Piazza Matteotti: La piazza degli arrivi e delle partenze [di Enrico Corti]

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Pubblichiamo l’intervento letto da Enrico Corti in piazza Matteotti in occasione della FAIMARATHON Cagliari… tra bianchi colli e piazze svoltasi a Cagliari domenica 12 ottobre un percorso che ha coinvolto 10 piazze della città ed un centinaio di accademici, studiosi, professionisti, intellettuali, artisti che si sono prestati a fare i “ciceroni speciali” per spiegare la bellezza della città del sole (NdR).

La prima idea che mi è venuta, suggerita da questa “Marathon”, è stata quella di ricordare Bernardo Secchi, lui sì urbanista, scomparso troppo recentemente per non sentirne la nostalgia. Nell’ultima sua venuta a Cagliari, nello scorso marzo, ha dato alla sua lezione questo titolo: “L’urbanistica si fa con i piedi”, titolo che, forse ai più, suggerisce la constatazione che all’urbanistica si può attribuire la qualità delle cose fatte male, con i piedi appunto; nel suo significato positivo, invece, il titolo sottolinea il senso del camminare attraverso la città, l’esplorazione libera e la scoperta misteriosa delle infinite relazioni che la città dischiude quando il ritmo del passo e del respiro mischiano spazio tempo e pensiero attraverso il movimento.

Poi ho preso atto dell’argomento che mi è stato assegnato, ed ho iniziato a considerare che anche l’arrivare e il partire sono categorie del movimento che possiedono però qualità, caratteristiche diverse; sono, in effetti, dei punti di discontinuità rispetto alle consuete categorie spazio-temporali del nostro vissuto quotidiano, e dunque, poiché sono invitato a parlare “come urbanista” eccomi qui a domandarmi come sia interpretabile urbanisticamente e quindi progettualmente una piazza per arrivare e per partire.

Enunciato così, il problema si sembra un ossimoro, una contraddizione nei termini perché la piazza, nel catalogo urbanistico, è un luogo pensato e progettato apposta per “prendere posizione”; nella nostra cultura urbana, forse più che in altre, è quasi l’archetipo del progetto urbano così come luminosamente sboccia nella primavera rinascimentale. Se abbiamo sottocchio una delle rappresentazioni della “città ideale” (ad esempio la tavola conservata ad Urbino) e, soprattutto, se leggiamo Leon Battista Alberti, ecco che l’origine del progetto urbano ci viene spiegato con molta chiarezza: ecco la città, luogo dell’episteme, della consapevolezza individuale e collettiva e per questo luogo del progetto.

Solo la città, infatti, si progetta; fuori dalla città si estende la campagna che si coltiva, non si costruisce come la città; come la “città moderna” – intende Leon Battista Alberti – che non è più l’affastellarsi spontaneo e casuale delle cose necessarie alla vita quotidiana, ma è progetto consapevole dell’uomo che prende posizione, che si pone al centro e da ordine allo spazio e al tempo. Infatti il progetto per la città ordina lo spazio e il tempo e questo ordinamento è sembrato –allora- possibile perché Brunelleschi, tracciando le sue prospettive secondo regole geometriche e dimostrandone la perfetta corrispondenza con ciò che l’occhio vede, ha rivelato che lo spazio non è amorfa estensione, ma base di misura che può essere ordinato dalla geometria.

Congiuntamente, la riscoperta dell’architettura classica che i ruderi romani restituiscono in tutta la sua potente espressività, ha rivelato il vero significato dell’architettura, materia che ingloba pensiero che si tramanda nei secoli con il proprio universale linguaggio. Così dunque, come la geometria ordina lo spazio, la storia, attraverso l’architettura ordina il tempo e da allora geometria e storia sono le forme dell’ordinamento della città, sono cioè le forme che ce la rendono comprensibile.

Se aprite il libro Stampace, edito dal Comune molti anni fa, frutto del lavoro di veri studiosi della città, trovate rappresentata in prospettiva la piazza in cui adesso ci troviamo.

