Clemenza per chi e per che cosa [di Pierluigi Onorato]

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Nel suo messaggio alle camere il presidente Napolitano ha posto al parlamento un problema serio e ineludibile, che coinvolge gravemente la civiltà giuridica e la credibilità democratica dell’Italia. La Corte di Strasburgo ha condannato il nostro paese per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che, sotto la rubrica del divieto di tortura, proibisce trattamenti inumani e degradanti, qual è quello derivante dal sovraffollamento carcerario.  Infatti, pur avendo una percentuale di detenuti per abitanti inferiore a quella del Regno Unito e della Spagna, tra i paesi dell’Unione europea, l’Italia ha il triste primato del sovraffollamento carcerario (col 140,1%), seguita dalla Grecia (col 136,5%). In questo periodo le carceri italiane contengono 64.758 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 47.615.

La Corte europea ha intimato allo Stato italiano di rimediare a questa indegna situazione entro il 28 maggio prossimo, avvertendo che, oltre a quello che ha generato la sentenza, pendono centinaia di altri analoghi ricorsi di detenuti (e moltissimi altri se ne potrebbero aggiungere). La situazione è quindi drammatica, anzitutto per le inutili sofferenze umane che provoca, che si aggiungono a quella della pena detentiva per se stessa, ma anche per le conseguenze economiche a carico dello Stato, che potrebbe essere condannato a indennizzare i detenuti ricorrenti per centinaia di milioni di euro.

Uno stato democratico dovrebbe far ricorso alla clemenza solo in casi eccezionali, per evitare di vanificare la funzione preventiva e repressiva della pena, e quindi di smentire se stesso senza una giusta causa. Ma questa volta la giusta causa esiste, e dovrebbe far cadere l’ostilità dell’opinione pubblica e della politica democratica. Resta solo da verificare in che modo il parlamento intenda affrontare il problema.

Ora, la bontà di una politica si misura sulla sua capacità di affrontare e risolvere un problema con mezzi razionali rispetto allo scopo. In questo caso lo scopo è chiaro: ristabilire il rispetto dei diritti umani per tutti i detenuti, anche se già condannati definitivamente, ed evitare esborsi milionari per le casse erariali. Rispetto a questo scopo, i mezzi sono razionali solo  se accanto a interventi congiunturali prevedono contemporaneamente interventi strutturali, evitando le facili scorciatoie del passato, che ricorrevano a semplicistiche misure di clemenza “svuota carceri” destinate a essere vanificate nel giro di qualche mese da massicce “sopravvenienze” penitenziarie.

Alcuni interventi strutturali sono già indicati nel messaggio presidenziale e qualcuno di essi è già in fase di studio o addirittura di previsione legislativa o attuazione amministrativa. Da una parte si deve aumentare la capienza complessiva degli istituti carcerari. Dall’altra si deve cercare di diminuire il numero dei detenuti, per esempio aumentando l’area della depenalizzazione (spesso la sanzione amministrativa, se realmente applicata, è più deterrente che quella penale, maggiormente soggetta a sospensioni ed estinzioni); introducendo la possibilità per il giudice di infliggere direttamente la reclusione presso il domicilio del condannato; facilitando la possibilità per gli stranieri di scontare la pena nei paesi di origine; riducendo il ricorso alla carcerazione preventiva.  Per tutti questi rimedi strutturali occorre soprattutto evitare la trappola dei “due tempi”, assicurando subito l’obiettivo congiunturale di “svuotare le carceri” e rimandando alle calende greche l’obiettivo permanente di evitare di sovraffollarle. 

La scadenza perentoria del 28 maggio, questa volta rende inevitabile anche l’intervento congiunturale, cioè il ricorso a una limitata clemenza di Stato, l’unico che garantisce un risultato a breve termine. Un primo rischio è che esso rimanga isolato, servendo a scaricare la coscienza del ceto politico senza risolvere il problema. E’ il rischio che si è sempre realizzato nel passato e che ha contribuito – giustamente – a rendere ostile grandissima parte dell’opinione pubblica. Un secondo rischio è che il bisogno congiunturale della clemenza venga strumentalizzato a impropri fini politici o personali, primo fra tutti quello di Berlusconi.

L’intervento più appropriato ed efficace è l’indulto, che condona le pene (principali) detentive e pecuniarie. Basterebbe ricalcare il meccanismo adottato dall’ultimo provvedimento d’indulto, del 2006, che ha condonato le pene detentive per un massimo di tre anni, escludendo però le pene irrogate per reati particolarmente odiosi o di rilevante allarme sociale.  Il competente dipartimento ministeriale ha calcolato che in questo periodo i detenuti che hanno una residua pena da scontare inferiore a tre anni sono circa 24.000. Considerando che alcuni di questi sono condannati per reati socialmente odiosi, che come tali andrebbero esclusi dal beneficio, si può verosimilmente concludere che uscirebbero immediatamente dal carcere almeno 17.000 detenuti, cioè la quota che eccede la capienza regolamentare (le stime approssimative del dipartimento ministeriale avallano questa conclusione). Sarebbe così tempestivamente recuperata una condizione di vita dignitosa negli istituti penitenziari, come pretende la Corte europea.

Non c’è invece alcuna ragione di estendere l’indulto anche alle pene accessorie (come l’interdizione dai pubblici uffici irrogata a Berlusconi). Sia perché il codice penale (art. 174) non estende il condono alle pene accessorie, a meno che il provvedimento legislativo di clemenza non lo preveda espressamente (e l’ultimo provvedimento del 2006 non lo prevedeva); sia soprattutto perché lo scopo congiunturale di “svuotare le carceri” non richiede affatto questa estensione. Estinguere le pene accessorie non riduce minimamente il sovraffollamento penitenziario, che è cagionato soltanto dalle pene principali detentive.

Il messaggio presidenziale addita anche la possibilità dell’amnistia per reati “bagatellari”, che sono di scarsa offensività sociale e, come tali, richiedono pene minori o addirittura soltanto sanzioni extrapenali. L’amnistia, a differenza dell’indulto, estingue il reato, eliminando non solo le pene principali, ma anche quelle accessorie e gli altri effetti penali. Essa, per le regioni già dette, non sembra strettamente necessaria per l’obiettivo di eliminare tempestivamente il sovraffollamento carcerario, bastando a tal fine un indulto ben calibrato. Si potrebbe prendere in considerazione anche l’amnistia solo perché rappresenta una garanzia ulteriore per scongiurare in tempi medi il ritorno del sovraffollamento carcerario (oltre che per l’effetto collaterale di decongestionare il carico degli uffici giudiziari).

Dovrebbe comunque essere un’amnistia limitata ai reati puniti sino a tre o quattro anni di detenzione, escludendo i delitti più gravi (come quelli tributari, contro l’amministrazione della giustizia, contro la personalità dello stato, contro l’amministrazione della giustizia e simili): ciò allo scopo già accennato di non screditare la funzione della pena e di non ferire il senso di giustizia dell’opinione pubblica davanti a fatti gravi socialmente allarmanti.

In questi limiti, la concessione della clemenza avrebbe a sostegno buone ragioni di politica democratica. Al di fuori di questi limiti sarebbe un cedimento a strumentalizzazioni opportunistiche. Sarà in grado l’attuale “parlamento di nominati” di affrontare il problema in modo razionale rispetto allo scopo?

*Magistrato. ParlamentareVIII, IX  Camera.  X Legislatura Senato

 

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