Sardi, (social)democratici, coraggiosi [di Enrico Trogu]
Prontuario per far riuscir male un congresso del Partito Democratico: fretta, tornata elettorale, disaffezione al voto, personalizzazione, corsa agli armamenti e successiva mobilitazione guerresca. Parole chiave per un eventuale progetto di pacificazione e riaffezione rispetto alla cittadinanza: sardità, sardismo, welfare, sinistra, cultura. I miasmi del qualunquismo s’aggirano per ogni dove. Son veleni latori di frasi fatte, di consolatorie generalizzazioni, di pulsioni di destra che si nascondono dietro al mantra della semplificazione; d’altronde è innegabile che la “mappa” ideologica, quel piano in cui ci si spostava da un meridiano all’altro, sia ormai carbonizzata. Di mappe che smuovono l’animo, in Europa, si vedon solo quelle geografiche: una Scozia che annusa l’indipendenza, una Catalogna che rischia di solleticare il franchismo mai sopito di tanta (troppa) classe dirigente riciclatasi cattolica e democratica. La Sardegna non è indenne da ciò: in questa Weimar senza intellettuali si rinverdisce l’albero del territorio-nazione. Già una volta utilizzammo l’esempio dell’alter ego -con i debiti distinguo circa organizzazione territoriale e manifesto programmatico e ideologico- del PD in Catalogna, il Partito Socialista locale; un partito che in sei anni (2006-2012, oggi è alla canna del gas) è passato dal 26,82% al 14,43% (con una tappa intermedia al 18,38%). I socialisti, terminata l’ubriacatura zapateriana, hanno pian piano perso pezzi, mentre le percentuali dei partiti regionalisti, sommate, hanno continuato la loro ascesa, tale da legittimare imponenti manifestazioni di piazza e un referendum da osservare attentamente, e per ciò che significherebbe nel contesto continentale, e per la tenuta di una Spagna la cui tenuta democratica e il restringersi delle libertà civili dovrebbero farci star tutti con le orecchie tese. I socialisti appartengono, nell’immaginario collettivo, alle forze di occupazione. Si dicon catalanisti, ma il filo rosso con la capitale permane. Lo scotto è l’ininfluenza, prima ancora che politica, culturale; da aggiungere, per concludere con la sommaria analisi, che il mondo catalano è avanti di due decenni rispetto alla creazione di identità vissuta/vivibile, e non solo teorizzata. In Sardegna, politicamente, rischiamo di far la fine dei proverbiali indios amazzonici cui si fornisce il motore a scoppio senza fornir prima loro cognizione della sua utilità. Dal mare si riversano sul nostro disagio ideali indipendentisti giunti ormai a maturazione, ma siam privi di infrastrutture. Il problema da porci è quale possa essere il soggetto politico in grado di ergersi a costruttore. Da sinistra-centro? Abbracciare concetti quali bilinguismo, particolarità, diversità, cessazione della subalternità alle prebende -leggasi “patacche ben pagate”- romane, dignità internazionale, incazzatura sulla non rapresentanza in parlamento -e ciò è sostanziale, non numerico- e in Europa, senza abbandonare lo stato sociale, i diritti civili, il popolo? Potrà il Partito Democratico aggiungere la parolina magica, quel “Sardo” che può voler dir nulla, ma può, oggi, significar tutto? Italiani e sardisti, non più sardi e italianisti. Post scriptum. Quella degli indios è un’iperbole, qualsiasi interpretazione spregiativa è in odor di mala fede. http://www.gencat.cat/governacio/parlament2012/es/Electores/Resultados_de_elecciones_anteriores/Resultados_de_elecciones_anteriores.htm http://resultados.elpais.com/elecciones/2012/autonomicas/09/
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