Alba libre [di Leonardo Mureddu]

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La scrittrice Alba de Céspedes collaborò a lungo col settimanale Epoca. Prima una rubrica di posta, e in seguito una sorta di diario, un blog. Osservava il mondo da posizioni e con occhi privilegiati, come spesso capita a chi ha genitori di nazionalità e lingue diverse e provenienti da famiglie agiate. Le sue origini cubane da parte di padre, di quella Cuba che solo da pochi decenni era libre dal dominio spagnolo, ma soggetta al regime del dittatore Batista, traspaiono spesso nei suoi scritti, o meglio nello spirito di indipendenza ideologica e culturale che li pervade. Scrive esplicitamente di Cuba, di suo padre e di questioni politiche, nel gennaio del 1959, per celebrare la caduta di Batista e l’avvento di Fidel Castro. Vale la pena leggere questo articolo, profondo come sempre e ironico, ma anche pieno di affetto per la sua isola.

Dal Diario di una scrittrice, Epoca, gennaio 1959: “Sono rientrata in Italia per qualche giorno. L’anno nuovo incomincia bene: Fidel Ca­stro ha costretto Batista ad abbandonare il go­verno di Cuba e a fuggire all’estero.

Da quando ho appreso questa notizia non faccio che pensare a mio padre. Fu contro di lui – eletto presidente della Repubblica dopo la caduta del dittatore Machado – che Fulgen­cio Batista ordì la famosa «rivolta dei sergen­ti» del 4 settembre 1933. Mio padre è morto da vent’anni, amareggiato per la sorte del suo Paese. Perciò è con profonda soddisfazione che immagino Batista fuggire nottetempo dal pa­lazzo presidenziale dal quale mio padre uscì in pieno giorno, dignitosamente, rifiutandosi di riparare all’estero. Ma mio padre non aveva commesso atti di violenza, il suo governo era composto di onesti liberales ed egli non ave­va una fortuna, rubata al popolo, da porre in salvo. I dittatori fuggono sempre, abbandonan­do d’un tratto quel fare militaresco, spavaldo, tracotante («virile», dicono i loro ammirato­ri) che hanno ostentato, difesi dalla loro poli­zia, mentre pronunziavano discorsi dall’alto di un balcone o di un podio. Fuggono, travestiti, nascosti nel fondo di un camion o di un aereo. Sono sempre vili. Il loro potere si fonda sulla violenza, sul denaro, sulle cose, non sulle idee; e, dunque, non può suggerire il coraggio ne­cessario ad affrontare apertamente le estreme conseguenze delle proprie azioni.

Da circa venticinque anni, cioè da quando durava a Cuba la dittatura, ogni volta che di­chiaravo di essere cubana vedevo spuntare un sorriso sulle labbra dei miei interlocutori. «Co­me sta il sergente Batista?» mi domandavano, certo ignorando per quali dolorosi motivi quel­la domanda fosse inopportuna. Una volta Leo Longanesi mi domandò : «Ma come si fa a sop­portare la dittatura di quell’ex sergente dal no­me di stoffa?». Era una delle sue battute spiri­tose e tutti risero. Eravamo nel ’39 e nessuno si rendeva conto che in Italia si sopportava da molti anni la dittatura di un ex caporale, dal nome che ricordava un’altra stoffa, anche me­no pregiata. Ma tant’era. Ed io, pur detestando Batista, dovevo riconoscere che egli non aveva emanato nel proprio Paese una legge contro gli ebrei, né avrebbe mai osato dichiarare guer­ra a una potenza come gli Stati Uniti e al mon­do intero. E che, seppure aveva cambiato la sua divisa di sergente con quella di generale, non aveva inalberato ridicoli pennacchi, caval­cato corsieri bianchi, snudato spade, non si era mai camuffato da minatore, né aveva tagliato la canna da zucchero, travestito da contadino.

Cuba è molto lontana. Da qui si immaginano i cubani ballare sempre la rumba, fumare si­gari come, lì, si immaginano gli italiani sonare sempre il mandolino e mangiare spaghetti. I turisti vanno a fare i bagni a Varadero come, da noi, vanno a Capri. Mare azzurro, notti splendide. Del Paese, però, non sanno nulla. La maggior parte dei giornalisti si ferma all’Ava­na, nei night-clubs, nei casinos come da noi in Via Veneto o nei ritrovi notturni decorati con false vestigia romane. Non conoscono né San­tiago né Camaguey, Bayamo, Trinidad, né le piantagioni di zucchero né i pascoli sterminati. Sono entrati – al massimo – nelle favolose di­more degli avanesi ricchi. Se viaggiassero, se vivessero qualche anno a Cuba, se potessero ab­bandonare (ma come potrebbero?) la loro men­talità di passanti, si renderebbero conto che Cu­ba non è quella che sembra a tutta prima, un Paese da vacanza, e che nei cubani più forte dell’amore del denaro, del lusso, del divertimen­to, è l’amore della libertà. L’hanno conquistata da poco (giusto da sessant’anni), sono stati gli ultimi a liberarsi dalla dominazione spagnola. Infatti, nei brindisi ufficiali, nelle liete ricorren­ze familiari, si brindava ancora a Cuba libre. «Viva Cuba libre» dice l’operaio, il facchino al quale offri un bicchiere di rum, come, da noi, un bicchiere di vino.

