Difendere la stampa onesta è la vera sfida di chi crede nella democrazia [di Maria Francesca Chiappe]

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Pubblichiamo la Relazione introduttiva tenuta da Maria Francesca Chiappe nel Convegno”La Giornata nazionale della memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo”, organizzato sabato 3 maggio 2014 dall’Unione nazionale Cronisti italiani nell’Aula del Consiglio comunale di Cagliari, settima tappa dopo Roma, Napoli, Milano, Genova, Palermo, Perugia. Ringraziamo la giornalista per la disponibilità (NdR)

L’ultimo è stato Vittorio Arrigoni, assassinato nella Striscia di Gaza il 15 aprile 2011,  51 anni dopo  Cosimo Cristina, ucciso a Termini Imerese (Palermo) il 5 maggio 1960. In mezzo ci sono tutti gli altri: 22 giornalisti, 5 operatori tv e un tipografo del Messaggero, scambiato per un cronista dai terroristi dei Nar. Trenta. Sono morti perché raccontavano quello che vedevano, perché indagavano, denunciavano, non cedevano alle intimidazioni della criminalità organizzata o del terrorismo. Sono morti perché nei territori in guerra andavano a cercare le notizie che potessero dare ai noi lettori l’informazione per capire che costa stava succedendo, in Iraq come in Afganistan, in Somalia come nella Striscia di Gaza o in Mozambico.  Sono morti perché noi, tutti noi, potessimo formare la cosiddetta opinione pubblica. Sono morti perché erano giornalisti.

Sono morti, e talvolta non è neanche bastato: alcuni sono stati diffamati anche dopo: <uccisi mentre cercavano di sistemare bombe> (Peppino Impastato) o <per motivi passionali o economici> (Pippo Fava). Si è calunniato. E perché la verità venisse a galla sono passati anni. E per qualcuno (Ilaria Alpi) la verità non c’è ancora, 20 anni dopo.

L’Unione nazionale cronisti celebra ogni 3 maggio, questo è il settimo anno, i giornalisti che hanno perso la vita per mano di mafie e terrorismi. E non è un caso se la giornata cade nel giorno scelto dall’Unesco per celebrare la libertà di stampa in tutto il mondo: l’Unci  vuol ricordare l’impegno sociale di chi è morto a causa del suo lavoro e indicare come esempio quel modo di fare il giornalista.

 Il giornalismo viene spesso svilito e sminuito, vilipeso e  ridicolizzato. Talvolta a ragione, per carità, ma spesso col preciso intento –doloso- di ridurre l’impatto della verità sulla società.

Ricordiamo quindi oggi a Cagliari, in una sede istituzionale, l’Aula del Consiglio comunale, davanti a tante autorità (e  ringrazio tutti voi che siete presenti a questa manifestazione così importante per la categoria di cui faccio parte), i giornalisti uccisi. E ci sono con noi alcuni dei loro familiari che ci racconteranno quelle vite, normali eppure straordinarie.  Siamo qui oggi per ricordare ma anche per denunciare, ancora una volta, che ci sono tanti modi di zittire la libera stampa.

Non solo le pistole, i mitra, le bombe. No. Ci sono mezzi più subdoli e li usano in tanti, non solo mafie, terrorismi e guerre. E sono metodi usati  contro i giornalisti più affermati, dalle spalle solide, che lavorano per testate in grado di difenderli, che scrivono di argomenti di larga diffusione ma anche contro cronisti di piccole testate, di provincia o più locali ancora, magari di siti web o piccole radio. Vengono intimiditi – e il verbo è quello giusto – non con una pistola alla tempia ma con le querele, le cause civile. O meglio: con l’annuncio di querele e cause civili. Annunci che sanno di minaccia. Sì, perché molte volte basta dirlo – ti querelo, ti faccio causa – e uno ci pensa prima di continuare. Anche se ha ragione, anche se sa di essere nel giusto, anche se ha dalla sua la consapevolezza di chi sta facendo il suo lavoro con onestà. Quell’annuncio-minaccia sortirà il suo effetto tutte le volte, e sono la gran parte, in cui il servizio giornalistico non si esaurirà in un solo pezzo.

