Israele ci riguarda [di Alessandro Mongili]

Paul Hansen of Sweden has won the World Press Photo of the Year 2012 with this picture of a group of men carrying the bodies of two dead children through a street in Gaza City

Ho ammirato e ammiro la grande cultura ebraica europea e americana, la stessa che mi ha insegnato a essere critico e a diffidare degli idoli da noi stessi costruiti. A non adorarli, secondo l’insegnamento dei profeti di Israele. Da giovane, consideravo Israele “la modernità”, come tutti noi di sinistra. Un paese eroico che ammiravo. Chi non ricorda il deserto fatto fiorire e i pompelmi di Giaffa? Anche se, in realtà, in quella regione da secoli esisteva un’agricoltura assai prospera. Ma Israele ci sembrava un Davide moderno contro i Golia tradizionali che lo circondavano. I kibbutz, le irrigazioni, le università, la democrazia, i diritti, il Bauhaus di Tel Aviv oscuravano il fatto che fra i suoi stessi cittadini, il 20%, i palestinesi o, meglio, gli arabi-israeliani, nella neolingua sionista, erano esclusi da parecchie cose. Perfino Toni Negri è stato nei kibbutz. Anche altri miei amici “di sinistra” sono stati nei kibbutz. Magari i racconti erano terrificanti, però comunque, alla fine, l’esperienza era esaltante. Si stava costruendo un futuro migliore.

Negli anni ‘30 il movimento sionista decise di escludere la possibilità stessa di impiegare arabi nei kibbutz, e di creare una società ebraica separata in Palestina. L’opzione “un popolo, uno Stato” cominciava dalle piccole cose della vita quotidiana. In Europa, dopo la Seconda guerra mondiale e la sua terribile lezione, questa idea sarebbe entrata in crisi e avrebbe spinto a integrare gli Stati-nazione in unioni più vaste che rendessero il governo altra cosa dalla nazione. Israele rimaneva invece legata a quell’idea, per giunta in una terra abitata da un altro popolo. Ma, negli anni ’30, l’Italia stessa proclamava l’Impero e il colonialismo sembrava ancora normale. Gli Stati moderni, in fondo, avevano ogni diritto di dare alle “belle abissine” un futuro moderno, ancorché subalterno. Cos’era la Palestina, se non “una terra senza popolo per un popolo senza terra”? I poveri e arretrati contadini locali avrebbero accolto questo popolo istruito e sostanzialmente europeo come la manna dal cielo.

Dopo la grande tragedia della II Guerra Mondiale, la retorica dello sviluppo sostituì quella della colonizzazione, e nel breve volgere di un decennio gli imperi coloniali si sgretolarono.
In Israele, alla popolazione originaria palestinese si diede l’aut aut: ubbidire, accettare la subalternità in casa loro, o sparire. Spesso, solo sparire o essere annientati. La Palestina subì un “piano di rinascita” veramente radicale. 440 villaggi palestinesi vennero rasi al suolo e i loro abitanti deportati, nel breve volgere di pochi giorni, la terribile Nakba che accompagnerà per sempre il ricordo della nascita di Israele. Molti monumenti, fra cui il santuario di Seyid Hussein a Asqalon/Ashkelon, vennero rasi al suolo in seguito a una direttiva dello Stato ebraico del 1950 relativa allo sradicamento dei segni della cultura araba, anche architettonici. La memoria di Israele non poteva comprendere infatti i 2000 anni di Palestina ellenizzante, romana, bizantina, araba, crociata, ottomana e coloniale. Esistono solo i miti biblici, opportunamente rivisitati. Israele era il ritorno biblico, e insieme la modernità pura.

La modernità, ci ha insegnato Bruno Latour, si caratterizza per pratiche di “purificazione”, oltre che di traduzione, che ordinano l’esistente in base a classificazioni, già studiate in profondità da Michel Foucault. Una qualità, ad esempio l’appartenenza etnica e nazionale, diventa il carattere di intere moltitudini, nonostante l’ampio spettro di diversità di ogni tipo contenute al loro interno, così come in altri ambiti la sessualità e il genere diventano per i “moderni” strumenti di governo, ma anche di interpretazione del complesso delle personalità. Non importa che siano cristiani o musulmani, borghesi o contadini, istruiti o fanatici. Il solo fatto di essere palestinesi li disponeva a un nuovo status, di rifugiato o di sottomesso.

Forti della legittimità culturale e dell’incredibile forza del modello che vede nella modernità una società per propria natura opposta a quella tradizionale, e dell’idea che gli orientali fossero arretrati per natura (secondo lo stereotipo mirabilmente decostruito nel classico contemporaneo di Edward Said), gli Israeliani si sono posti all’avanguardia di questo processo, e sino a oggi sembrano non aver capito che è un modello che già con la II Guerra Mondiale ha iniziato a entrare in crisi dappertutto, perché la contemporaneità non può non essere ibrida.
Il loro lavoro si è infatti rivelato inutile, aperto solo a un’infinita (e inconcludente) opzione militare. Coloro che gli Israeliani hanno classificato Palestinesi si sono mostrati singolarmente indocili e resistenti al ruolo assegnato loro da questo disegno astratto di purificazione della Palestina dalla loro presenza e di separazione fra loro e i coloni ebrei e i loro discendenti.

