Il selvaggio compatibile [di Enrico Trogu]

fotovoltanicus

Saggezza è sinonimo di moderazione, moderazione di tollerabile. L’ufemismo invece, nell’italica Patria, lo è di fregatura. Fughiamo ogni ragionevole dubbio. Chi scrive non è un indipendentista, ed ha coscienza che in un’ottica di approvigionamento energetico nazionale l’isola non possa essere svincolata da determinati doveri. Determinati però, e proporzionati agli onori giungenti oltre Tirreno. Pochi dunque…

Il petrolio prima o poi finirà; perfino nei libri di scuola si legge del tremendo D-Day, di quanto sia dotato di finitudine questo turpe liquido oleoso di cui ci s’ingozza come se non ci fosse un domani. La finitudine porta a cercare alternative. L’alternativa è l’acquisizione di strumenti che sfruttino fonti naturali “rinnovabili”. Sillogismo trito, ma lo scrivente non è in grado di spiegare altrimenti il percorso mentale che i capitalisti d’oltremare e gli omuncoli nostrani hanno esplicitato per poter sperimentare in Sardegna pratiche di divoramento del suolo sempre più impattanti ed “eufemistiche”.

L’energia è rinnovabile, il vento e la luce del sole lo sono e sempre lo saranno, semplicemente esistono. Secondo un ipocrita procedimento metonimico diventano rinnovabili anche i terreni in cui gli strumenti di attingimento sono installati. Colline e campi sventrati e cementati per i basamenti delle enormi pale acchiappa-vento, campi agricoli trasformati in fotovoltaici, totale anarchia legislativa in tema di “mini” eolico -per mini s’intenda la pala che produce meno di 60 kW, il come e dove e quanto è lasciato al sentimento, per ora, dalla nostra Regione-.

E il cardo?
Pare che stia diventando un’ulteriore trincea dietro cui i fautori della produzione di energia green si stanno trincerando: immaginifiche visioni di campi spinosi danno luogo ad epoche in cui la comunità sarda risolleverà le sue sorti industriali attraverso la conversione del povero vegetale in corrente elettrica.

Cui prodest?
Naturalmente la convenienza è tutta per i sardi, i quali vedranno risolti i loro problemi con un ulteriore aumento delle potenzialità energetiche del territorio regionale. Il terzo in Italia per estensione, per una popolazione che non arriva al milione e 700 mila. Quale fabbisogno umano ed industriale da alimentare? Esiste davvero un problema energetico?

Gli enormi capitali che ruotano attorno alla partita del verde – quella che in sudamerica ha fatto strage di popolazioni e sistemi agricoli diversificati mediante la monocultura della soia – hanno imposto una distorta visione dell’energia. Sono prevalse le idee del “più se ne produce meglio è” e del “son rinnovabili, non inquinano”. Grazie a questa scusa, ed agli spiccioli che affitti dei terreni e prebende semi feudali hanno portato in poche centinaia di famiglie isolane che hanno ipotecato le proprie proprietà per decenni, è potuta partire la corsa all’oro; il tutto con il beneplacito della maggioranza delle classi dirigenti le quali, anzi, hanno supportato e supportano tutt’oggi queste politiche di aggressione. Solo comitati e sistema giudiziaro arginano questa “fame”: è di ieri, ad esempio, la notizia che il TAR ha bocciato l’intera procedura amministrativa per il campo fotovoltaico di s’Arrieddu, a Narbolia. Comune non competente in materia, Regione che ratifica senza procedere ad autorizzare direttamente. Il sostrato di simili “non atti” lo lascio alla buona volontà di indagine, e buona fede, di ciascuno.

Gli aggettivi, in campo ambientale, sono pericolosi e mistificatori. Accanto alle svariate servitù, c’è quella energetica: ci hanno convinti che la crescita produttiva può essere eterna ed al contempo sostenibile. Un po’ come quella storia del costante progresso economico e finanziario che crea costante benessere tra i popoli. Le parole del frack al pezzente, insomma.

La terra non si rinnova automaticamente, solo si desertifica. Quali strategie in rapporto al tessuto antropico e produttivo metteremo in atto nei prossimi dieci anni? Lo si farà in seguito ad una pianificazione energetica regionale che si confronti con la protezione dei suoli agricoli e dei luoghi umani? Occorre lavorare ora, e farlo in rapporto alle revisioni del piano paesaggistico e delle strategie in ambito rurale. Senza che il colonialismo delle multinazionali diventi un dato culturale, prima ancora che economico.

 

 

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