Con la mole di dati di cui ormai disponiamo e provenienti dalle più diverse istituzioni accreditate nazionali e non, è possibile leggere la realtà che ci circonda e, di conseguenza, provare ad interpretarla. In questo senso nessun dato disponibile, neppure il più piccolo e nascosto, va trascurato o tralasciato. Per questa via la molteplicità di fenomeni sociali ed economici dovrebbero diventare più chiari per tutti e, di conseguenza, più efficaci le eventuali azioni correttive da apportare. Non sempre purtroppo è così e molto spesso rilevazioni importanti sono trascurate ed i dati vengono pubblicati “di rimbalzo”, cioè senza spiegazioni.
Tra i dati relativi al mercato del lavoro, e segnatamente quelli che riguardano il lavoro delle donne, oltre alle sistematiche rilevazioni dell’Istat, c’ė una fonte preziosa di informazioni meritevoli di riflessione che proviene annualmente dalla Direzione Regionale del Lavoro per la Sardegna. In una sintetica tabella fornitami qualche giorno fa, sono contenuti non dati statistici (non è compito di quella Istituzione) ma dati in valori assoluti relativi alle cosiddette dimissioni volontarie dal lavoro per maternità.
Questi eventi sono giudicati tanto rilevanti che la procedura adottata per il presidio del fenomeno da parte dell’istituzione su nominata prevede una apposita convalida delle dimissioni da parte del corpo ispettivo. Cioè una apposita verifica che accerti la spontanea volontarietà all’origine delle dimissioni dal lavoro e la veridicità delle motivazioni addotte. Perché dietro le dimissioni volontarie di lavoratrici e lavoratori legate alla nascita dei figli (il fenomeno maschile è presente solo da due annualità), si cela il sospetto che si nasconda la piaga delle cosiddette dimissioni in bianco. Tutte le dimissioni del 2013 sono state convalidate dal corpo ispettivo della Direzione Regionale del Lavoro.
Non saprei così, in termini generali, definire il dato relativo alle dimissioni per maternità relativo al 2013 appena fornito dalla Direzione Regionale del Lavoro sotto la dimensione della sua gravità o lievità rispetto alla generale flessione del lavoro femminile. Non so in sostanza se siano poche o moltissime le 509 silenziose dimissioni del 2013 dovute alla maternità/paternità corrispondenti a 471 donne e 35 uomini. Nelle annualità precedenti sono passate inosservati altri allarmanti numeri: nel 2012 le 450 donne ed i 10 uomini. Nel 2011 le 380 donne, nel 2010 sono state 385, per il 2009 il numero è 363.
In un mercato del lavoro femminile che solo nell’ultimo anno, in Sardegna, vede le donne occupate diminuire di 21.000 unità e il tasso di occupazione femminile scendere dal 43,1% al 39,7%, forse a qualcuno il dato può suggerire che il numero di 509 che “mollano il lavoro” per maternità siano, tutto sommato, un numero scarso. Ma non bisogna essere frettolosi nei giudizi perché la questione non è proprio così semplice. Proviamo a vedere qualche perché. Per dovere di sintesi in questa sede possiamo solo enunciare una serie di riflessioni collegate al fenomeno. Prima di tutto è necessario ricordare che, diversamente dai dati Istat che misurano dati aggregati e raccontano insiemi, questi rappresentano dei veri casi, che se analizzati uno per uno potrebbero fornire un profilo più corposo e reale del problema.
Qualche riflessione in sintesi. Una primissima considerazione riguarda il tipo di dimissioni e la loro “volontarietà”. Che di volontario non credo abbiano proprio nulla, infatti, trattandosi al contrario di “scelta obbligata”. Le motivazioni portate da 227 lavoratrici sono riconducibili al “desiderio di cura della prole in maniera esclusiva’ mentre per altre 67 donne la rinuncia del lavoro è dovuta a “incompatibilità tra occupazione lavorativa ed assistenza al neonato per mancato accoglimento al nido”.
La seconda riflessione non può non riguardare il fatto che quando si parla di dimissioni, ci si riferisce a rapporti di lavoro standard, cioè contratti di lavoro a tempo determinato o indeterminato, non occasionali ed atipici; presumibilmente si tratta di quel “lavoro vero” a cui molte tendono.
La terza osservazione riguarda la fascia di età delle lavoratrici, colpite nella fascia centrale della vita professionale e riproduttiva. La gran parte del campione (282) ha un’età compresa tra i 26 ed i 35 anni.
Una quarta considerazione deve essere inquadrata all’interno della stretta relazione esistente tra la “redditività del lavoro e il costo della cura dei bambini”, che in assenza degli ovvii supporti familiari (nonne e nonni), fa preferire l’abbandonare il campo piuttosto che, a conti fatti, dover spendere per la cura dei figli tanto da non rendere conveniente lavorare fuori casa.
