Il campo di Domiz diventa una piccola città [di Federico Dessì]
Sono di ritorno a Domiz. Eccomi ancora in questo enorme campo di rifugiati, un luogo alieno ed estraneo, ai confini del mondo, eppure così familiare. Ci sono già venuto, quasi un anno fa, a girare un documentario; ho girato ore e ore per le sue stradine polverose e mi sono intrufolato nelle tende di molti rifugiati accoglienti e generosi. E oggi eccomi di nuovo sotto il sole bruciante di un’estate che si annuncia torrida e vendicatrice. Nulla è cambiato, o quasi. I rifugiati siriani, loro, non si sono mossi. Sono sempre 50.000, o 60.000, o forse 70.000, a seconda di chi ascolti e della precisione dei suoi dati. Molti si sono stufati di restare parcheggiati qui e hanno preso il rischio di tornare in Siria; ma ne sono arrivati altrettanti di nuovi. La guerra nel loro paese continua senza soluzione in vista, la situazione economica continua a peggiorare, e la gente scappa non solo dalle bombe ma anche dalla mancanza di lavoro, dall’impossibilità di studiare, dalla povertà e la miseria. Qualche cambiamento qua e là si nota: la strada principale del campo è stata asfaltata, il centro di salute ha raddoppiato di dimensioni, è stata aperta una quarta scuola. Nei settori più vecchi del campo – forse ormai dovrei chiamarli quartieri – le famiglie hanno abbandonato le tende e si sono costruite delle baracche in blocchetti di cemento armato e lamiera. Qualcuna ha persino un minuscolo cortile. Il numero di botteghe e negozietti è aumentato. In molti si dicono che la loro ordalia non è ancora finita, e tanto vale allora fare qualche sforzo e sistemarsi meglio, rinforzare il proprio alloggio, in cui alcuni hanno già trascorso due inverni gelidi e due estati afose. I veterani stanno già compiendo due anni a Domiz. Ma al di là di tutto, questo campo è forse il migliore in tutta la regione perché qui i rifugiati hanno il diritto di entrare e uscire senza problemi, possono trovare un lavoro all’esterno, possono andare a far la spesa al mercato in città, poi ritornare alle loro tende la sera. In Turchia e in Giordania i campi sono ben chiusi e sorvegliati, entrare e uscire è difficile, trovare un lavoro al di fuori quasi impossibile. Infine in Libano non esistono campi di rifugiati, ma solo accampamenti improvvisati: grumi caotici di baracche perduti nelle campagne, gettati ai bordi delle strade provinciali, senza controllo, senza servizi. Il giovane rimane un attimo in silenzio, il volto si rabbuia. “Non lo guido più da mesi, il governo del Kurdistan ha cambiato le regole, ora i siriani non hanno più il diritto di guidare un taxi.”. Peccato, davvero peccato. Un’ovvia misura per ridurre la concorrenza e favorire gli autisti iracheni. “E adesso cosa fai?”. “Niente, resto qui nel campo, non ho altro da fare.”. “Non hai pensato di tornare in Siria?”. “Cosa? La guerra non è mica finita. Non ci penso proprio a tornare.”. Lo saluto, continuo la mia discesa. Più mi guardo attorno e più mi rendo conto di quanto Domiz poco a poco sia diventata una piccola città. Lo era già in parte l’anno scorso, oggi lo è ancora di più. In fondo, dietro l’ultima fila di tende, si vede una serie di palazzoni in costruzione. Ma qui, in mezzo alla campagna, lontano da tutto, di fianco a un campo di rifugiati, chi ci verrebbe mai a vivere? Mi viene il sospetto che questi appartamenti in costruzione siano destinati proprio ai siriani. A quei rifugiati che hanno trovato un lavoro, magari con le agenzie umanitarie, che hanno uno stipendio decente e possono permettersi l’illusione di affittare un appartamento e riprendere a vivere una vita normale. Mentre in realtà restano qui, lontano dal loro paese, senza sapere quando e se ci potranno tornare.
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