Ricreazione. Una scuola di qualità di tutti e per ciascuno [di Silvano Tagliagambe]
Capita ormai quotidianamente di sentire enunciare, con disinvoltura se non con sicumera, concetti senza che se ne comprenda il significato e l’incidenza. Così si parla sempre più spesso di “capitale umano” e sembra che tutti siano consapevoli del fatto che esso costituisce ormai un motore imprescindibile dello sviluppo, la cui accumulazione alimenta l’efficienza produttiva, sospinge la remunerazione del lavoro e degli altri fattori produttivi, per cui la sua disponibilità assume un valore cruciale che trascende chi ne usufruisce in prima istanza: essa infatti promuove la generazione e la diffusione di nuove idee che danno impulso al progresso tecnico; migliora le prospettive di remunerazione e, chiudendo il circolo virtuoso, accresce l’incentivo all’ulteriore investimento in capitale umano. Allora se le cose stanno così e se ha senso assimilare la conoscenza ad altre forme di capitale, ad esempio a quello finanziario o a quello produttivo, dovremmo trarne conclusioni che risultano particolarmente scomode e che proprio per questo si evita di prendere in considerazione. Pensiamo, per fare un esempio, a che cosa succederebbe se l’insieme delle risorse e dei mezzi finanziari messi a disposizione di un’impresa dai proprietari e dai prestatori esterni per le esigenze dell’attività aziendale calasse, in un arco di tempo limitato, del 25%. Si darebbe la caccia ai responsabili che verrebbero chiamati severamente a rispondere di questo sperpero e ne subirebbero immediatamente le conseguenze. Per quanto riguarda il capitale umano le cose vanno diversamente. Dal 2008 al 2010 nel nostro paese c’è stato un rapido aumento della percentuale del noto fenomeno dei NEET, ovvero dei giovani che tra i 15 e i 29 anni non studiano, non lavorano né cercano un impiego, arrivata al 23%, precipitando l’Italia negli ultimi posti delle statistiche internazionali, e nessuno ne risponde. Nel suo discorso di apertura dell’anno scolastico in corso l’allora ministro della Pubblica Istruzione Carrozza ha detto testualmente:
“Siamo lontani dai parametri europei. La Strategia Europa 2020 punta a scendere sotto il 10% di dispersione scolastica entro il 2020: il dato italiano del 2012 si attesta al 17,6%, a fronte di una media europea del 13,5%. Anche se il dato italiano appare in discesa rispetto agli ultimi anni, si riscontrano ancora picchi elevatissimi, soprattutto nelle isole (Sardegna, con il 25,8% e Sicilia, con il 25%) e al Sud”. Nonostante questi numeri impressionanti nella nostra regione, alla quale va il triste primato della dissipazione di risorse umane, nessuno è stato chiamato a render conto di questo drammatico ammanco. Eppure si tratta di una disfatta la cui portata è paragonabile a quella subita dall’esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo della battaglia della foresta di Teutoburgo ad opera delle tribù germaniche comandate da Arminio in cui tre intere legioni furono annientate. La notizia, a quanto si dice, sconvolse l’imperatore Augusto al punto da strappargli un grido di disperazione rimasto celebre: “Varo, rendimi le mie legioni!” e da fargli considerare l’anniversario di quella sconfitta come un giorno di lutto e di disperazione. Qui nessuno si è minimamente sognato di chiedere agli assessori di turno di rendergli i suoi studenti smarriti per strada e si è preoccupato di mettere in atto misure per arginare questa perdita. La riflessione che Luigi Berlinguer sviluppa nel suo ultimo libro, che verrà presentato a Cagliari al Liceo Siotto giovedi prossimo, prende avvio proprio da questa situazione di irresponsabilità generalizzata. E fa un certo effetto sentire un intellettuale di grande spessore, un prestigioso accademico prestato alla politica, dove ha esercitato e continua a svolgere funzioni di grande rilievo, scrivere in proposito: “Mi pongo il problema dall’ottica della responsabilità pubblica, cioè di chi deve rispondere del patrimonio del paese. Temo che colui che vive la sua vita professionale nello splendido distacco della propria missione non sia stato messo in grado di cogliere la valenza generale, non solo scolastica, di un tale dispendio di energie. Non invoco pertanto la sensibilità sociale, che è un fatto privato, poiché chi non ce l’ha non credo se la possa dare. Ma ritengo indispensabile che chi esercita professioni educative o ricopre ruoli istituzionali debba analizzare il nuovo contesto e le istanze emergenti; abbia il dovere di conoscere il rapporto oggi ineludibile fra la domanda di sapere proveniente dall’economia della conoscenza e la richiesta di formazione per tutti manifestata dalla società. Va preso atto del valore straordinario e inedito sotto il profilo sociale e produttivo che riveste l’ampliamento dell’educazione. Sostenere la scuola equivale a sostenere la società. Non contrastare