Il linguaggio è politica [di Nicolò Migheli]
Berlusconi chiude la sua vita parlamentare con il maramaldeggio di Vito Crimi, senatore del M5S. Quasi un epitaffio per chi dell’ostensione del corpo aveva fatto l’essenza della sua comunicazione politica. Vittima di quello sdoganamento della volgarità che le sue tv e giornali hanno usato prima per conquistare fette di mercato, poi per imporre il proprio movimento politico. Chi ha memoria ricorda gli insulti che dovette patire la senatrice a vita Montalcini o i continui sberleffi leghisti, sempre derubricati in burla dai corifei di regime. Chi si è indignato per un simile linguaggio lo deve fare oggi anche per quello di Vito Crimi. La cifra è identica: il dileggio della vecchiaia e del corpo incontinente. Il precipitare del linguaggio è stato causa e conseguenza della progressiva perdita di prestigio delle istituzioni e della politica. Già l’uso della metafora della discesa in campo, portava inevitabilmente il meglio e il peggio, insulti razzisti compresi. Una scelta voluta. Ferrara, Feltri e Sgarbi lo hanno persino teorizzato. Il politicamente corretto visto come una inutile ipocrisia. Un pane al pane e vino al vino del tutto estraneo alle tavole popolari a cui dicevano di ispirarsi. Lo stesso concetto di volgarità in bocca a quei signori non riesce più a definire simili comportamenti. Il volgare è tale in quanto inconsapevole, in quanto frutto di linguaggio povero. Non è certo così, per chi domina gli strumenti complessi delle analisi filologiche, della critica dell’arte, delle letture filosofiche. No, è aggressione pura. È l’untermensch, il sub-umano nazista. Togliere umanità all’altro, espellerlo, per poi poterlo distruggere, come nel caso di un ministra di colore definita come una scimmia. Una modalità che vive dello stigma, del rimarcare il difetto fisico, il tic, le appartenenze e frequentazioni. Il non riconoscimento dell’alterità come prassi. Parole che in bocca ad esponenti delle istituzioni sono di una gravità assoluta. Il preludio al parlamento come bivacco di manipoli. Un eletto non può esprimersi come un comico televisivo; tantomeno rispecchiare una base insultante che scrive in quei luoghi senza mediazione che sono diventati le reti sociali. Il parlamentare come espressione del peggio dei suoi elettori. Modi di essere che influiscono sul senso comune alimentando la disgregazione sociale ed una conflittualità permanente. Le società contemporanee tendono ad essere sempre di più multiculturali, l’omologazione della società industriale classica si è rotta definitivamente. Una realtà policentrica che quotidianamente si rapporta con sensibilità differenti. Tutti sono diventati minoranza. Ecco perché gli USA, hanno prodotto il politicamente corretto. Il linguaggio è spesso involontariamente discriminatorio. Il termine “negro” è connotato negativamente, anche se si può dire “nero” con lo stesse intenzioni. Però la neutralità della parola “nero” è di aiuto per non debordare. Le società complesse hanno bisogno di una ecologia del linguaggio pubblico. Uno strumento che serva per costruire ponti e relazioni, che agisca da mediatore su posizioni differenti, in modo che nessuno di senta escluso o peggio oggetto di rifiuto e stigma negativo. I difensori delle autenticità intese come espressioni dirette, diranno che questo è un comportamento ipocrita. Ebbene sì. Lo è, nella misura in cui una leggera ipocrisia salva le relazioni tra persone, smussa il conflitto, previene conseguenze ben più gravi. La società pastorale sarda aveva fatto dell’uso del linguaggio un scienza perfetta. Un vecchio pastore mi disse che le parole sono come le pietre, una volta dette non tornano più indietro; aggiunse anche: “Se si dicesse sempre quel che si pensa realmente, la gente si ucciderebbe per strada molto di più di quanto non faccia.” Aveva la seconda elementare ed una sensibilità degna del più abile diplomatico. Il paragone non è eccessivo, in quella società la responsabilità non era mai solamente individuale, coinvolgeva la famiglia e spesso anche il clan di appartenenza. Di conseguenza molta attenzione a quel che si diceva e come. Quindi il linguaggio è politica. È modalità che connota la relazione tra interessi diversi e spesso anche concezioni del mondo differenti. Lo scontro, anche quello duro, non ha bisogno della denigrazione. Con il metodo dell’insulto si provoca solo chiusura, anche perché esistono temi che sono di interesse comune, che vanno oltre le appartenenze. In quel caso se non si dialoga con gli avversari, come sarà possibile raggiungere il risultato? Solo con chi la pensa nello stesso modo? Ancora una volta una dialettica ed una pedagogia del riconoscimento reciproco. Ora che Berlusconi sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo- limitato nel suo agire politico, in molti sperano che ci sia una possibilità di incontro tra chi si è combattuto aspramente negli ultimi vent’anni. Il berlusconismo però non scomparirà se permarrà il suo mondo valoriale, se non si comprenderà che egli ha agito nel costume e nel profondo degli animi. Una colonizzazione dell’immaginario e del simbolico anche di chi gli si opponeva. Bisognerà cominciare dal linguaggio. Sono le parole che fanno la differenza. Occorre esserne convinti.
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