Perché è difficile continuare un’inchiesta con la spada di Damocle di una richiesta di risarcimento danni, anche se non è milionaria come quelle avviate contro Report o i giornali nazionali. Poche decine di migliaia di euro per una piccola realtà editoriale possono essere una mazzata. Ha voglia il cronista a tenerla dritta, la schiena. Il pezzo deve uscire subito, magari il giorno dopo l’annuncio-minaccia, mentre il giudice che gli darà ragione, si pronuncerà dopo anni, visti i tempi della giustizia italiana (della giustizia, non dei giudici). Che fa secondo voi quel giornalista? Che deve, che dovrebbe fare? Questo è il tema.

Noi siamo qui oggi per ricordare i giornalisti uccisi in nome della verità e li indichiamo come esempio a chiunque voglia fare il cronista. Ma siamo qui anche per parlare di altre forme di minacce, quelle che non sporcano di sangue e che mettono a tacere senza vittime. Anzi, con una sola vittima, che è poi l’obbiettivo vero: l’informazione, la circolazione delle notizie senza le quali non si può formare un’opinione pubblica consapevole.

Ci sono qui tanti giornalisti e tutti sanno di cosa parlo ma io vorrei che il problema fosse chiaro anche tutti gli altri settori della società perché accusare la stampa è facile, facilissimo, basta un tweet o un mi piace su facebook.

Difenderla (la stampa onesta, intendo) è la vera sfida di chi crede nella democrazia. La difendiamo noi cronisti, la libera stampa, facendo il nostro lavoro con onestà e scrupolo, ma la dovete difendere anche voi che ci leggete e che avete, dovreste avere, un interesse personale e collettivo: che noi possiamo essere liberi di raccontarvi la verità su quel che accade. E quando si parla di libertà in materia di informazione il campo si allarga inevitabilmente. Esempio: come può essere libero un giornalista che per un pezzo viene pagato quattro euro, cinque euro, dieci euro sia che abbia lavorato un minuto,  un giorno o un mese su quella notizia? Certo: c’è la crisi, lo sappiamo tutti, e l’editoria sta pagando il suo prezzo.

Ma è innegabile che non si può chiedere troppo a chi, per campare, è costretto a scrivere in un solo giorno anche cinque articoli sui temi più diversi diversi (e c’è anche chi riesce a fare un lavoro dignitoso) o chi,  privo di difese perché non è assunto dal giornale per cui scrive, deve fare i conti con chi gli dice:  ti porto via tutto.

E, guardate, la precarietà nel giornalismo è nota a tutti.  E viene addirittura usata per contestare il lavoro del giornalista. Un mio giovane collega, poche settimane fa,  è stato apostrofato dal preside di un istituto superiore, evidentemente poco contento della cronaca su un episodio accaduto  a scuola. Sapete come l’ha insultato? <Lei scrive solo perché punta ad avere un contratto>. Ora, a parte che quel mai collega il contratto ce l’aveva e c’ha, a termine ma ce l’ha, quel che colpisce è che un insegnante, una persona cioè che dovrebbe indicare ai ragazzi la strada per farsi largo nella vita, abbia usato il lavoro che non c’è, la disoccupazione che  colpisce i più giovani, per screditare, tentare di screditare, la cronista che ha fatto soltanto il proprio lavoro.

Mi fermo qui, anche se le riflessioni sarebbero tante. E cedo subito la parola a Guido Columba, il presidente dell’Unione nazionale cronisti, Franco Siddi, segretario della Fnsi, Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, Leo Zingales, l’ideatore della Giornata della memoria, Francesco Peretti, presidente dell’Ordine dalla Sardegna, Francesco Birocchi, presidente dell’Assostampa sarda.

 

 

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