Quale rinascita? [di Andrea Carandini]

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Pubblichiamo la Relazione del Presidente nazionale del Fondo Ambiente Italia (FAI) in occasione del XVIII Convegno Nazionale dei Delegati e Volontari ” Quale Rinascita?”  tenutosi a Ivrea- Stabilimento Olivetti ed al Castello di Masino da Venerdì 16 a Domenica l8 maggio (N.d.R.).

Aria, acqua, terra, piante e animali sono malati nel mondo e altrettanto i paesaggi, le cose storiche, l’arte e lo stesso uomo. E’ la civiltà in origine occidentale della tecnica, che l’intero globo ha pervaso, a decadere. Ma se in Oriente sono sopravvissute, accanto alle tecnologie, consuetudini comunitarie che riescono a compensare le moderne unilateralità – in India sono ancora venerati dèi plurimillenari -, in Occidente le liberal-democrazie soffrono per unilateralità troppo accentuate. L’individualismo, che si è sviluppato alla fine del ‘600 e che ha donato le irrinunciabili libertà personali, ha raggiunto però l’eccesso. Il culto narcisistico del corpo e del presente sta rovinando ogni profondità del mondo interiore e quello esteriore è minacciato da rifiuti, veleni e cemento; i pendii franano e la cultura è stata degradata a volgare intrattenimento. Tecnica e Mammona – dèe dalle plurime braccia – hanno divorato natura e storia; e l’universo digitale e mediatico diventa sempre più fine a sé stesso.

A portarci in questo brutto angolo è stata la frantumazione, esito del primato di una economia andata a svantaggio del resto della vita; sono state le crepe sociali e ideali imposte dall’industrialismo. Così un antropocentrismo borioso ha scardinato l’essenza stessa dell’uomo. I mali descritti sono evidenti nel globo e vengono ogni giorno denunciati. Ma non è lamentandosi e invocando generale salvazione che riusciremo a imboccare il migliore cammino. Bisogna, al contrario, tentare di mitigare il male e di favorire il bene in ogni possibile concreto. Ciò impone un ritorno a forme più solidali, senza il miraggio di armonie mai esistite e che mai esisteranno, dato il legno storto di cui l’umanità è fatta.

Serve, soprattutto, ritrovare uno spirito “religioso”. Per i romani la religio stava nel religare, cioè nel legare insieme, essendo il tutto della vita un sistema di rapporti, al vertice dei quali era la relazione degli uomini con gli dèi. Chi crede nel Dio o negli dèi può legarsi ancora una volta a essi, i quali comunque sempre bramano rafforzare l’interconnessa totalità del creato, cioè il contrario dello squadernamento che ci minaccia. Chi invece non crede, può limitarsi a costruire una laica religio entro un creato auto-creatosi. Nei due casi, è questione di superare l’industrialismo come tappa meramente divisiva, contrappositiva e specializzante dell’umanità, ispirandosi alle epoche pre-industriali e insieme trascendendole, anche avvalendosi delle conquiste dello stesso industrialismo, al fine di ricomporre il mondo infranto.

Per vivere decentemente in una civiltà post-industriale non serve ricominciare da capo, né tentare di risolvere tutti insieme i problemi in generale. Serve piuttosto rammendare la vita, luogo per luogo e gruppo per gruppo umano, partendo dall’intatto per curare il rovinato, riscoprendo uno spirito comunitario capace di combinare libertà politica, libertà individuale e fraternità e di integrare istituzioni rappresentative pubbliche e libere associazioni di partecipazione.  Tutti devono essere coinvolti nel riscoprire il carattere dei territori e delle loro tradizioni, contro una uniformità che ci ha ridotti a un’accozzaglia di entità. Si tratta di individuare fulcri di territorialità e di comunità capaci di riaggregare le vite lacerate grazie a pratiche virtuose, da estendere per benefico contagio. E’ come un riconcertare, trasformando rumori in polifonia, esistenze perdute in sistemi interconnessi di vivere, favorevoli alla coesione e alla fertilità sociale.

