Più formazione in agricoltura per creare lavoro e combattere lo spopolamento della Sardegna [di Giuseppe Pulina]
Le occasioni di lavoro sono, nell’area sviluppata del mondo, direttamente proporzionali alla densità abitativa di un territorio. Quale sia la causa e l’effetto è discutibile (se l’alta concentrazione abitativa crei lavoro o se le occasioni di lavoro in una determinata area richiamino popolazione da altre): è molto probabile che i due fenomeni di rafforzino creando insieme una spirale di crescita economica e demografica. E’ però altrettanto vero che la fertilità delle popolazioni dei paesi sviluppati è crollata con la conseguenza che i saldi naturali diventano negativi e la crescita della popolazione è a carico quasi esclusivamente degli imponenti flussi migratori le cui notizie occupano ormai tutti i media. La Sardegna è una delle aree dell’Unione Europea che registrano la massima velocità di decremento demografico: depressione economica e spopolamento si intrecciano in una gorgo perverso la cui possibilità di rottura diventa sempre più ardua. Lo spopolamento della Sardegna è, perciò, il principale problema da affrontare per una politica regionale che guardi responsabilmente al futuro: creare occasioni di lavoro per contrastare lo spopolamento e crearle nelle aree rurali rappresentano pertanto le prime politiche attive da attuare per invertire il declino esponenziale al quale l’Isola sarà, altrimenti, condannata. Si può creare lavoro nel settore territorialmente più diffuso, l’agricoltura? Certamente con il ricambio generazionale e la spinta all’istruzione e all’innovazione tecnologica degli imprenditori. Il fenomeno dello spopolamento della Sardegna, ormai noto al grande pubblico, si inserisce in uno scenario mondiale che prevede, invece, un costante aumento della popolazione per questo secolo fino alla soglia dei 9 miliardi di persone nel 2050. Un trend diverso e sostanzialmente stabile è previsto dall’ISTAT per Il nostro Paese: questo Istituto ha licenziato nel 2011 il rapporto sul “Futuro demografico del Paese. Previsioni sulla popolazione regionale residente al 2065” sulla base del quale è stato sviluppato il modello DEMO ISTAT a tre scenari (alto, centrale e basso) che consente di ottenere proiezioni e principali indicatori della popolazione residente in Italia per regione e, in alcuni casi, per provincia. Il sito demo.istat.it permette a tutti di interrogare il modello e di ottenere gli output desiderati. Il rapporto citato prevede, nello scenario centrale, un primo aumento e poi un declino della popolazione. Se interroghiamo il modello DEMO ISTAT, per la Sardegna è previsto un calo demografico per tutti i tre scenari. L’Isola invecchierà velocemente e, a meno di robuste politiche volte ad aumentare la natalità delle donne fertili, a incrementare l’immigrazione di coppie con progetti di vita da realizzarsi in Sardegna e a contrastare l’emigrazione dei giovani (sull’invecchiamento poco si più fare essendo la Sarda una delle popolazioni più longeve al mondo). Ne conseguiranno due effetti non banali (nel senso matematico del termine) dell’invecchiamento della popolazione sarda illustrati di seguito. Il primo riguarda la nuova intelligenza. Il mancato ricambio generazionale intacca l’entità e il valore dell’harware installato, misurato in termini di capacità elaborativa (o anche intelligenza collettiva). Tale valore, in tutti gli scenari demografici, tende a ridursi drammaticamente, come dimostrato nella figura 3. I grafici sono stati ricavati computando l’evoluzione delle masse celebrali degli under 14 (potenza installata) per l’indicatore di Flynn (che misura l’aumento dell’intelligenza residente al passare delle generazioni). Il gap registrato nello scenario centrale è impressionante, mentre quello che risulta per lo scenario basso è disastroso (il calo di più del 50% della nuova intelligenza presente in Sardegna). Il secondo interessa un indicatore denominato “la distanza minima di vicinato”, definita come la distanza che consente di considerare, in un paese, l’abitante più prossimo quale “vicino”. Nei borghi sardi é di 3 porte ma, dato lo spopolamento incrementale dei nostri