe stato G. Pompeo e che sarebbe stato integro ancora nell’VIII secolo “perché nell’anno 777 ivi si fece una giostra di tori per la festa della cacciata dei Saraceni e la carne fu tutta   distribuita al popolo” .

Riconosciuto dunque come manufatto antico da Vittorio Angius, fu inserito nel 1839 nella Relazione del Consiglio Civico come “vestigia dell’antico anfiteatro romano” da conservare. Nel 1866, dopo l’acquisto da parte del Comune, Giovanni Spano lo scavò e descrisse. Vincenzo Crespi lo rilevò, dandoci l’unica restituzione ad oggi, integrata ed in parte rettificata da Doro Levi sul finire degli anni trenta del Novecento. Corresse anche alcune interpretazioni dei due studiosi.

Doro Levi eseguì scavi in aree non esplorate, rivide il rilievo precedente e, secondo le metodiche del tempo, ricostruì alcune porzioni nel settore orientale. Definì ulteriormente il podio, le gradinate e la loro declinazione in diversi ordini, gli accessi a questi ed i relativi corridoi coperti, i passaggi dal podio all’arena e gli ambienti, per gli animali, collegati ai singoli passaggi, in relazione coerente tramite un unico corridoio. Individuò le apparecchiature che consentivano negli stessi la permanenza degli animali per gli spettacoli e il loro ingresso nell’arena senza mettere a repentaglio l’incolumità di addetti e spettatori. Già lo Spano aveva segnalato decorazioni architettoniche che fanno intravedere un edificio di grande rilevanza anche nella cura dei dettagli.

L’analisi dell’iconografia che si è prodotta, comprese le foto da Edouard Delessert (1854) in poi, degli ambienti residui nel cosiddetto canale a monte, dei corridori e dei vani sotto il podio e di quelli conservati nelle fosse dell’arena in cui insistono apparecchiature murarie, evidenzia il riutilizzo del manufatto in fase postclassica secondo una tendenza osservata anche in altri luoghi antichi di spettacolo (Roma, Lione, Vienne, Arles, Orange, Nimes etc.).

L’Anfiteatro di Cagliari fece parte di un habitat rupestre, dagli esiti straordinari e peculiari in tutta la città e che, per rimanere in questa porzione, segue la direttrice di Sa Costa, registrata nelle carte di Rocco Capellino dalla via Manno fino al colle di Buoncammino. L’insediamento rupestre alternava episodi chiesastici, tra cui s. Efisio, s. Restituta, il cosiddetto fosso di San Guglielmo, strutture abitative e difensive, e declinava verso i Viali Merello e San Vincenzo, Tuvu Mannu-Tuvixeddu, viale Sant’Avendrace. L’habitat, in uso ancora nel secondo dopoguerra, era disposto nel percorso di uscita dalla città verso nord replicando l’antica strada integrata e in parte sostituita da tratturi scavati nella roccia. Diventò un luogo pressoché inespugnabile ed inaccessibile, connesso senza soluzione alle aree dove oggi insistono il San Giovanni di Dio e l’Orto Botanico, i cui invasi furono anch’essi oggetto di riuso.

Le cave e gli spogli nell’Anfiteatro sono di diverse fasi, non tutti chiari nella diacronia e ascritti, semplicisticamente, al periodo pisano. Leggere infatti nella declinazione temporale una struttura così complessa e stratificata senza rilievi adeguati – quelli oggi possibili con tecnologie specialistiche – era problematico prima degli inopportuni interventi del 2000. Tolta la “legnaia”, sarà difficilissimo perché non sappiamo quali sono i danni prodotti dalla sua messa in opera e dalla sua più che decennale permanenza. Quanto è accaduto fa rimpiangere il Ministro Arangio Ruiz, che impedì nel 1945 la distruzione e la ricostruzione dell’Anfiteatro romano proposte dall’allora amministrazione municipale che protestò per lesa identità locale ma incapace, come altre,  nei fatti di conservare la memoria storica della città.

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