Per rappresentarla, avverte l’autore Michele Pintus, si è dovuto escludere dal disegno questa imponente massa di alberi e di verde, per consentire all’occhio di prendere posizione e agli edifici rappresentati di trascrivere la loro storia: La prospettiva presa dal lato di via Roma, mostra di scorcio il palazzo civico, il palazzo Vivanet e, di fronte, il palazzo della stazione ferroviaria: personaggi sulla scena urbana e il libro che ho citato, raccontandone la storia a partire dall’architettura, ci aiuta a dipanare anche la nicchia del tempo che ora ci accoglie e quindi a prendere posizione con le nostre coordinate spazio-temporali.

Ma, come è evidente, non è questo il tipo di luogo che cerchiamo, il luogo per arrivare e per partire; un luogo nel quale subiamo, per così dire, una sorta di dislocazione spaziotemporale, di uscita o di entrata nella condizione artificiale, non locale, tecnologica del nostro viaggiare contemporaneo. E allora, mi domando: c’è qualcosa nel catalogo dell’architettura e dell’urbanistica che ci può aiutare a interpretare in senso progettuale questo “dislocarsi”?

Quando nella seconda metà dell’Ottocento comparvero sulla scena urbana parigina le imponenti costruzioni delle stazioni ferroviarie, quell’insieme strepitoso di pietra, ferro e vetro (basti pensare alla Gare Saint Lazare piuttosto che alla Gare d’Orsay), queste stazioni furono chiamate les usines des reves, le fabbriche dei sogni, quasi certamente perché in quegli edifici allora si poteva concentrare molta della immaginazione e speranza utopica del futuro. Tuttavia la parola sogno, mi sembra molto appropriata anche per descrivere quella sorta di esperienza spazio-temporale che stiamo cercando, una transizione tra sistemi di coordinate, una sospensione nei confronti della realtà percepita.

La parola “sogno” mi conduce così a quei luoghi nei quali la città prende le distanze da se stessa e cede il passo ad altri ritmi, ad altre forme. Questa forma, nella città storica, è il giardino e ogni cultura ha elaborato i suoi modelli di questo altro della città nella città; di queste forme di dislocamento spaziale e temporale che aprono le frontiere ad altre realtà, ad altri sogni (o incubi), come il labirinto che ci impedisce di uscire costringendoci nei suoi meandri o ad altre iper-realtà come nelle prospettive barocche che ci dissolvono nell’infinito.

Alla fabbrica dei sogni, alla nostra esperienza di viaggio, del partire e dell’arrivare, non possiamo accedere che tramite un giardino e il catalogo dell’urbanistica ci rappresenta questo modello: Anche per Cagliari: di fronte all’edificio della stazione c’era il suo giardino, disegnato con le regole del tempo, ed era, in ogni caso consuetudine che le compagnie ferroviarie acquisissero gli spazi antistanti per questa funzione. Ed ancora oggi, se cerchiamo di scoprire la reale natura di questo luogo, ci accorgiamo che dobbiamo mettere da parte l’idea di “piazza”.

Potremmo invitare Michele Pintus a tracciare la prospettiva anche dal lato opposto, dall’angolo della stazione verso via Roma: noteremmo allora che in realtà lo spazio sfugge da tutte le parti e anche gli edifici che stanno sul lato destro, non sembrano personaggi della scena, al più comparse occasionali in attesa di lasciare il posto. L’unica presenza ordinatrice è l’imponente massa arborea che si collega all’allineamento di via Roma e, idealmente, a quella grande infrastruttura verde che è l’impianto morfologico ottocentesco che ancora tiene insieme la città.

La cultura di oggi ci allontana dal silenzio sognante del giardino e tuttavia a questa metafora “viaggio-giardino” vorrei che si ispirassero i progetti di oggi ricamando un po’ dell’antica poesia: forse questo è l’unico centro intermodale di cui abbiamo bisogno.

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