paesi, per quanto tempo potremo considerare il tessuto urbano della stragrande maggioranza di questi in termini di vicinato? L’unica soluzione a portata di mano é favorire lo stabilirsi di nuovi immigrati, utilizzando in primo luogo le politiche di coesione del programma Horizon 2020 della UE. Ma anche pensare e attuare un nuovo “piano di rinascite” della Sardegna per far sì che la nostra Isola continui a essere abitata anche da Sardi. L’agricoltura è, per sua natura, una impresa diffusa sul territorio. Questa caratteristica la candida come primo attore per il contrasto allo spopolamento delle zone interne dell’Isola, a patto che le condizioni di lavoro e di redditività delle campagne siano effettivamente comparabili con quelle delle città. Fra i tanti fattori strutturali che incidono negativamente sulle prospettive di lavoro in campagna, l’elevata età degli operatori e il loro basso grado di scolarizzazione sono i più rilevanti. Se il 60% degli imprenditori agricoli ha un’età superiore ai 55 anni e oltre la metà di questi supera i 65 anni, con la prospettiva che la propria attività il più delle volte è destinata a terminare nel momento in cui non potrà o vorrà occuparsene, e i giovani rappresentano appena il 5% degli imprenditori (gli under 25 non raggiungono nemmeno l’1% della categoria), il ricambio generazionale è una questione non più rimandabile. Questa demografia delle imprese agricole ha per conseguenza la bassa scolarità dei conduttori (soltanto il 4,5% è munito di laurea, mentre il 14% ha un diploma superiore e il 40% una licenza media inferiore), livello formativo assolutamente inadeguato per le sfide che pone il secolo della conoscenza. In questo scenario l’agroalimentare italiano, e quello sardo in minore misura, vedono un ciclo espansivo per agganciare il quale si dovrà disegnare una agricoltura sarda al 2020 più intelligente, sostenibile e inclusiva. In generale, dal ringiovanimento del mondo agricolo consegue una maggiore scolarizzazione. In questi anni si sono moltiplicati gli sforzi per informare di più e meglio gli imprenditori agricoli, con risultati però tutto sommato deludenti. Occorre, infatti, più formazione per utilizzare meglio l’informazione, per evitare, cioè, che la seconda senza la prima sia come la semente che cade nel deserto. Scolarizzare gli agricoltori e la manodopera immigrata significa, fra le altre cose, dare un senso alle decine di istituti professionali per l’agricoltura sparsi per il territorio sardo che agonizzano. Significa anche rendere gli operatori capaci di navigare in un modo sempre più connesso, in cui i rapporti con le PA e con le banche sono mediati da interfacce ICT; porli in condizioni di regolare dal basso i piani di sviluppo rurale e le azioni dei Gruppi di Azione Locali (GAL), che troppo spesso hanno sofferto di una mancata adesione partecipativa delle imprese. Inserire i laureati in agraria nel sistema produttivo, magari migliorando gli strumenti di accesso ai fondi da coltivare o abbattendo gli oneri fiscali e previdenziali per le Organizzazioni dei Produttori (OP) e le industrie agroalimentari che li assumono, può generare processi innovativi e portare a maggiore ricchezza e nuovi posti di lavoro. Considerare, infine, i dottori di ricerca quale interfaccia del trasferimento tecnologico nei progetti per le PMI (in cui inserire le OP e i consorzi dei produttori) è la chiave per facilitare l’implementazione dell’innovazione nei processi e nei prodotti agroalimentari della Sardegna. In definitiva, la formazione degli imprenditori e della manodopera in agricoltura e nell’agroindustria, sia direttamente che con l’inserimento di diplomati e laureati nelle discipline agrarie, rappresenta il fattore chiave per il rilancio economico del settore e costituisce l’unica via per aumentare i livelli occupazionali, diretti e indiretti, soprattutto nelle fasce giovanili. A questo proposito ci sono due buone notizie: i giovani scommettono nuovamente sull’agricoltura, come dimostra il boom di iscrizioni ai corsi di laurea in Agraria dell’Università di Sassari (+50% quest’anno) e l’avvio di un vasto programma di formazione nel settore dell’informatica