Chi non conosce Cuba dovrebbe indugiarsi ad osservare le fotografie di Batista e di Castro che sono state pubblicate, a fianco, nei nostri quotidiani. Conoscerebbe, così, i due volti dell’isola: dietro lo sguardo furbesco l’aspetto so­lido, tutto materiale, di Batista vi sono quegli affaristi pronti alla camorra, all’imbroglio (nu­merosi anche nel nostro Paese) e dietro l’aspet­to grave, romantico di Fidel Castro vi sono los abogados, los letrados, los licenciados. Lì uomo di legge, uomo di lettere, vuol dire: difensore della libertà. E i turbolenti estudiantes non so­no soltanto giovani di vent’anni, ma, per esten­sione, tutti quelli che hanno fatto studi, che si sono, un giorno, iscritti a una Facoltà che poi hanno disertato. Liberales, che, lì, è un termine piuttosto vasto e serve a definire tutti gli uo­mini di idee civili e libere. Mio nonno, nell’abolire la schiavitù, disse ai propri schiavi che rap­presentavano, per lui, un importante capitale: «E per provarvi che siamo liberali tutti voi siete liberi». Anche lui era avvocato, figlio di ricchi, studioso di storia e di filosofia; anche lui, come Fidel Castro, bruciò la sua casa, che conteneva una importante biblioteca, bruciò le sue piantagioni, il suo «ingenio» La Demaja­gua (le cui rovine sono oggi venerato monu­mento nazionale) e con la campana che servi­va per chiamare al lavoro gli operai chiamò i cubani della provincia di Oriente alla rivolu­zione. Anche lui, come in un recente passato Fidel Castro, era rimasto con pochi uomini: «Bastano per fare l’indipendenza di Cuba» dis­se. Gli orientali accorsero. Egli fu il primo Pre­sidente della Repubblica armata; e fu poi uc­ciso, dieci anni dopo, dagli spagnoli – dopo aver sparato fin l’ultimo colpo della sua pisto­la – mentre si recava, solo, a insegnare a legge­re e scrivere agli analfabeti.

La rivoluzione, a Cuba, è sempre nata dalle classi intellettuali, da ricchi che, per accostarsi al popolo, hanno voluto conoscere la stessa po­vertà. Le armi, allora, erano pagate con le pian­tagioni e le case. Gente di vecchia razza spagnola che, per tradizione di casata, non sop­porta la volgarità, inevitabile in ogni dittatura; gente orgogliosa che non resiste a vivere umi­liata e che, con la forza della propria ragione, ama difendere gli sprovveduti e i deboli. Ai dit­tatori si debbono, come sempre, molte opere pubbliche: la grande strada nazionale che tra­versa l’isola si deve a Machado, sotto Batista l’Avana è divenuta una grande città modernis­sima, dall’architettura ardita e, quasi sempre, di buon gusto. Ma è nei portales delle vecchie case, nei caffè della vecchia Avana, nelle veran­de dell’aggraziata piazzetta Carlos Manuel de Céspedes a Santiago – che potrebbe servire da scenario al Don Giovanni – nei vecchi patios di Camaguey e di Bayamo, che gli avvocati, i magistrati, gli uomini di pensiero, si raccolgo­no e, mentre si dondolano nelle pesanti sedie di mogano, parlano della libertà. Sanno a memo­ria la storia del loro Paese, ricercano notizie ne­gli archivi, scrivono libri pubblicati dall’Acca­demia della Storia. Si dondolano, per trovare refrigerio al caldo; e, intanto citano Marti ad alta voce nella limpidezza stellata della notte tropicale. Con lo stesso ritmo ondeggiano, nella brezza, le chiome delle alte palme dal tronco bianco ove – secondo la leggenda – sono rinchiu­se le candide anime degli indios sterminati da­gli spagnoli. I cubani hanno grande rispetto per gli indios, tutti ormai scomparsi; per quel loro capo Hatuey che, già legato sul rogo, al cappellano che voleva convertirlo, descriven­dogli le gioie del paradiso, domandò : «In pa­radiso ci vanno anche gli spagnoli?». E, alla risposta affermativa, replicò: «Allora, io, pre­ferisco non andarvi» raddrizzandosi orgoglio­samente tra le prime fiamme che lo lambivano.

In un Paese ricco, dove ci sono tanti poveri, dove il popolo ha tutte le buone ma anche tutte le cattive qualità dei Latini, un dittatore può sempre riuscire ad imporsi; ma non si deve fi­dare. La storia di cui s’inorgogliscono i cubani è storia di liberazione; le famiglie della borghe­sia intellettuale – spesso povera o appena bene­stante – contano tutte numerosi veterani della guerra del ’98, antenati morti sul campo o fuci­lati dagli spagnoli durante la guerra dei dieci anni, iniziatasi nel ’64. E se i dittatori non pos­sedessero la spavalda incoscienza fornita loro dal servilismo di quelli che li circondano, e che li lasciano all’oscuro dell’opinione popolare, Fulgencio Batista avrebbe dovuto sentirsi da tempo mal sicuro in un Paese dove la bevanda nazionale si chiama Cuba libre.

*Tecnologo presso l’INAF

One Comment

  1. Salve Leonardo! Grazie di questo bellissimo articolo.

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