Quando la Sardegna (povera) è il mondo migliore [di M.Tiziana Putzolu]

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Mari, tua madre è mai venuta a trovarti in Sardegna? Noooo, non può. Quando glielo chiedo mi dice sempre che non può lasciare le galline per venire qua! Tira un po’ su le spalle. Mari ė una giovane donna che viene dalla Romania, ha il diploma di scuola superiore, vive in Sardegna da 5 anni. Mari mi ha raccontato la sua storia. E mi ha permesso di scriverla e raccontarla, soprattutto. Mari ė una di quelle donne che colpisce al cuore. In fondo. Mi ha colpito subito. Per quella antica dolcezza del suo viso. Per il suo mite abbassare lo sguardo mentre parla, quando la incontro per strada la prima volta, sotto il sole di luglio; un’amica me la presenta ed io le tendo la mano per salutarla e fare la sua conoscenza. Intorno a noi adocchio due bar stile anni ’60, odore d’estate, di birra e ghiaccioli, una decina di avventori intorno appoggiati al muro. Silenzio estivo. Nessun bambino. Roba per documentaristi alla Fiorenzo Serra. Mari è gentile, mi invita a casa sua. No, scusa, grazie, ora non posso, ma giuro che verrò a trovarti. Più avanti.

Torno. A casa sua e del compagno della sua vita, ormai. Lei e lui compongono una famiglia giovane, una coppia di fatto che vive in un piccolo paese collinare della provincia di Cagliari, campagna ed uliveti. Non hanno figli. Mari lavora come badante, così si chiamano oggi con un termine assai bruttino le tante donne e ragazze, sarde e non, che aiutano altre donne nel lavoro di cura di bambini (pochi) ed anziani (molti). E quando davanti ad un accogliente caminetto autunnale le chiedo di raccontarmi la sua storia, mi guarda stupita. Cosa avrà mai la sua storia di interessante per essere raccontata? In effetti ha ragione, non sarebbero per giunta neppure fatti miei. Ma io sono curiosa, vorrei chiederle perché, perché venire qua, in un posto lontanissimo dalla sua terra. Dove ricchezza non c’è mai stata, quella vera. Anzi, dove c’è sempre stata quella povertà da cui fuggire. E poi lontana da Cagliari, dalla ribalta di una città dove lavorano e vivono tante donne che si ritrovano a far chiacchiere sul lungomare Su Siccu nelle ore libere.

Cosa l’ha spinta, come si è organizzata, giovane donna.  E con chi, era sola? Aveva dei contatti di lavoro? Ha avuto problemi nel viaggio? È arrivata in treno, in autobus. Come. Ha incontrato pregiudizi su di lei? Che ricordi ha della Romania, quella di quando era piccola? Cosa ricorda di Ceauçescu, della dittatura (questo è l’affondo). Con quella dolcezza e quel dialogare diventato ormai disinvolto, si fa prendere per mano e stupita dalle mie curiosità inizia il racconto.

La sua Romania, quella di quando era piccola, era una Romania nella quale tutti lavoravano. Dice lei. Dove tutti stavano bene, non nella ricchezza, ma in una normale povertà. Per tutti. Padre operaio in una fabbrica di saponi, madre, quattro figli. La casa in campagna, le galline, il cortile, l’orto, la scuola in città. Per frequentarla Mari prende il treno tutti i giorni.  Mari percorre un’ora di treno per andare ed un’ora per tornare. Tutti i ragazzi e le ragazze vanno a scuola in Romania. Ma piano piano inizia a pensare ad una svolta per la sua vita. E con un’amica il sogno di un futuro diverso prende forma, diventa organizzazione. Si mettono un po’ di soldi da parte, fatti con piccoli lavoretti estivi. Si contatta una persona che garantisce di farla partire verso l’Italia. Ma qualcosa va storto. Non si fida. Dice Mari. E il primo viaggio salta. La sua amica rinuncia. Lei no.

Mari ricomincia da capo. Di nuovo soldi da parte e dopo qualche mese ci riprova. Cambia contatti. Paga di nuovo. Mari rifà la valigia. Mette dentro poche cose e parte. Da sola. Continua. Quando mi sono trovata sull’autobus, ero sola. Mia madre a terra piangeva. Non credeva che me ne sarei andata davvero. Pensava che fosse una cosa così, che dicevo solo. Quando l’autobus è partito ho avuto paura, sai, molta anche. Ho capito che non potevo scendere, tornare indietro. Tutto poteva succedere, ma non potevo più scendere. Guardavo la Romania dal finestrino, vedevo scorrere il paesaggio, ma non potevo scendere, dovevo andare avanti. Tutto poteva succedere. È andato tutto bene.

Mari dice di essere felice, ora e qua. Lavora, ama cucinare, ha trovato il calore di una bella famiglia che le vuole bene. Mari è una donna libera. La Sardegna per lei è il posto migliore. Volge lo sguardo indietro solo per lasciarsi scorrere le immagini della sua terra, dove non tornerà. Lo sguardo di Mari si riempie di malinconia, come successe quando, guardando attraverso i finestrini di quell’autobus, cercava di imprimersi nella memoria l’odore di gelsi e di neve del paese delle prugne verdi. Immagini e odori che utilizza ogni tanto per trovare consolazione dalla nostalgia per la sua Romania. E per quella madre che non può venire a trovarla perché non si possono lasciare sole le galline.

2 Comments

  1. Antonello Farris

    Per chi vuole “assaporare” la Romania rurale di qualche anno fa consiglio la lettura del libro di Herta Muller “Bassure”. A mio parere un capolavoro letterario. Grazie Tiziana, ciò che scrivi ha la cifra della semplicità, della bella e cara semplicità che di questi tempi non è facile da incontrare.

    • Tiziana Putzolu

      Grazie molte per questo commento, davvero. TP

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