e nuove tecnologie, portato avanti da Laore e da Unitel (consorzio telematico delle Università di Sassari e Cagliari) che formerò nel prossimi 6 mesi 3.000 agricoltori in tutta la Sardegna (il progetto TISAA a cui si può aderire iscrivendosi on line sul sito Laore oppure attraverso i SUT o ancora attraverso le Associazioni dei produttori agricoli Coldiretti, CIA, Confagricoltura e Copagri). Progetti per il futuro e maggiore intelligenza diffusa sono le chiavi per il rilancio del sistema agroalimentare sardo, primo baluardo contro lo spopolamento delle zone interne e occasione preziosissima per creare lavoro diffuso, sostenibile e duraturo. *Direttore Dipartimento di AGRARIA, Università di Sassari |
SPOPOLAMENTO, NUOVA POLITICA DI ACCOGLIENZA… UNA LEGGE REGIONALE di INDAGINE per POSSIBILI LINEE DI INDIRIZZO e di AZIONE
Posso sbagliarmi, ma non credo vi sia sufficiente e diffusa consapevolezza della questione “spopolamento e desertificazione” di grandi parti della Sardegna. Eppure gli studi degli esperti ne segnalano la gravità e le conseguenze disastrose proiettando i dati sui prossimi (non lontani) anni. Nella convegnistica e nei singoli interventi di intellettuali, primo tra tutti il prof. Pulina, e politici (pochi) sono state avanzate proposte di intervento, assai differenziate, ma comunque serie e meritevoli di discussione e, una volta trovate quelle migliori, di traduzione operativa. Personalmente sono convinto, come Pulina, che tra le risposte debba esserci una diversa “politica di accoglienza e integrazione”, soprattutto dei migranti del nord Africa, che non deve essere connotata come “buonista”, ma inserita in un robusto programma economico, che riguardi soprattutto l’agricoltura (in senso lato, quindi anche pastorizia, allevamento, etc). E’ una problematica complessa e delicata, tuttavia particolarmente urgente da affrontare. Una proposta che mi convince è che il Consiglio regionale affronti di petto la questione, anche attraverso un’apposita legge regionale che istituisca una commissione di indagine su detta problematica, fissando finalità, modalità e tempi precisi di svolgimento (tre mesi prorogabili a sei, per es.). Si dovrebbe cominciare, come d’obbligo, con una rilevazione dello “stato dell’arte”, già ricco di studi e proposte, per poi arrivare a concretizzare linee di intervento, sostenibili, condivise dalla maggioranza delle parti sociali e dalle istituzioni territoriali e, ovviamente, finanziabili, anche con l’utilizzo dei fondi europei (diretti e indiretti) della programmazione 2014-2020. Una legge regionale, così come proposta, costringerebbe il Consiglio a un forte impegno, come è indispensabile sia, ma la cosa più importante è che la maggioranza dei sardi venga attivamente coinvolta.
Bene il tems della conoscenza (e della competenza), ma per fare ripartire l’agricoltura regionale non basta. Dobbiamo superare un modello di gestione regionale basato su una macchina burocratica e assistenziale che ogni anno assorbe più risorse, distogliendo gli agricoltori dal loro vero obiettivo, favorire la crescita di maggiore competitività per le imprese. Siamo in uno scenario sempre più globalizzato, che rischia di penalizzare aziende e modelli produttivi “tradizionali”, sempre meno competitivi, creando nel contempo grandi opportunità a chi si dimostra più capace di gestirsi. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e l’abbandono delle campagne e lo spopolamento delle zone interne ne sono i sintomi più gravi.
I modelli da seguire ci sono, come il Parteolla, ad esempio, o alcune realtà in Gallura e nella Nurra, sono basati sull’integrazione di filiera e sono quelli che producono i migliori risultati anche in termini di tutela e valorizzazione del paesaggio agrario. A Serdiana dal 2000 al 2010 la SAU è aumentata di quasi il 100o ha, passando da 2500 a 3450 ha, il settore agricolo che produce reddito, contrariamente a quanto accade in quasi tutto il resto dell’Isola.
Non dobbiamo chiudere gli occhi su questi modelli positivi, continuare la politica assistenziale degli ultimi 20 anni come se niente fosse significa fingere di ignorare che l’agricoltura sarda è sull’orlo del baratro.