Se, secondo Georg Simmel, noi contemporanei “siamo tutti ebrei”, nel senso che ormai siamo tutti stranieri e condividiamo il destino di chi arriva nei luoghi da fuori, e ci resta, oggi siamo singolarmente “tutti israeliani”, sinché condividiamo la credenza assurda nella modernità e nei suoi miti purificatori, per cui rispetto al passato può esserci solo cesura e il nostro presente deve solo essere rivolto alla “costruzione” di un futuro modulato su ideali “purificati”.

L’orrore di Gaza non è che l’orrore splatter e ultraviolento della morte e della distruzione. Ancora più orribile è il sistema che la giustifica, una microfisica della separazione e della purificazione quotidiana della Palestina dai suoi abitanti originari, che si manifesta nelle Anagrafi e nei Registri delle popolazioni, nei Catasti e nelle requisizioni, nel doppio status di cittadino israeliano ma di nazionalità non ebraica, nella recinzione ermetica della striscia di Gaza e nel controllo dei varchi, nelle zonizzazioni oscene per etnia di appartenenza, nella chiusura delle residue città e villaggi palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme, negli opulenti insediamenti illegali ebraici nel bel mezzo di intere città assetate e asservite, come Hebron, e in tante altre deleghe alle tecniche e a congegni e strutture divisorie.

Vite quotidiane armate in cui la morte è banale, la sofferenza una casualità di cui scusarsi con brevi comunicati. E’ un lavoro di enormi burocrazie e di tutto un esercito che si trasforma in polizia. E’ il lavoro di un popolo di rifugiati che si trasforma in un popolo di aguzzini necessariamente razzisti, per cui il male è banale. La brutta fine fatta dal popolo israeliano è quella che aspetta ogni popolo che si affidi alle credenze “moderne” in modo fideistico, che non accetti la diversità e la ricchezza di ogni ibrido, che adori gli idoli della “modernità”, che esso stesso si costruisce.

Non ci illudiamo di essere estranei a questo percorso. Se guardiamo alla nostra storia recente, noi sardi, vedremo quante analogie e quante idolatrie ci accomunino a questa storia tremenda della Palestina, in questa epoca sorprendente che condividiamo.

5 Comments

  1. Marcello Carlotti

    Molto interessante e ben, epistemologicamente, argomentata la sua lettura. Sono un antropologo che, per qualche tempo (diciamo un tempo sufficiente), ha vissuto in quei territori e ci ha lavorato. Come si dice in gergo: “sono stato sul campo”. E sono arrivato su “quel campo” con idee molto prossime alle sue. Idee che in parte, come sempre accade, si sono dimostrate inadeguate a cogliere la trama, molto più complessa e intricata, della realtà fattuale. Del resto, come scrive anche lei parlando di traduzione (e interpretazione), ogni atto ermeneutico umano è un processo di semplificazione del reale – l’esser-ci, diremmo con Heidegger, non è mai bastevole per comprendere e rendere l’Essere. Sarebbe necessaria, per rispondere nel merito delle sue sollecitazioni, un post almeno altrettanto lungo del suo e, non volendo abusare della pazienza di nessuno (e non essendone richiesto da alcuno) per ora lo risparmio.
    Mi voglio concentrare su due soli punti: la citazione del grande Said e del suo splendido Orientalism e il suo riferimento comparativo ai fatti di terra sarda.
    Il grande e profondo significato della lezione di Said non si limitava a registrare lo stereotipo – con radici già medievali – dell’Occidente (macrocategoria) rispetto all’Oriente (altra macrocategoria). Non si limitava a criticare e decostruire pezzo per pezzo quel processo di subalternizzazione e produzione di immagine – gli orientali, appunto.
    La grande e potente intuizione di Said andava oltre e mostrava come, in definitiva, quell’immagine e le dinamiche di imposizione del segno rappresentante sul token rappresentato siano andate tanto in profondità da fissarsi nell’immaginario collettivo non solo occidentale ma anche orientale, al punto che molti “orientali” si sono “orientalizzati”.
    Direi che, fra le sue righe, è importante questo processo culturale: quanto sono potenti le spinte del simbolico che riescono a farci recitare un ruolo che non è nostro, convincendoci di essere quel che altri ci dicono che siamo?
    Quanto la Sardegna e i Sardi sono stati e si sono fatti Sardizzare?
    Secondo il mio modesto avviso, partire da qui ci porterebbe anche a meglio riflettere sulla necessità di gridare, da decenni ormai, di una sola identità sarda, di una sola lingua (il sardo), etc. portando avanti, culturalmente e politicamente, una istanza omologante.
    Un ultimo spunto: ha riflettuto sul fatto che, una fazione politica recente (fatta peraltro di persone preparate e mossa da ottime intenzioni) ha scelto di riunirsi sotto il nome singolare di Sardegna Possibile, declinando il possibile in una unica direzione?
    Quanto sarebbe stata più spumeggiante e inclusiva la loro proposta se il vessillo linguistico invece che al singolare si fosse declinato al plurale e si fosse parlato e parlasse di Sardegne Possibili?