Il FAI può favorire una simile religio post-industriale. Prima di tutto, ha il compito di rimodellarsi al suo interno, in modo che i propri organi collaborino concordemente a partire dalla principale missione che lo distingue e che sta nel curare luoghi speciali per le generazioni a venire. Deve poi ricordare che la natura si è trasformata in base naturale del paesaggio storico, che il paesaggio è a sua volta l’esito di attività diffuse nelle campagne e concentrate nelle città, le quali infine hanno prodotto costruzioni, coltivazioni, architetture, cose storiche e opere d’arte. Non ha senso, pertanto, separare queste diverse componenti, attribuendo primati ora a questo e ora a quest’altro aspetto.  

E’ dai monumenti naturali e storici che conviene partire, per abbracciare totalità nuovamente interrelate.  Partire al contrario dalla totalità, quindi dall’alto, rischia di portare, al meglio, all’esibizione di spiriti belli. Anche quando il FAI segue le altre sue missioni, quelle di educazione e di vigilanza, tenta sempre di partire da cose concrete, dal conservare e gestire proprietà e concessioni, dallo scoprire una tantum beni dimenticati – come nelle Giornate di primavera – e dall’indicare alla cura e all’apertura beni amati e trascurati – come nei Luoghi del cuore. Così, quando la Fondazione decide di intervenire nel dibattito generale e azzarda qualche generalizzazione, lo fa con spirito costruttivo, dopo aver studiato il caso, e poi presto ritorna dall’astratto al concreto, che è la sua prima dimora. Riteniamo saggio procedere così, perché sappiamo che l’autorevolezza necessaria a incidere sulla cosa pubblica deriva più dalla pratica che dai principi.

Il Convegno nazionale del FAI si tiene quest’anno nel Canavese, tra il Castello di Masino, acquisito da un quarto di secolo, e Ivrea, dove una delle grandi industrie italiane ha concluso il suo primato.  Così il Castello di Masino, riaperto al pubblico in modo nuovo, e così Ivrea, epicentro urbano del Canavese, si propongono come fulcri volti a coagulare questa terra meravigliosa e la sua gente in un sistema per la rinascita. Riprendere, due generazioni dopo, il cammino solidale di Adriano Olivetti – il Canavese era per lui la comunità “primogenita” – è un modo praticamente e simbolicamente ideale, per sperimentare questo nuovo tentativo di ricomposizione territoriale e umana. Prima è stato un singolo elemento esogeno – la grande Olivetti – a infondere benessere al territorio, ma oggi o tutto salva tutto, in una volontà di ripresa capace di sostenersi e darsi reciprocamente fiducia nel laboratorio delle piccole patrie che sono i comuni, oppure si regredisce nell’isolamento, nella disgregazione.

Il FAI si propone come uno dei possibili agenti facilitatori in questo tentativo di “rilegare” pagine sparse entro un libro solo. Infatti la Fondazione, insieme agli autogoverni comunali, fa e solo dopo parla, e da oggi vuole fare a partire da un castello, non più chiuso nella sua altera bellezza, bensì offerto in modo che tutti si sentano a casa tra le sue mura. E così il FAI stesso, in questo esperimento, rinnova la sua visione per i prossimi dieci anni. Dunque, quale rinascita? Quella di tutti, radicata appunto nelle piccole patrie comunali, che poi dovrebbero essere rilegate nelle patrie intermedie regionali e queste ultime nella grande patria, l’Italia, e in quella grandissima, l’Europa, che ha bisogno anch’essa di ritrovare, prima di tutto, un suo spirito, una propria vocazione nel globo: la funzione di una cultura capace di irrorare tutta l’esistenza, per bilanciare l’uniformità, l’anonimità e lo spaesamento, che purtroppo caratterizzano il nostro tempo.

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