Con le imprese che chiudono muore tutta la Sardegna [di Anthony Muroni]
L’Unione Sarda 03/08/ 2014. Prima ancora che dei dati forniti dalla Confesercenti sarda c’è forse da preoccuparsi di quel che è sotto i nostri occhi. Quanti cagliaritani sono stati di recente in via Garibaldi e via Manno, le due strade-simbolo dello shopping cittadino? Tutto, o quasi, è chiuso. Quanti turisti o sardi “fuori sede” sono stati negli ultimi giorni a San Leonardo, a Cala Gonone, a Bosa o nel Sulcis? I ristoratori, i baristi, i negozianti raccontano che tenere aperto è diventato un atto di fede. La Sardegna muore un poco ogni giorno soprattutto perché nessuno ha un piano innovativo per ribaltare tutto e provare a tenerla in vita. Vogliamo dare per caso la colpa alla Giunta regionale che ha vinto le elezioni sei mesi fa? Sinceramente è ancora troppo presto. Possiamo, però, darla all’intero sistema che si è avvicendato negli ultimi venti anni: politica e sindacato, anzitutto. Quando è finita l’epoca dell’assistenzialismo e della spesa pubblica – si può datare l’evento attorno al 1992, con l’avvento del governo Amato (quello della prima manovra “lacrime e sangue”, quello del prelievo notturno sui conti corrente) – nessuno ha pensato che occorreva creare un sistema socio-economico alternativo. Era impopolare parlare di una macchina pubblica sovradimensionata, era ed è più facile caricare di tasse chi prova a lavorare, producendo benessere e posti di lavoro.Si è pensato che prima o poi la nottata sarebbe passata – per effetto di chissà quale miracolo – e che il partito della spesa pubblica allegra avrebbe potuto continuare imperterrito a creare debito, clientele e indegne rendite di posizione. Si è lasciato che la burocrazia soffocasse il sistema, sposandosi con le tasse e le varie ingiustizie territoriali, nate all’ombra delle spese pazze di troppe Regioni, di troppe Province e di troppi Comuni, per tacere di altre decine di enti pubblici inutili, creati al solo scopo di dilatare le poltrone e le assunzioni facili.I ventenni del 1992 sono oggi quarantenni e molti di loro sono disoccupati come allora. Di loro non si occupa praticamente nessuno. (….) Che fare? Qualche politico rivendicherà le misure-tampone prese a favore delle imprese: zero Irap, le più fantasiose zone franche e i più improbabili – e inestricabili – bandi e microbandi. La verità vera è che si tratta di pannicelli caldi che non sono serviti a nulla e che ancora meno serviranno in questo tempo di carestia. Non serve essere grandi economisti per capire che le aziende muoiono non solo per il carico fiscale o burocratico ma per l’assenza dell’unico elemento realmente necessario a un sistema economico sano: il cliente in grado di spendere. Tanti, troppi, sardi conoscono l’indigenza e stanno sotto (o ai limiti) della soglia di povertà, tantissimi tirano avanti grazie alle pensioni di genitori o nonni. Con quale faccia possiamo chiedere a queste persone di alimentare l’economia, di consumare, di assecondare i progetti di crescita del Pil – computati a tavolino – dei burocrati europei e di troppi governanti locali o nazionali? Non è una Sardegna per vecchi e neppure per giovani. Questa è un’Isola per gente senza età, senza pudore né pietà. Cos’altro potremmo dire pensando ai vergognosi vitalizi d’oro che il Consiglio regionale ha recentemente liquidato a persone ancora in forze e dunque potenzialmente capaci di mettersi sul mercato del lavoro, condividendo i sacrifici e i disagi delle persone normali? Cos’altro potremmo aggiungere pensando a un sistema che vuole solo perpetuarsi ed è capace di produrre una solidarietà (concreta) per bande o gruppi e una (di facciata) per le moltitudini? Chi può, faccia. Avendo il coraggio di prendere di petto su connottu.
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