    Rimango a disposizione per un confronto più argomentato sul caso Israele, Palestina, Oriente, Arabi.

    Cordiali saluti

    MC

  2. marcello carlotti

    Ne riparleremo. Bevakashà (tanto per ibridare).
    Ps. Che avrebbe detto il buon filologo Gramsci di tutto questo citare e citare, gente che lo cita, senza citare lui è il suo fondante concetto di subalternità…?

  3. Alessandro Mongili

    Certo, ha ragione. Ho sicuramente citato troppo. E’ che li ho studiati. Altrimenti non li avrei citati. Sicuramente dovrei studiare maggiormente Gramsci.

  4. mariocarboni

    Rispetto ogni punto di vista ma omettere significa falsare, sopratutto quando le omissioni riguardano premesse indispensabili al confronto.
    Quando l’ONU con la risoluzione 181 nel 1947 voto il piano di spartizione della Palestina con la creazione ddi due stati, lo stato arabo e lo stato ebraico, indipendenti. Gli ebrei accettarono e proclamarono l’indipendenza, gli stati arabi invece non lo accettarono e invasero le terre destinate ai due stati.Vennero sconfitti . Fu una guerra durissima e crudele, naturalmente da ambo le parti. Circa 400 palestinesi fuggirono e vennero ospitati come profughi. Circa 700 mila ebrei vennero cacciati dai paesi arabi e trovarono ospitalità in Israele che li assimilò come cittadini a tutti gli effetti. Una parte di palestinesi rimase dentro Israele ed adesso sono cittadini israseliani. Gaza venne occupata dall’Egitto e vi rimase per circa 20 anni. Si sono succedute altre 5 guerre e tante battaglie. La questione è riconoscere il diritto all’esistenza di Israele anche da parte di commentatori che glissano su questa questione che è il cardine della vicenda. Il reciproco riconoscimento è il prerequisito della soluzione due stati due popoli che appunto è stato il tema della risoluzione 181. Si puo commentare tutto e tutti lo possono fare, ma non è corretto se si vuole sollevare il livello del dibattito ed essere interlocutori attendibili non conoscere la 181. Moltissimi non sanno neppure cosa sia e certamente non l’anno letta. Posto un link che rende ciò possibile, confidando che la lettura sia sino all’ultima riga e all’ultima cartina,. Se si vuole il testo anche in francese basta scaricarlo dal sito dell’ONU.
    http://www.yale.edu/lawweb/avalon/un/res181.htm

  5. Raphael Fodde

    Discussione questa molto complessa nella quale voglio entrare in punta di piedi sia per il mio italiano che non scrivendolo da quasi mezzo secolo credo inadeguato e sia per le mie povere qualificazioni. In alcune righe mi sembra di percepire la solita solfa della deligittimazione dello Stato Giudaico. Una nota personale a proposito di Edward Said che il Carlotti lo chiama addirittura “grande” mentre coloro che lo conoscevano bene per i suoi seminars in Middle Eastern Studies a Columbia University, direbbero che era {one of the most bias scholar.} Il fatto poi che porto’ il figlio a lanciare sassi a Israele, non ricordo bene in che parte fosse, giusto per avere l’esperienza di lanciare sassi mi pare un atto infantile che fa onore alla sua stupidita’ piu che alla sua grandezza. Mentre si fa menzione su fatti storici ancora discutibile sulla loro intera veridicita’ come i 400 villaggi palestinesi distrutti da Israele ecc…non vi e menzione della divisione tra due stati sancita dal UN; a quest’ora i Palestinesi avrebbero avuto il loro paese gia dal 1948 ma questa e’ un’altra storia. Yeshayahu Leibowitz nel suo volumetto יהדת עם יהוי ומדינת ישראל 1976
    diceva: parlando dei territori persi a causa della guerra dichiarava che: “dovevano essere restituiti a chinque sia: Giordania, o al PLO perche il dominio di quei terreni conquistati porterebbero solo alla liquidazione dello stato ebraico e a una catastrofe del popolo ebraico.”
    Una lettura del grande Bernard Lewis; The Middle East, a brief history etc… e il volume appena uscito di Yossi Klein Halevi; Like Dreamers; da’ una prospettiva ben diversa da quella dell’autore di questo breve saggio.

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