Per un indipendentismo moderato [di Maurizio Onnis]
Se gli indipendentisti sardi volessero arrivare all’indipendenza della Sardegna con la violenza, in stile d’altro secolo, non ci sarebbe problema: basterebbe tagliare la testa a qualche generale, burocrate, banchiere. Ma gli indipendentisti sardi vogliono arrivare all’indipendenza della Sardegna democraticamente, con l’autodeterminazione popolare e il voto referendario. In questo caso il problema esiste. Per guadagnare il 50% più uno dei voti, bisogna conquistarsi anche la fiducia di generali, burocrati, banchieri. In sostanza, bisogna guadagnarsi la fiducia di coloro che oggi sono contrari all’indipendenza – o agnostici o del tutto ignoranti del problema – e che formano il nucleo più resistente del blocco sociale su cui si regge la dipendenza della Sardegna dall’Italia. Dunque, a generali, burocrati e banchieri aggiungeremmo docenti universitari, giornalisti, grossi imprenditori, esponenti locali dei partiti italiani. Tutte persone che nel sistema attuale, per quante falle esso abbia, si trovano a loro agio, avendo solo da perdere da un suo ribaltamento. Ad essi, ancora, si sommerebbero altre categorie, non così influenti sugli equilibri del potere ma certamente ostili a modifiche incognite della situazione data: dalla filiera dell’impiego pubblico alle centinaia di migliaia di sardi che ricevono una pensione o un sussidio di qualche tipo. Neanche questi hanno un interesse preminente al cambiamento. Rispetto alla prospettiva dell’indipendenza della Sardegna, la gran parte di costoro ha un comportamento che non sarebbe scorretto definire “moderato”. Pensare di arrivare all’indipendenza contro o senza di loro, avendo bisogno del loro voto, è semplicemente un non senso. Perché la gran massa di queste persone fatica tanto ad avvicinarsi all’indipendentismo? In sintesi, possiamo individuare tre motivi. Il primo motivo è già stato esposto: i “moderati” non si trovano tanto male da voler cambiare le cose. Il che in effetti conferma come, sull’arco lungo dei decenni, l’azione dell’autonomismo e dello Stato non sia stata fallimentare quanto si dice. In salute, istruzione, abitazione e reddito i sardi di oggi vivono condizioni migliori di quelle dei nonni e bisnonni. E lo sanno. Il secondo motivo è che l’indipendentismo non suona bene alle orecchie dei “moderati”. È questione di toni e parole: il rivendicazionismo insistito, l’essere “contro” prima ancora che “per”, un certo alone di intellettualismo, la chiara eco degli slogan e delle parole d’ordine della vecchia sinistra, la pretesa della primogenitura, respingono prima ancora che si arrivi a discutere di contenuti. Così il tono e le parole, che sono forma, diventano sostanza: i “moderati” più ottusi non si avvicinano all’indipendentismo perché ne hanno paura, i “moderati” più intelligenti non si avvicinano all’indipendentismo perché, data la sua dimensione ideologica attuale, lo giudicano irrilevante. Il terzo motivo è speculare al primo. Gli indipendentisti, anche nelle loro espressioni più aperte alla società, non riescono a far passare questa idea: che abbiamo le risorse naturali e umane per competere ad armi pari con gli altri popoli, che da indipendenti potremmo gestirci meglio di quanto non sia ora, che da indipendenti prospereremmo. In una parola, che da indipendenti potremmo arricchirci. Perché, sia cosa buona o cattiva, tutto parte e va poi a finire nel portafoglio. La causa di tale incapacità è soprattutto una: gli indipendentisti governano un numero limitatissimo di amministrazioni locali e non possono portare avanti il proprio buon esempio. Le sole parole non bastano. Appena al di qua delle formazioni indipendentiste, si stende oggi una prateria nella quale bivaccano liberi i “moderati”. Attendono che qualcuno trovi la chiave giusta per conquistarli alla prospettiva di un futuro migliore di quello da coloni incoscienti. Non possiamo aspettare che a prendersi il premio sia lo pseudo-indipendentismo movimentista e sempre impegnato in favore di telecamera imperversante adesso: con il rischio che al posto dell’indipendenza la storia ci consegni, più o meno a breve, un populismo demagogico e antidemocratico. All’anima di sinistra dell’indipendentismo deve affiancarsi un’anima moderata. Perché “moderato”, nella sua accezione migliore, non è affatto una parolaccia. E si deve cominciare proprio dall’adottare un linguaggio che la parte più avanzata dei “moderati” capisca e senta vicino. Doveri, non più solo diritti. Riforme e responsabilità, non più solo assistenza. Libertà, non più solo emancipazione. Individuo, non più solo gruppo o collettività. Può darsi che in questo caso, nascondendo le parole una sostanza “moderata”, anche l’indipendentismo diventi più attraente e commestibile. Forse avremo vinto il giorno in cui il primo generale, il primo burocrate, il primo banchiere si convertiranno al progetto di una Sardegna libera, più ricca, più aperta al mondo e al futuro.
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In s’istèrrida de s’artìculu mancat de su totu su mentovu a sa limba sarda. Farta grave.
S’indipendentismu bisadu dae s’autore est un’indipendentismu etèreu, neulosu, sena raighinas; no arrivit a tènnere sa fortza de s’indipendentismu iscotzesu e su tretu chi lu separat dae s’indipendentismu catalanu est de prus de chentuchimbanta annos.
In antis de s’indipendentismu polìticu benit, est unu passàgiu obligadu, s’indipendentismu culturale, chi non si conchistat cun unu referendum. S’aina, s’istrumentu, pro fàghere crèschere e afortiare s’indipendentismu culturale est sa limba, sa limba natzionale, ànima e coro de una sotziedade. Sena custa b’at a èssere petzi sa Utopia, chi est dannosa meda. Comente lu sunt meda “indipendentistas”.