la dispersione scolastica vuol dire lasciar affossare la società”[1]. Lasciare affossare la società è una colpa grave. Se coloro ai quali è stata affidata la responsabilità di governare questi processi non riescono a fare nulla per superare mali storici da non accettare come castighi divini ne devono rispondere. Il sacrificio delle risorse umane, la dissipazione e lo spreco delle intelligenze e delle conoscenze è uno dei crimini più gravi che chi assume la guida di un sistema sociale possa commettere. Eppure la politica continua a fare come se nulla fosse, continua a sfornare riforme e interventi tutti dettati da esigenze economiche e dai numeri più che da un nuovo approccio pedagogico o di insegnamento e a considerare i ministeri e gli assessorati della pubblica istruzione e della cultura come caselle da riempire secondo le solite logiche dei pesi e contrappesi e degli equilibri tra i partiti e i gruppi di potere interni a essi. Il risultato, inevitabile, è che il male si aggrava e si arriva al quadro allarmante denunciato da due ministri della Pubblica Istruzione della Repubblica, Luigi Berlinguer nel libro di cui stiamo parlando e Maria Grazia Carrozza nell’intervento che ho appena riportato, senza che nessuno senta il dovere morale di operare una decisa correzione di rotta. Ha ragione Berlinguer: qui non è questione di sensibilità sociale, che è un fatto privato. È un problema di etica pubblica, di rispetto del mandato ricevuto dagli elettori, di responsabilità sociale e culturale. Ricreare la scuola, renderla conferme alle nuove esigenze, cambiarla in modo da cercare di guarire gli evidenti malanni di cui soffre e che producono i risultati che sono sotto gli occhi di tutti e i dati allarmanti che sono stati qui sommariamente citati è un’operazione immane, che richiede conoscenze e competenze, quella sensibilità che “chi non ce l’ha non credo se la possa dare” e un lavoro di squadra, capace di attrarre e di utilizzare al meglio tutte le risorse di cui la società può disporre e di mettere a frutto le esperienze positive del passato e le sperimentazioni più creative e innovative che sono state fatte e continuano a essere realizzate all’interno dello stesso sistema formativo. Questa battaglia esige che si cominci a riflettere seriamente sul rapporto tra cultura, scienza e tecnologia, che si affronti la questione dell’analisi culturale della tecnologia e di un approccio tecnologico alla cultura, superando una volta per tutte, come auspica Berlinguer, ”la classica immagine dell’intellettuale italiano che spesso ignora la tecnologia e la tecnica ma pretende di riflettere in maniera critica su entrambe”[2]. Impone di affrontare il tema dell’interazione e della sempre più necessaria alleanza tra le tre culture in cui si articola ormai il nostro sapere, quella scientifico-tecnologica, quella delle scienze sociali e quella umanistica che un bel libro di Jerome Kagan[3], uscito di recente, paragona alle tigri, agli squali e ai falchi, per sottolineare il fatto che ognuno di questi gruppi di animali è potente el suo territorio, ma impotente nell’ambiente dell’altro. Obbliga a confrontarsi con il triste fenomeno del “rinuncianesimo”, come lo chiamano gli studenti più vigili e consapevoli, vale a dire con l’inquietante tendenza, che sta prendendo piede tra i giovani che frequentano la scuola, a “disarmarsi”, a rinunciare a capire il mondo in cui vivono e la vita quotidiana, arrendendosi al caso, senza un progetto di vita, senza uno scopo. Le aule, da ambienti di apprendimento e di aggregazione, di comunità, di condivisione, di confronto e di dialogo tra le generazioni, quali sono sempre state e devono continuare a essere, rischiano così di diventare il regno di solitudini profonde e il luogo di ritrovo di rinunciatari passivi. Per evitare questo esito, che sarebbe letale per il paese e ne segnerebbe l’irreversibile declino, occorre risvegliare il protagonismo e la partecipazione attiva degli studenti, permettendo loro di prendere in mano gli oggetti di studio, qualunque essi siano, di smontarli e di rimontarli a piacimento, in modo da sviluppare dialettica, comprensione e senso critico. Come oggi si può fare, tanto per fare un solo esempio recente e di grande successo, con i “littleBits” di una startup di New York, che ha trovato il modo di miscelare i Lego con l’elettronica, proponendo strutture di tipo modulare con dei mattoncini elettronici che vanno assemblati per creare circuiti. Grazie a dei magneti basta avvicinarli tra loro per connetterli: ogni gruppo di moduli è contrassegnato da un colore che ne distingue la funzione, il blu per la sorgente, il rosa per gli interruttori, il verde per la resistenza e l’arancione per i cavi. Sopra ogni modulo ci sono delle annotazioni che insegnano al piccolo utente come posizionare i diversi pezzi e in quale direzione fluisce l’energia. La modularità stimola e diverte e la varietà delle possibilità che si aprono consente di creare esperimenti interessanti e sempre nuovi. Questo tipo di approccio può essere applicato anche alle strutture linguistiche e concettuali più astratte, che possono anch’esse venire smontate e rimontate per assimilarle e “digerirle”, così come raccomandava di fare già Moltaigne, ricordato e citato da Berlinguer nel suo libro: “Noi teniamo in serbo le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. Bisogna farle nostre. A che cosa ci serve a pancia piena di cibo, se non lo digeriamo? Se esso non si trasforma in noi? Se non ci fa crescere e non ci rende più forti?”