Vi è inoltre da considerare che i 300 casi registrati nel settore ‘servizi’ ed i 175 nel settore commercio comprendono la quasi totalità dei casi; questo dice molto delle organizzazioni nelle quali erano impiegate, evidentemente poco capaci di rendere il lavoro femminile più ‘conciliato’.
Ed un ultimo, solo per ora, argomento tutto da aprire riguarda la numerosità dei dati relativi agli uomini che lasciano per paternità. Anche in questo caso ad una becera concezione della parità può apparire un fatto entusiasmante che 35 uomini nel 2013 (10 registrati per la prima volta nel 2012) abbiano dovuto lasciare il lavoro preferendo ad esso la cura esclusiva dei figli. Ma la realtà potrebbe forse raccontarci che, mentre certo cambiano e si modificano le identità maschili, dietro queste dimissioni vi sia una distribuzione del reddito familiare che sacrifica quello al momento più svantaggiato, cioè quello maschile, sottolineando anche in questo caso la debolezza del mercato del lavoro più che significare una equa e volontaria ripartizione dei ruoli tra le coppie nella cura della prole.
Una osservazione per lo più conclusiva e di carattere più qualitativo vede la questione sotto il profilo simbolico della maternità che, sacrificando ad essa il lavoro, ne innalza la sua importanza. Di conseguenza, la maternità, fenomeno sempre più raro tra le donne sarde, ultime tra gli ultimi nei dati sulla natalità in Italia, diventa centrale tra queste donne che rinunciano ad un lavoro, merce rara almeno quanto i figli che sempre meno si mettono al mondo. In ogni caso e qualunque siano le interpretazioni che si vogliono tentare, i dati sulle dimissioni per maternità sono il volto certificato della discriminazione di genere sul lavoro, senza se e senza ma.
509 persone che nel 2013 lasciano il lavoro (non sappiamo se vi rientreranno mai, in quel ‘mercato’) per accudire in maniera esclusiva la propria figliolanza se da un lato eleva la rinuncia ad una dimensione quasi epica, dall’altro potrebbe mostrare ad una analisi più approfondita e che qui azzardo, che lavori fragili, mal pagati ed insoddisfacenti sul piano del riconoscimento sociale fanno ripiegare le donne verso i loro ruoli ascritti. Dentro questi dati c’è tutta la biografia delle donne sarde (e non solo), di ieri e di oggi che si ingegnano per snodare la propria esistenza avvitata intorno alla complicata relazione tra lavoro-famiglia-emancipazione.
509 persone, tante quanto una grande fabbrica come l’Alcoa, che gettano la spugna; 2.568, per la maggior parte donne, che dal 2008 ad oggi, in maniera silenziosa, frammentata e con scarsa risonanza sociale lasciano il lavoro per i figli equivalgono ad un esercito silenzioso o ad un paese sardo intero inghiottito nel silenzio senza destare nessun clamore sociale.
*Ringrazio la Direzione Regionale del Lavoro per la Sardegna e la Dott.ssa Silvana Dessì che mi ha fornito i dati sui quali ho potuto lavorare alla riflessione
|
Grazie per questo articolo illuminante. Personalmente sono convinto che le dimissioni spontanee siano da attribuire all’assenza di attenzione, da parte della politica soprattutto nazionale, per la famiglia. Se ci fossero politiche di aiuto e di assistenza alle giovani famiglie che mettono al mondo figli (e ce n’è tanto bisogno), se ci fossero servizi sociali adeguati e incentivi fiscali, certamente il novanta per cento di queste dimissioni non ci sarebbe stato. Se gli ottanta euro al mese che il governo si accinge a mettere in busta paga dei lavoratori fossero stati indirizzati solo alle donne lavoratrici in maternità (magari dandogliene centosessanta) avremmo ottenuto benefici sociali molto migliori. Tutti sottovalutano il problema demografico italiano che invece rappresenta l’aspetto centrale che ci porterà (se non si interviene) alla irrilevanza.
Il tema proposto è un tassello importante da collocare rispetto al tema complessivo della evolozuine o meglio involuzione della nostra società.
Alcune emergenze sono indicate:
1. l’evolozione demografica in Sardegna è un aspetto completamente noscosto nessuno ne parla, non rapprersenta una emergenza eppure i segnali drammatici emergono dai dati dell’articolo….. nell’ultima campagna elettorale qualcuno ne ha parlato???? non mi sono accorto.
2. i servizi a supporto delle famiglie sono rari…. in mancanza di nonni e zie disponibili ci vogliono tanti soldi e non è detto che pagando la qualità dei servizi offerti è garantita. Pensiamo a quello che accadrà dopo il 10 giugno qundo chiuderanno le scuole per una famiglia ceto medio è un’avventura!!!!
3. lo sviluppo passa attraverso le opportunità se queste vengono negate, nascoste, alleggerite, cancellate non ci può essere sviluppo. Se una donna che mette al mondo una vita non può continuare a lavorare è una sconfitta per tutti… maschi compresi!