Quando Mariano d’Arborea mise i jeans e portò la famiglia in Sardegna [di Maria Laura Ferru]

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Sembrerebbe una scenetta di famiglia, quella raffigurata nell’affresco che rappresenta Mariano d’Arborea che mette il figlio Ugone sotto la protezione di Santa Chiara. Anche se Timbora de Roccabertì, madre e sposa, non vi appare non è difficile immaginarla attenta ad osservare la scena fuori campo, non facendo mancare al piccolo Ugone parole di esortazione e stimolo. E in effetti il bambino corrisponde perfettamente alle attese degli adulti, tutto orientato verso la Santa alla quale tende le braccia e volge lo sguardo supplice ma già fiero. E’ bellissimo, di corpo e di volto, riccioluto e biondo, e catalizza su di sé l’attenzione dello spettatore che a fatica riporta l’attenzione a tutti gli altri aspetti della vicenda rappresentata.

Ma catturare l’attenzione dello spettatore sulla parvenza estetica della visione era quanto il sottile futuro giudice di Arborea si proponeva, pur essendo solo agli inizi di una stagione politico-artistica nella quale avrebbe dato altre dimostrazioni della sua capacità comunicativa, purtroppo giunte sino a noi in piccolissimo numero perché fortunosamente sfuggite all’opera di cancellazione degli Aragonesi.Grande comunicatore, Mariano d’Arborea, con tutto ciò che l’arte medioevale metteva allora a disposizione: con pittura e scultura soprattutto.

Così, l’affresco di Santa Chiara non va declassato al semplice rango di scenetta religiosa, magari di ex-voto per scampato pericolo di naufragio…E’ in realtà un manifesto politico con un primo significato molto chiaro: ” Il principe di Arborea avvisa i sudditi del giudicato che è tornato ed ha un erede degno di lui. Stiano quindi sereni, gli oristanesi e i sardi tutti, che il giudicato non rimarrà senza governo, malgrado la poca salute del giudice Pietro, il caro fratello “. Questa prima parte del messaggio è comunicata con semplicità ma con genialità: il principe suggerisce visivamente l’idea del ritorno dando di sé l’immagine di uomo in abito da viaggio.

E come fosse l’abito da viaggio nel Medioevo lo apprendiamo così di prima mano da questo raro e prezioso affresco. Intanto era, come tutti gli abiti necessari per le fatiche e le intemperie, di tessuto resistente e nell’ affresco anche il colore della stoffa depone a favore del fatto che si trattasse di fustagno, all’epoca tessuto con lana e lino (in mancanza di cotone). Stoffa carissima, essendo bisognosa oltre che dei soliti passaggi dispendiosi necessari per la preparazione delle materie prime e per la tessitura, anche di garzatura e cimatura finali, operate da artigiani specializzati che in Catalogna sarebbero stati ben preso inquadrati in Gremi corporativi.

Stoffa per mercanti benestanti e per nobili viandanti, che nell’Europa trecentesca poche città riuscivano a produrre e tra esse Barcellona, città dalla quale il giovane principe ritornava dopo oltre un decennio di permanenza. Stoffa resistentissima, come ben sapevano gli agricoltori e i pastori sardi che di essa vestivano fino a qualche tempo fa, quasi in divisa. Stoffa resistentissima che oggi gli studiosi dei tessuti indicano come antenata del denim, il tessuto dal quale è derivato il moderno jeans. Nessuna difficoltà quindi per il principe arborense che da Barcellona partiva per il ritorno in patria, a farsene fare abito e accessori. Accessori che rafforzano anch’essi l’idea del viaggio: berretto e marsupio sono dotati di lunghe cinghie per poterseli meglio assicurare al corpo, preoccupazione prima del viaggiatore di terra e di mare.

C’è poi l’aspetto del giovane sbarbato e coi capelli lisci, a sottolineare salute e giovinezza. Per altre occasioni, in quegli stessi anni, il giovane principe non mancherà di farsi arricciare i capelli, artificialmente, sopportando la crudeltà di trattamenti che il Petrarca doveva ricordare con orrore in una delle sue lettere di rievocazione dei dismessi costumi giovanili.

Ma l’immagine della capigliatura libera, naturale e liscia, in aggiunta all’abito da viaggio ancora addosso, ha anche il valore di rafforzamento di un altro messaggio: “Non ho perso tempo: appena ho messo piede in terra sarda sono corso qui per mettere me e la mia famiglia sotto la protezione divina”.E quindi anche sulla sua devozione e sulla sua religiosità che il principe vuole rassicurare i suoi sudditi. Immutate, malgrado tanti anni di lontananza, come rivela l’ atteggiamento devoto di Mariano d’Arborea, preoccupato di rassicurare tutti sui suoi sentimenti di profonda pietas.

Questi sicuramente i messaggi che il giovane principe affidava all’affresco che fece realizzare su una parete della chiesa oristanese, calcolando che in ogni caso la bellezza del figlio e il suo aspetto giovanile avrebbero potuto solo essergli d’aiuto, in un mondo comunicativo affidato quasi totalmente a parole e immagini studiate attentamente da chi le impartiva e subite acriticamente da chi le riceveva. Messaggi che nelle intenzioni erano pensati in soccorso del destino che in effetti gli metterà in mano il potere di lì a pochi anni, con la morte del fratello Pietro prima e con la successiva morte di Costanza di Saluzzo, sepolta anch’essa nella chiesa di Santa Chiara. Perché infatti anche la scelta della chiesa dove far mettere l’affresco non fu casuale ma cadde su quella che allora, per la presenza di altre testimonianze, si avviava a diventare il pantheon della famiglia d’Arborea.

*Esperta di ceramica sarda e perito in argenti antichi.

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