[4]. Emerge così e s’impone la visione dell’apprendimento come una costruzione piuttosto che come una trasmissione di conoscenze, dettata dalla convinzione che l’apprendimento medesimo è più efficiente quando rientra nel quadro di un’attività alla quale si partecipa e di cui si è protagonisti e che sfocia nella produzione di un prodotto significativo e nella elaborazione di rappresentazioni più o meno corrette e funzionali del mondo con cui si interagisce. L’esempio dei “littleBits”, che ho proposto non a caso, sta a significare, concretamente, che per rendere realmente efficace l’introduzione delle LIM e dei computer e tablet nell’attività scolastica occorre, in primo luogo, riflettere sulle tecnologie di fronte alle quali oggi ci troviamo e con le quali dobbiamo necessariamente fare i conti. Esse non sono soltanto un mondo di macchine, di attrezzi e congegni meccanici, di apparati fisici (l’hardware), o un insieme di regole, di programmi, di codici e di algoritmi necessari per far funzionare le macchine (il software), ma anche e soprattutto strumenti di costruzione di competenze e competenze e di socializzazione e organizzazione (il cosiddetto brainware o knoware). Questo è il terreno sul quale occorre scendere e in cui ci si deve confrontare se si vuole “ricreare” la scuola, come ci invita a fare Berlinguer, con il quale si discuterà giovedi in un dibattito che viene proposto con la formula dell’incontro aperto proprio per sollecitare e ricevere dal basso, dai docenti e dagli studenti in primo luogo, stimoli e proposte che, si spera, possano giungere fino alle orecchie di chi ha la responsabilità di governare il sistema scolastico regionale. [1] L. Berlinguer, Ri-creazione. Una scuola di qualità per tutti e per ciascuno, con C. Guetti, Liguori, Napoli 2014, p. 11. [2] Ibidem, p. 160. [3] Jerome Kagan, Le tre culture, Scienze naturali, scienze sociali e discipline umanistiche nel XXI secolo, tr. it. Feltrinelli, Milano 2013. [4] L. Berlinguer, Ri-creazione. Una scuola di qualità per tutti e per ciascuno, p. 32.
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L’uomo come…… capitale umano!
Sarebbe una considerazione normale per il progresso, quale presupposto per lo sviluppo dell’umanità. La conoscenza diffusa, la consapevolezza di ogni individuo di poter contribuire alla pari con gli altri, alla crescita e allo sviluppo della società in cui vive, il sentirsi coprotagonista di un progetto di vita, sprigionerebbe energie e creatività inaspettate in ogni cittadino.
Ma ohimè , il sistema di governo del mondo, politico ed economico, non sembra privilegiare la crescita collettiva, intellettiva e umana dell’individuo. Tutto basato sulla legge del massimo profitto con il minimo dispendio di investimenti, anche l’intelligenza umana viene quantitativamente misurata e sviluppata in termini strettamente necessari a garantire lo sviluppo economico ed i profitti delle classi dominanti in quel momento e contesto, garantendo la concentrazione del benessere nelle mani di pochi, e contenendo il benessere generale tale da controllarne la moderata godibilità; in ogni caso tutto funzionale al mercato e all’accumulazione del capitale economico-finanziario. Diversamente non si spiegherebbe come parte della quantità di risorse prodotte, pur sufficienti a soddisfare le esigenze dell’umanità, non sono distribuite, ma distrutte per non compromettere la concorrenza e abbassare i prezzi del mercato.
Così son funzionali al sistema non un’intelligenza diffusa, ma poche intelligenze scelte e controllate, funzionali al sistema in quel momento, fino a quando la risorsa da sfruttare non sarà esaurita o non più di convenienza economica…….
Ho detto, inutilmente, un sacco di cose ovvie, ma tant’è : ogni giorno andiamo dicendoci cose già dette sia per darci conforto che la strada da perseguire, e a cui crediamo, sia quella della crescita umana, in primis , e della crescita economica poi……
Non so se possiamo dire che: se non ci fossero ignoranti, saremo più istruiti tutti, ed anche più intelligenti e creativi; come anche, dico io, se non ci fossero poveri saremo tutti ricchi. Una tautologia, un’utopia! Ma l’utopia ci guida nella speranza, e così speriamo di migliorare, e ci impegniamo per questo.
