E’ impossibile concepire l’umanità senza il fuoco [di Giuseppe Delogu]

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La capacità di maneggiarlo è una competenza esclusivamente umana, più del linguaggio e dell’uso di strumenti, ed è universale. Esistono vaste evidenze scientifiche della presenza diffusa e positiva del fuoco in relazione alle fasi più avanzate della civiltà . L’uso culturale del fuoco presuppone quella che l’antropologa francese Nadine Ribet ha chiamato “metís, vale a dire qualcosa di molto più in la del “fai da te”, un complesso molto coerente di “atteggiamenti mentali e comportamentali, combinati ad acume intellettuale, sagacia, previsione, flessibilità, astuzia pratica, vigilanza, senso di opportunità, abilità diverse, una esperienza largamente acquisita; essa si applica a realtà fugaci, in movimento, sconcertanti ed ambigue che non si misurano né con il calcolo esatto o il ragionamento rigoroso”.

Il fuoco è realtà fugace, in movimento, con comportamenti condizionati dalla morfologia del terreno, dal tipo di vegetazione, dalle condizioni meteorologiche. La metís del pastore e de “su massaju”, nella realizzazione e conduzione dei “narbones” e nel rinnovo dei pascoli montani aveva ben presente tutti questi fattori: l’organizzazione che ne derivava, mettendo a frutto la cooperazione familiare e comunitaria, consentiva un controllo dei risultati funzionale all’obiettivo.
Quello del fuoco comunitario era un uso integrato nella compresenza di vari attori, di cui parla Benedetto Meloni nel suo indimenticato libro : al contadino che raccoglieva il grano si susseguiva, nell’uso comunitario della terra, il pascolo delle stoppie ed infine, ciclicamente il fuoco di rinnovo, l’ultimo “erbivoro” naturale.

Il legame del fuoco con la transumanza (secondo alcuni ricercatori spagnoli il termine va riferito al fumo – trans-humo – e non al semplice “transumere”, spostarsi) poneva in equilibrio pascoli invernali con pascoli estivi. Certo, qualche volta “su fogu fuìu” andava oltre, e colpiva fasce di bosco, ma nella prospettiva dei millenni di uso comunitario il risultato era quello di paesaggi forestali aperti, con alberi maestosi, destinati alla produzione di ghianda per animali e esseri umani, non certo della distruzione dei boschi. Di questa oggi metís del fuoco oggi non troviamo più traccia, nella nostra società. Perché lo abbiamo voluto escludere, ne abbiamo paura. E’ questa la causa degli incendi di oggi? Credo proprio di si.

L’abbandono delle campagne, l’accumulo di combustibili, l’accumulo spesso incoerente di norme che sempre più hanno criminalizzato il fuoco e il suo uso a partire dal tardo ‘800 fino a tutto il secolo scorso, insieme con il cambio culturale delle ultime generazioni ha fatto perdere la metís dell’uomo di campagna, non solo pastore, in presenza della delega a “sos chi sun pagados pro istudare”.

Eppure nel gesto pastorale tradizionale il fuoco – salvo che intenzionalmente non assumesse linguaggio vendicativo – a nient’altro serviva se non a rinnovare dal vecchio le erbe del pascolo nuovo; e occorreva saperlo accendere, non saperlo spegnere, perché se ben condotto, senza l’uso dell’acqua, si spegneva da solo. Con economia di utensili, economia d’acqua (il fuoco secco), economia di forze, economia di parole.

Ribet racconta dei gesti dei pastori del Haute Pyrenée francese (molto simili a quelli che ancora possiamo trovare in Planargia o altre poche zone), misurati, organizzati d’istinto, che governano sui pendii della montagna i fuochi colturali: alla fine della stagione dei fuochi di rinnovo, essi contenti dicono: “Les bêtes sont dans l’usclade”, le bestie sono nel bruciato, significando con ciò il successo delle loro operazioni perché nell’usclade esse trovano il pascolo migliore.
Mi domando se la parola “usclade”, di origine catalano-provenzale, molto vicina alla nostra “uscradu” non sia un risultato di frequentazioni e scambi esperienziali pastorali molto intense nel passato in area mediterranea.

Si capisce come, oggi, la presenza delle fiamme che entrano nelle pertinenze delle case agricole, nelle serre, che si espandono approfittando di canneti “innaturali”, o delle stese siepi di rovo, o di rifiuti nascosti sotto la macchia mediterranea nelle dorate residenza marine, appaia un problema di “protezione civile”. E che appaia irrisolvibile.

La verità è che occorre uscire dall’emergenza ritrovando una opportunità – anche di nuovo lavoro, di nuova “metís” – rilanciando politiche che attribuiscano al mondo delle campagne un ruolo importante non nel potenziare la struttura di lotta (altre autobotti, altri elicotteri) ma nel preparare l’autoprotezione prima di ogni prossima estate.

Il lavoro è quello del maneggio dei combustibili vegetali, la loro rimozione prima dell’estate anche con l’uso responsabile ed esperto del fuoco. Perché non riconoscere al mondo delle campagne questa funzione, essenziale strumento per la loro e degli altri autoprotezione? Orientare a questa esigenza strategica alcune delle linee guida del prossimo PSR non sarebbe una brutta idea.
Si garantirebbe reddito non per combattere gli incendi ma per rendere la campagna meno aggredibile da essi.

Naturalmente occorrerà affiancare in questa azione anche l’opera dei professionisti (CFVA, EFRS, VV.F) che potranno, fianco a fianco con gli operatori delle campagne, gestire insieme gli “abbruciamenti” autunnali, il fuoco prescritto nei boschi pubblici come utile tecnica di selvicoltura preventiva, e contemporaneamente fare training esperienziale. Qualcosa del genere è da tre anni già in atto in quel di Suni e Sindia, terre frequentemente colpite da “incendi” settembrini, dove la collaborazione del CFVA con le amministrazioni locali sta di fatto consentendo di gestire la vegetazione di un SIC con l’uso comunitario del fuoco e dove da tre anni non vola più un elicottero antincendi. Non mi pare poca cosa.

*Abstract dell’intervento al Convegno “Quale Rinascita? I mestieri del verde” organizzato dalla Presidenza regionale Fai Sardegna e dalla Delegazione FAI Cagliari il 14 luglio a Cagliari

One Comment

  1. Graziano B

    Sono convinto anch’io, che è del tutto inutile continuare col sistema attuale, basato sul principio esclusivo per cui basta avere flotte di Canadair e Elitanker e un esercito di addetti per contrastare la piaga degli incendi. Come in tante altre situazioni, in cui c’è il “male” da sconfiggere, vale la regola :Non c’è miglior cura della prevenzione. E certamente non si può pensare di prevenire gli incendi con i decespugliatori o gli sfalcia-erba che possono, al massimo, andar bene per ripulire le aiuole o piccoli giardini. Il sapiente uso del fuoco può essere un validissimo aiuto a basso costo, impegnamoci tutti perché venga reintrodotto nelle pratiche agro-pastorali.

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