Così anche Luigi Berlinguer non dispera e propone ulteriori riflessioni sul miglioramento della struttura scolastica. Lui che oltreché docente, è politico ed è stato ministro della Pubblica Istruzione, si sente quest’impegno appiccicato addosso, benché, con tutte le sue buone intenzioni, da ministro non abbia sortito le attese sperate, e la reazione lo abbia criticato con appellativi poco lusinghieri, confondendo, distorcendo e distruggendo un progetto che poteva ancora essere migliorato.
Al di là del “progetto impalcatura” della scuola, che deve costituire il supporto necessario delle operazioni che devono esplicarsi nel “fare scuola” ogni giorno, è proprio su quest’aspetto che si è imperniato il maggior dibattito, sollecitato anche dallo stesso Berlinguer: PARTIRE DAL BASSO, perché nel mentre che si attende il divenire…… non si precipiti ulteriormente in un baratro con risalita irreversibile.
Questo può essere purtroppo una realtà in un mondo globalizzato, dove i paesi più arretrati stanno risalendo, seppur per effetto dello sfruttamento della risorsa materiale umana, quale la forza lavoro a poco prezzo. I paesi, come il nostro, ormai si sa, potremo concorrere soltanto spingendo sulla ricerca scientifica e sulla tecnologia……ambiti dove l’Italia sta invece arretrando, riducendo i finanziamenti.
Nel mentre la nostra scuola è proprio allo sbando: un corpo docente demotivato, svilito sia nel suo riconoscimento sociale ed economico, che nella carenza di strumenti necessari alla didattica,……. Le motivazioni di apprendimento dei giovani,…. e studenti sono nulle, pochi i progetti di originali sperimentazioni didattiche tali da incidere nel sistema sociale come una volta, ormai disperso….. e per il sussistere in contemporanea dei sistemi di informazione che contribuiscono a diluire e banalizzare la conoscenza.
Sebbene la nostra scuola sia stata sostenuta in vita dal corpo docente che, svolgendo una funzione singolare nel seno della società, non può sfuggire all’impegno che è anche di educatore ed in quanto tale anche maestro, questi non potrà vedere riconosciuto il proprio lavoro, se continua a lavorare isolatamente ( in una scuola di massa), seppur con meritevoli iniziative e proprie profonde conoscenze della materia. Bisognerà certamente inventarsi nuovi metodi didattici, forse anche nuovi modelli strutturali e funzionali del fabbricato scuola, ma in primis, dopo la necessaria competenza e conoscenza del docente, è indispensabile anche ilcoordinamento dei docenti, con progetti a livello d’istituto e anche con il coordinamento fattuale e concreto del Consiglio di classe.
Io credo che il “Consiglio di classe” sia la cellula base che, se ben programmata, possa permettere il coinvolgimento della classe, motivando lo studente nell’approccio alla conoscenza.
Il progetto di ogni materia, deve armonizzarsi con il progetto generale, da portare a compimento unitariamente, e da verificare in varie fasi nel corso dell’anno. Nessun docente può sfuggire all’adempimento del proprio impegno, salvo mandare a monte tutto il progetto ed il lavoro degli altri docenti. Questo lavoro motiva ulteriormente il singolo docente, per la riuscita di un lavoro collettivo, e la cui negligenza sarebbe vistosa e avvilente per essere sottoposta al giudizio degli altri docenti.
Purtroppo oggi i Consigli di classe sono completamente svuotati delle loro funzioni, sebbene le contengano. Per questo bisogna rendere le norme più rigorose e cogenti nella loro applicazione.
La buona valutazione del rendimento della classe, costituisce anche il buon giudizio del corpo docente.
Iniziamo dal basso, con uno strumento che già abbiamo ma che bisogna rendere fattivo con l’impegno serio dei docenti, che solo così possono oggi riscattare la loro professionalità, sempre più scaduta, per contribuire a risollevare le sorti della scuola, motivo e orgoglio del lavoro di ogni rispettabile maestro.
Seppelliamo, nella scuola, il moto : chi meno si impegna avrà meno riconoscimento economico. Seppelliamo questa rincorsa all’incentivo per il merito: nella scuola non ci deve essere un docente che non sia meritevole, perché non manipola oggetti che possono essere riparati o ricostruiti se vengono male.
Nelle mani del maestro, che insegna l’apprendimento con il gioco e la manipolazione, nelle mani del docente c’è la responsabilità della formazione dell’uomo, di quell’uomo che vorremo a sua volta costruttore del suo avvenire in armonia con gli altri…..